Freud e la Bosnia

Che c’entra la psicanalisi con la Bosnia Erzegovina? Si tratta di una metafora suggestiva adottata da Christophe Solioz (foto) per spiegare il ruolo della comunità internazionale nella Bosnia di ieri e di oggi. Nostra intervista raccolta durante il convegno tenutosi a Venezia il 3 e 4 dicembre

15/12/2004, Luka Zanoni -

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Christophe Solioz

Osservatorio sui Balcani: In un tuo recente saggio hai fatto un accostamento tra l’intervento della comunità internazionale in Bosnia Erzegovina e la terapia psicoanalitica, riferendoti a Freud hai posto l’accento sulla possibilità che l’analisi sia interminabile. Spiegheresti meglio questa metafora?

Christophe Solioz: Trovo che la lettura del testo di Freud ("Analisi terminabile e interminabile" 1937) sia abbastanza interessante soprattutto se al posto di analisi si sostituisce il termine intervento. Nel testo Freud cerca di analizzare una procedura che egli stesso ha cercato di mettere in pratica, ossia un tipo di analisi breve. E a questo proposito parla della frenesia americana che cerca in modo ossessivo di fare le cose in fretta. Tuttavia tale ritmo non corrisponde al tempo che occorre per un intervento e in particolare per un lavoro analitico. Questo fa pensare che l’intervento della comunità internazionale (ma bisogna intendersi sul tipo di intervento e quale è il suo scopo) richiede un tempo molto lungo. Se si osservano i processi di trasformazione tanto nell’Europa occidentale che in quella orientale e centrale, sia a livello economico che politico, notiamo che richiedono decenni. E quindi, da una parte è giusto chiedersi perché in Bosnia dopo dieci anni ci sono solo così pochi risultati, ma dall’altra parte è anche normalissimo che sia così. Perché i processi di trasformazione, soprattutto dopo uno stato di guerra molto cruento, possono svilupparsi solo nel lungo periodo. Ma qualcuno potrebbe obiettare: quindi l’Alto rappresentante rimarrà lì per venti o più anni? Personalmente non è questo che ho in mente. Bisogna innanzitutto considerare la posizione dell’analista…

OB: Chi è l’analista in questo caso?

Christophe Solioz: Nel nostro caso è la figura dell’assente. Perché è una posizione che la comunità internazionale non assume. Ha un ruolo da psicoterapeuta e non da analista. L’analista svolge la sua analisi, anche non dicendo niente. Se assumiamo, per esempio, la prospettiva lacaniana, notiamo che l’analista, in modo anche provocatorio, non dice niente, tuttavia egli spinge l’analizzato nella posizione in cui può assumersi la responsabilità della propria analisi. È questo che ho voluto provare con i miei amici intellettuali in BiH, ossia metterli in condizione di riflettere sul loro Paese. Credo che sia una cosa interessante perché mette al posto dell’attore, cioè di colui che agisce, il cittadino bosniaco.

OB: Possiamo parlare di un transfert negativo, in cui la comunità internazionale rimane profondamente coinvolta nell’analisi?

Christophe Solioz: Sì, seguendo la metafora psicanalitica possiamo sviluppare diversi filoni di analisi. Per esempio, senza nominare Freud, Zarko Papic parla di una "sindrome da dipendenza". Ciò che è importante nell’ottica psicanalitica è che questa dipendenza venga analizzata e non solo dalla comunità internazionale, ma anche dagli attori locali. Se vogliono uscire dal rapporto di dipendenza, devono essere in grado di riflettere su tale dipendenza.
Ora, non si tratta di introdurre la psicanalisi a tutti i livelli. Piuttosto di collocarci in una posizione differente che ci permetta di rendere più forti certi pensieri, certe attitudini che noi stessi già assumiamo. Faccio un altro esempio: prendiamo il termine resistenze. Queste ultime vengono analizzate e non condannate. Si pensi a quello che è successo non solo in Bosnia, ma anche in Kosovo o in Serbia. Certi fenomeni politici possono essere rappresentati come resistenza interna ad un processo troppo diretto dalla comunità internazionale, quindi da parte di attori esterni. Credo che certe crisi politiche, per esempio quelle del marzo in Kosovo, o dell’omicidio Djindjic, siano segnali molto forti, non auspicabili certamente, ma indici di come una società è in grado di resistere ai cambiamenti, perché questi cambiamenti sono traumatizzanti. È un modo di dire che non siamo pronti, non siamo ancora capaci, ci vuole tempo. Noi spesso vediamo questi fenomeni in termini esclusivamente negativi, però si tratta di questioni che devono essere analizzate. Lo stesso accade in Croazia con le resistenze rispetto alla adesione all’UE, perché manca un consenso, perché non c’è un’adesione generale. Perché il soggetto collettivo non è ancora pronto al cambiamento. Certo, per noi che siamo fuori e che aspettiamo da tanti anni, che vorremmo un altro Kosovo o un’altra Bosnia, e che siamo in contatto con le persone che in questi paesi lottano per attuare dei cambiamenti, è diverso. Spesso ci manca la distanza e la pazienza per poter dire lavoriamo sodo e continuiamo a lavorare. Dobbiamo essere consapevoli che ci vuole tempo e le cose non cambiano nel breve periodo. Così che si possa entrare in un altro atteggiamento anche rispetto al tempo. Noi stessi dobbiamo ascrivere la nostra azione nel tempo. La nostra azione di solidarietà non è un flirt, non è una psicanalisi breve, non è un intervento breve di tipo americano dove arrivo e me ne vado in fretta…

OB: quindi siamo più vicini ad un’analisi interminabile?

Christophe Solioz: Certo, siamo in un processo che non finisce, nel senso che sbocca nell’autonomia di soggetti che si ritrovano, e ad un certo punto l’analisi…

OB: …diventa autoanalisi?

Christophe Solioz: Sì, e abbiamo a che fare con un soggetto che si è ritrovato, e se si traduce questo a livello collettivo vediamo che c’è un tempo di maturazione. Insomma ho cercato di collegare questo discorso di tipo freudiano con il concetto di ownership di Wolfgang Petritsch e altri, ossia di una cosa che non si può implementare in pochi anni. Se pensiamo ancora alla psicanalisi, vediamo che è necessario reintegrare il passato del Paese. Penso agli studi di Neven Andjelic sul passato recente della Bosnia. Sicuramente ci vorrà anche la reintegrazione del passato remoto del Paese, quello della Bosnia antica, del medioevo. Ma qui in particolare alludo agli studi di Andjelic sulla Bosnia del periodo comunista. Si tratta di un lavoro faticoso che in analisi viene condotto sulla propria storia, si tratta di un lavoro di rielaborazione. Ovviamente se si interviene in modo tecnico, imponendo degli schemi di nation bulding ecc, allora ci si dimentica di inserire tutto ciò nel contesto locale e ci si dimentica pure di portare il soggetto ad impadronirsi del proprio passato e di dargli un senso. Questo è un lavoro che fa anche la storia. Sempre si guarda indietro, ma si interpreta in un modo nuovo.

OB: Viene da pensare a Henri Bergson quando parlava dello "sguardo retrogrado del vero"…

Christophe Solioz: Certo, c’è sempre l’idea che la persona elabori il vissuto e soprattutto che sia una cosa individuale, e poi che tanti individui, in Bosnia, facciano lo sforzo di riappropriarsi del proprio passato, del passato di una nazione che non è sovrana. In questa ottica si possono capire in parte, per esempio, quei fenomeni di brain drain (fuga di cervelli, ndr.). La domanda è: come faccio a stare a casa quando a casa sto male? Non si tratta solo di un fattore economico, anche se è quello più importante. Si tratta anche del sintomo di un lavoro che sfugge. Spesso l’analizzato interrompe l’analisi perché è un lavoro troppo duro.

OB: Succede spesso…

Christophe Solioz: Sì. L’aspetto interessante del testo di Freud è che emerge come già allora fosse presente l’idea di fare in fretta. Per usare la metafora amorosa, nel nostro caso non si tratta di un flirt, perché ci troviamo di fronte ad un rapporto che si sviluppa in un lungo periodo. Ciò comporta altre esigenze, sia a livello personale che interpersonale. Penso che questo possa incoraggiare le persone che lavorano nella solidarietà internazionale, ossia che le aiuti a pensare che questo è un lavoro che non finisce. Tuttavia ogni volta bisogna concepire, cioè mettere in questione, soprattutto la posizione in cui pongo il mio compagno, il mio amico o l’associazione locale con cui lavoro. Ossia in che posizione li colloco? come oggetti? o come dei soggetti di una storia che è intrecciata in un processo molto lungo e doloroso di definizione di sé e del proprio Paese? Ma in quest’ultimo caso andiamo oltre la psicanalisi e raggiungiamo una dimensione politica che rende tutto molto più difficoltoso.

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