La Turchia tra i Balcani e l’UE
Pubblichiamo l’intervista realizzata dal settimanale croato "Feral Tribune" a Ekrem Causevic, direttore e fondatore della cattedra di turcologia presso la Facoltà di filosofia di Zagabria. Il professor Causevic parla delle riforme all’interno della società turca e dell’espansione dell’Unione europea verso Oriente, dei luoghi comuni e delle resistenze dei Balcani verso l’eredità ottomana
Di Igor Lasic, Feral Tribune, 22. dicembre 2004 (tit. orig. Le ambiguità dell’Europa verso la Turchia)
Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Ivana Telebak
– Nei nostri paesi è consueto considerare i Turchi come grandi amanti del caffè, e a tal proposito esistono banali detti e frasi. Siccome lei è un turcologo e stiamo proprio bevendo il caffè, potrebbe spiegarci in modo appropriato di che cosa si tratta?
– E’ noto che i Turchi non bevono poi così tanto caffè, generalmente bevono di più il tè. Da loro non esiste nemmeno il termine "caffè turco"; tale termine è stato creato in Bosnia, e intendeva la distinzione rispetto al caffè preparato con lo zucchero. Naturalmente, nel periodo turco ottomano in Bosnia ed Erzegovina si beveva più caffè che tè. Ma, saltuariamente fu introdotto anche il divieto di bere il caffè, così il sultano Mahmut III vietò il caffè e il fumo, considerando che tutto ciò che nuoce alla salute contraddice alla regola religiosa. Esiste un aneddoto sul suo conto, che dice che a volte si travestiva e di notte visitava varie trattorie di Istanbul, per controllare quanto fosse rispettato il suo divieto, sapeva anche salire sui tetti per poter odorare il narghilè e il bricco per il caffè… Il divieto però non rimase a lungo, e anche l’abitudine col tempo cambiò. Oggi i Turchi, quando non bevono il tè, spesso bevono un caffè che per noi è esotico, con vari aromi, un’eredità degli Arabi. E "il caffè turco" è, in effetti, il caffè bosniaco.
"I Turchi croati"
– Cosa dicono i Turchi quando sentono il nome che noi usiamo?
– Si sorprendono sempre quando glielo racconto. Ma anche quando gli nomino anche i nostri detti, come quello "beve il caffè come un Turco"…O "fuma come un Turco". Purtroppo, la maggior parte di tali detti ha una connotazione negativa, e non fa piacere a nessuno. Sicché queste cose li possono sì divertire, ma anche frustrare, specialmente tra quei Turchi che hanno un senso d’identità più manifesto, con reminiscenze ottomane e che sono afflitti da malinconia. Amano vedere se stessi e la gente di tutti i Paesi che erano sotto il potere ottomano come dei "nipoti della stessa civiltà". Invece, in una parte della cosiddetta scienza turca esiste il termine "Turchi croati", e con ciò intendono proprio i Croati.
– In entrambi i casi, ciò ricorda Franjo Tudjman e il suo preferito richiamo storico alla Bosnia come "Croazia turca"?
– Ecco, anche qua si potrebbe parlare dello sfruttamento di un caso storico. In Turchia però una corrente estremamente orientata verso il nazionalismo, tale da scontrarsi con il punto di vista di Orhan Pamuk per es., pretende come propri anche i popoli della lontana preistoria, e non solo i Croati. Tali scienziati turchi mettono gli Sciiti fra i Turchi, senza accettare discussioni, sebbene noi sappiamo che tale tesi non è sostenibile scientificamente. Anche i popoli di tutte le civiltà dell’antica Anatolia. Sumeri, Ittiti… Per loro sono tutti antichi Turchi.
– Quanto tale corrente ha fatto presa nella società turca?
– Naturalmente, non ha presa nelle università aperte e altamente quotate, ma in quelle private, che si scambiano fra di loro i professori. Ma, nella gran parte delle università statali è radicata una determinata dottrina, risalente agli anni trenta del ventesimo secolo e al periodo di Mustafa Kemal Ataturk, che proviene ancora prima da uno scienziato austriaco di nome Kvergich e la cosa interessante è che probabilmente era d’origine croata… Egli lanciò la tesi secondo la quale i popoli turchi sono i più vecchi al mondo, e che tutti gli altri derivano da loro. Quando Ataturk ruppe completamente il legame con l’identità ottomana dei Turchi, sfruttò tale idea per creare la nuova identità. Si trattò del tentativo di introdurre una continuità con la preistoria, per saltare il periodo ottomano, del cui peso Ataturk voleva liberarsi. E’ noto che tutto quel periodo fu da lui ridotto ad un livello simbolico.
– E’ interessante vedere come Ataturk ha posto una linea netta fra religioso e secolare, non basandosi sulla componente religiosa per sostenere la nuova identità turca, anzi al contrario.
– Ataturk fece un drastico e a tratti sanguinario taglio, ma fece di un paese che non si era mosso dal 17° secolo neanche di un passo uno stato moderno. Piuttosto usò come punto d’appoggio un esercito indottrinato; che tuttora è rimasto tale, ed è talmente incorporato nella società che gli alti ufficiali dell’esercito fanno parte persino dei corpi delle università statali o delle commissioni per i giornali pornografici… Però, negli ultimi due anni, considerato il desiderio della Turchia di entrare nella UE, sono stati fatti degli incredibili passi avanti, a dire il vero non senza disaccordi. Il Parlamento per mesi ha discusso su questioni per le quali fino cinque anni fa era impensabile soltanto farne cenno, come la maggiore libertà per le minoranze…
Riforme e disaccordi
– D’altra parte, tanti paesi europei sono molto sensibili e seriamente preoccupati circa la questione dell’ingresso della Turchia nella UE…
– Per primo bisognerebbe definire cos’è l’Unione europea. Tale domanda è fra l’altro la prima che nomino, quando, per esempio, parlo di questo argomento con i colleghi turcologi della Germania. Alcuni definiscono la UE come un’organizzazione padronale, altri come un’organizzazione politica, politico-economica, culturale… In certi ambienti democristiani esiste la tendenza ad una definizione della componente cristiana e di base dell’Unione europea o della stessa Europa. Ma, bisogna tenere presente che proprio la Turchia è il principale ponte fra l’occidente e l’oriente. È l’unico paese che è quasi al 100% islamico,e che funge da modello per tutti i paesi turcofoni dell’Asia centrale, su come creare uno stato secolare con una tale struttura religiosa della popolazione. E’ una cosa molto apprezzata in questo momento dagli Stati Uniti, ma anche l’Unione europea potrebbe chiedersi fino a quando pensa di poter usare l’influenza della Turchia nel mondo islamico, la sua perfetta posizione geostrategica, oppure contare sul suo enorme esercito, il più grande nel medio Oriente, e contemporaneamente in modo ambiguo respingerla da sé. Credo che la Turchia entrerà comunque nell’UE, perché senza di lei non avranno successo neanche i tentativi occidentali di far avanzare il dialogo in Medio Oriente.
La manipolazione della storia
– Perché da noi non è riconosciuta l’eredità della presenza di quattro secoli della Turchia, e non solo in Croazia? In Bosnia ed Erzegovina, a causa dell’ultima guerra, si è persino arrivati all’irruzione dell’influenza araba, e a un certo punto proprio a spese dei Turchi…
– Quello che spesso le persone non sanno, è che la Turchia fino alla fine del 17° secolo era uno stato forte e sviluppato, che funzionava ad ogni livello, ed era multietnica. Ottomano è un termine politico, dunque, non etnico. Le conseguenze negative del regno turco su questo territorio iniziano solo dopo, senza considerare gli stessi orrori delle prime conquiste. La Turchia, invece, nel 18° e nel 19° secolo, visse l’agonia del grande impero che stagnava sui principi feudali, rispetto ai Paesi europei che allora attraversavano il periodo della loro prosperità. Il crollo durò più di un secolo e mezzo, così che la tragedia della grande e decadente tirannia che in quel periodo si sviluppava, trascinò con sé tutti i Paesi balcanici. Se potessimo parlare della storia al condizionale, potremmo dire: "se almeno la Turchia se ne fosse andata due secoli prima"… Ciò ci avrebbe risparmiato la sua più tarda influenza negativa, e sarebbe stato meglio anche per lei. Purtroppo, l’attuale accoglienza dei Paesi balcanici è rimasta a quel periodo, e spesso viene pure manipolata dagli storici.
– E’ noto anche l’esempio dell’abuso dell’opera letteraria di Ivo Andric.
– Ciò si faceva, e si continua a fare, sia all’estero che qua, persino in Bosnia ed Erzegovina. L’accoglienza negativa di Andric in Bosnia ed Erzegovina si basa sull’errata convinzione che egli abbia descritto molti dei personaggi bosniaco-musulmani in modo caricaturale. Ciò non è vero, perché quel grande scrittore parlava di tipi di persone, e non di tipi appartenenti ad alcune etnie o confessioni. Orhan Pamuk mi ha detto che in Turchia l’accoglienza del romanzo "Il ponte sulla Drina", che in Bosnia spesso veniva visto in modo negativo, giunge fino alla celebrazione di un’opera che parla del passato dell’impero Ottomano! Loro lo accolgono come una letteratura eccellente che parla del loro passato, senza pensare che lo scrittore li abbia in qualche modo offesi.
– La traduzione che lei e la sua assistente Marta Andric avete fatto del romanzo "Mi chiamo Rossa" di Orhan Pamuk, è vista come un’impresa della Cattedra di turcologia di Zagabria, da voi fondata dieci anni fa. Come valutate il periodo trascorso?
– Quando fondammo la cattedra, godevamo di condizioni favorevoli. Esisteva un desiderio politico e un bisogno culturale. Ciò riguardava, naturalmente, anche il rapporto fra la Croazia e la Turchia di allora. Ma, l’idea di fondare una cattedra di turcologia a Zagabria è vecchia, risale ancora all’inizio del 20° secolo, ai tempi del famoso Safvet beg Bagasic, che fece il dottorato in orientalistica e turcologia a Vienna. Esisteva una coscienza della parte non esplorata della storia croata, in quei Paesi che per un certo periodo erano rimasti sotto l’impero ottomano. Sia detto tra parentesi, l’altro giorno è uscito un altro mio libro, che parla delle interessanti avventure di un carcerato ottomano in Croazia, "L’autobiografia di Osman-aga Temisvarski". E ciò è soltanto uno degli innumerevoli documenti turchi che parlano del passato croato. A Zagabria oggi lo studio della turcologia è concepito in modo tale che affrontiamo la lingua turca moderna, e come materie d’aiuto la lingua ottomana e persiana, perché sono estremamente necessarie per imparare una lingua artificiale e molto complessa come è quella di quell’epoca… Il primo anno si sono presentati 200 candidati, ne abbiamo presi 20. Alcune volte vengono solo per curiosità; alla mia domanda cos’è che vi attira, ci sono state anche risposte come: "Sono sempre stato attirato da quei paesaggi turchi, con le carovane e simili". Uno studente mi ha detto: "La Bosnia è qua vicino, voglio comunicare." Ma, evidentemente col tempo la comprensione della turcologia fra i giovani è cambiata completamente. Gli studenti d’oggi si accostano a tale cultura per poterla osservare dall’interno, con passione scientifica e culturale.
La resistenza verso Pamuk
– La letteratura turca, di cui avete tradotto (anche) Orhan Pamuk, non è poi così conosciuta fra i lettori di qua?
– La letteratura ottomana turca ha una tradizione lunga; si sviluppa con una certa continuità sin dal 13° secolo fino ai nostri giorni. Fino alla metà del 19° secolo molto spesso scritta in lingua persiana, è la letteratura dei ceti colti e altamente posizionati, una letteratura assolutamente fatta con lo spirito, con la metrica, con gli ideali e la poesia della letteratura araba e persiana… Nella letteratura artistica della metà del 19° secolo avviene un grande cambiamento, nel contesto dei numerosi tentativi turchi di riformare lo stato. Per i riformisti il modello erano i francesi; si trattava di una sorta d’ossessione, anche oggi nella lingua turca ci sono molte parole francesi. Alla fine del 19° secolo, sorgono i primi scrittori turchi che scrivono coi canoni della letteratura francese. Per esempio, è molto famoso Omer Seyfettin, che in qualche modo imitava Maupassan. Ma, era la prima volta che qualcuno avesse abbandonato i canoni quasi astratti della letteratura di allora, e si accostava a temi, circostanze, problemi concreti,… Nel 20° secolo, fino a Orhan Pamuk, nella prosa non ci sono stati dei veri tentativi di costruzione di una letteratura postmoderna. Il romanzo non era problematico, ma descrittivo. O aveva forti componenti tematiche sociali, oppure era di genere amoroso. E’ proprio incredibile quanti romanzi d’amore sono stati scritti nella letteratura turca! Negli anni settanta e ottanta nasce un gruppo di giovani scrittori, che cerca di allontanarsi tematicamente da tutto ciò, che studia i più recenti principi della letteratura occidentale, che tratta in modo diverso la forma e il contenuto, e l’elaborazione del tema. C’è una cosa paradossale: la resistenza a ciò ancora oggi è così grande che Pamuk in Turchia non si sente a casa sua. Fra altro, nel paese si è fatta dell’isteria anche quindici anni fa quando fu tradotto Milan Kundera. Il ceto intellettuale fu diviso dalla questione se Kundera dovesse essere considerato come vero romanziere, oppure semplicemente come un ossesso carnale, sessuale; della metafisica o della fisica?Ancora oggi parecchie persone in Turchia credono che si debba scrivere in modo altisonante sui temi d’amore e su quelli sociali, come la lotta contro l’arretratezza, e sul passato nazionale con un patos patriottico, scrivere romanzi sulla storia ottomana e l’eroica preislamica.
– Ma, Orhan Pamuk in qualche modo non si incastra in una tale visione della letteratura?
– Pamuk relativizza tutto ciò, su molti livelli, e si pone nel contesto della politica e della teoria della letteratura, e contrasta tutti gli esempi occidentali. Questo in Turchia gli valse e gli vale tuttora come un rimprovero, talvolta definito come una profanazione del Testo sacro. Pamuk riesce ad avere buone tirature: "Rossa" è uscita in 170 mila copie, in un paese di 70 milioni di abitanti – ma non sono convinto che tale interesse non sia dovuto in gran parte alle conseguenze della resistenza nei suoi confronti. Piuttosto, lo stesso Pamuk ha sottolineato chiaramente di non mettere al primo posto la sua identità turca, bensì di porre prima di tutto la sua identità letteraria.