L’Europa, la Turchia e il 17 dicembre
Il dibattito sulla apertura dei negoziati di adesione visto da Ankara. Le complesse reazioni dell’opinione pubblica turca. L’entusiasmo del premier Erdogan e la ricomparsa sulla scena pubblica del vocabolario nazionalista. Il ruolo dei media e la questione di Cipro. L’identità e il destino di Turchia ed Europa, la strada da fare.
Con questo articolo ha inizio la collaborazione con Osservatorio sui Balcani di Fabio Salomoni. Nato a Lecco nel dicembre 1967, laurea in Scienze Politiche alla Università Statale di Milano, Fabio Salomoni vive dal 2001 ad Ankara, dove è dottorando in Sociologia presso la Middle East Technical University. La redazione e tutto lo staff di Osservatorio danno a Fabio il più caloroso benvenuto!
A qualche settimana dalla conclusione del vertice di Bruxelles del 17 dicembre è possibile tentare un primo bilancio degli effetti che i dibattiti e le decisioni da esso scaturite hanno prodotto nella società turca.
La scena politica presenta un quadro abbastanza netto: da un lato l’entusiasmo del governo Erdogan e del suo partito, che hanno scommesso sulla ruota europea tutta quanta la loro credibilità ed il loro futuro politico. Un entusiasmo che genera un grande attivismo sul piano istituzionale e politico mirato a gestire nel modo più efficace il delicato da qui all’ottobre prossimo. Dall’altro invece le feroci critiche dell’opposizione, rappresentata dal partito CHP (Cumhuriyet Halk Partisi, Partito Repubblicano del Popolo), ideologicamente allo sbando, dilaniato da feroci lotte intestine ed incapace di costituire una visione politica alternativa, che accusa Erdogan di non essere stato capace di difendere gli interessi del Paese e di essere tornato da Bruxelles solamente con un pugno di promesse.
L’opinione pubblica invece è attraversata da sentimenti e reazioni più complesse ed contraddittorie.
In primo piano vi è sicuramente la soddisfazione per aver centrato un obbiettivo atteso da lungo tempo e che, nelle settimane precedenti il vertice, sembrava essere messo in seria discussione: una data certa, il 3 ottobre 2005, per l’inizio delle procedure che avranno come obbiettivo la piena adesione della Turchia all’Unione. Scongiurato quindi il pericolo di soluzioni alternative, quali quella di uno statuto speciale, ventilate da molti ambienti politici europei.
Accanto alla soddisfazione però, si presenta un groviglio di sentimenti dal carattere più controverso. Primo fra tutti un generale senso di logoramento generato dal carattere martellante che ha assunto la "campagna europea" che, quantomeno negli ultimi due anni, ha monopolizzato l’attenzione dei mass media e l’agenda politica. Essa ha oscurato molte delle questioni che attanagliano la vita quotidiana di gran parte del Paese, povertà e disoccupazione fra tutte, ed ha prodotto una vera e propria overdose d’Europa tra i cittadini turchi. La decisione del 17 dicembre lascia nel Paese un generale senso di sollievo.
Il dibattito sull’adesione turca che nei mesi scorsi ha infiammato le opinioni pubbliche europee, è stato seguito nel Paese con grande attenzione mista a curiosità ed irritazione.
Il riproporsi delle questioni identitarie, della diversità culturale, e l’insistenza sul carattere islamico del Paese hanno fatto riaffiorare dubbi sulla reale natura dello sguardo europeo verso la Turchia, al di là della retorica sull’incontro tra civiltà.
Anche temi più concreti quali il ritardo economico del Paese, il suo peso demografico e la sua delicata posizione geografica hanno destato non poche perplessità. In generale ci si chiede perché tutte queste delicate tematiche, ben presenti nell’opinione pubblica turca, siano state discusse dagli Europei solamente ora e non, ad esempio, nel 1999 ad Helsinki, quando l’UE decise di accettare la candidatura turca subordinandola al rispetto dei Criteri di Copenaghen. La sensazione è che all’epoca l’Unione non avesse serie intenzioni di combinare il matrimonio con la Turchia e non credesse nemmeno nelle capacità del Paese di realizzare le riforme richieste. Insomma la risolutezza turca sembra aver colto di sorpresa gli Europei.
Inoltre, se il vertice di Bruxelles ha stabilito una data per l’inizio delle procedure di adesione, esso però ha anche previsto l’applicazione a queste procedure di una serie di "limitazioni permanenti"(derogations). Esse coinvolgono aspetti molto delicati: la sospensione della libera circolazione delle persone, la rinuncia a fornire aiuti economici per la ristrutturazione del settore agricolo (che impiega la metà della forza lavoro del Paese) e fondi destinati al sostegno di progetti di sviluppo regionale. Misure che rafforzano la sensazione che l’Unione nutra al fondo una profonda diffidenza verso la Turchia. L’applicazione di quello che i turchi definiscono "doppio standard", riaccende le paure per cui il Paese, una volta entrato nell’Unione, possa essere relegato al rango di un membro di seconda classe, senza godere pienamente dei diritti e delle opportunità degli altri Stati membri.
E’ la questione cipriota però a rappresentare il punto più delicato delle relazioni turco-europee ed a costituire la cartina di tornasole dell’ambiguità europea verso la Turchia. Infatti l’unica condizione posta al Paese per l’avvio delle procedure il 3 ottobre prossimo, è la firma di un Trattato con i dieci nuovi Stati membri, compresa la Repubblica greca di Cipro. Al di là delle questioni prettamente tecniche, ampiamente dibattute dai giornali, se la firma di questo trattato comporti un pieno riconoscimento diplomatico della Repubblica greco-cipriota da parte della Turchia oppure sia solamente un riconoscimento light, come lo ha definito il ministro olandese Lagendijk, il nodo centrale è rappresentato dall’insensibilità europea per le ragioni turche e dalla storica mancanza di comprensione verso le traversie vissute dalla minoranza turca dell’isola.
L’attuale situazione di divisione politica dell’isola è il prodotto delle vicende accadute nel 1974, quando l’esercito di Ankara ha invaso la parte settentrionale per difendere la minoranza turca, duramente colpita in termini di perdite umane e materiali, dal clima di violenza instauratosi nel paese a seguito del colpo di stato appoggiato dalla Grecia dei colonnelli. L’intervento militare turco, che ha portato alla partizione dell’isola, si è realizzato nel quadro del Trattato di Garanzia che faceva della Turchia, della Grecia e dell’Inghilterra, i paesi garanti dell’indipendenza dell’isola.
Il trattato prevedeva che ciascuno di essi avesse il diritto di intervenire nel caso in cui fosse in pericolo l’indipendenza di Cipro, e la giunta militare dell’isola non nascondeva all’epoca propositi di ricongiungersi con la "Madrepatria greca". Da allora la Repubblica Turca di Cipro del Nord, riconosciuta ufficialmente solo dalla Turchia, è isolata da un embargo internazionale e completamente dipendente da Ankara sul piano politico ed economico. L’ammontare dei fondi che la Turchia ha stanziato per la comunità turco-cipriota dal 1974 ad oggi ha ormai superato i 300 miliardi di dollari.
Il più recente tentativo di trovare una soluzione alla questione della separazione dell’isola è stato il piano elaborato dalla Nazioni Unite, il Piano Annan, che sostanzialmente prevedeva una soluzione federale per le due realtà politiche. Esso è stato sottoposto a referendum nella scorsa primavera. Mentre la parte turca in larga maggioranza lo ha approvato, vincendo le resistenze del vecchio leader Denktas ed anche quelle di molti ambienti di Ankara, quella greca lo ha respinto. L’ambiguità europea si è concretizzata in almeno due occasioni: la prima quando l’Unione ha sostenuto il piano federale di Kofi Annan e contemporaneamente ha completato le procedure per l’adesione della parte greco cipriota. La seconda quando, immediatamente dopo il referendum, l’UE si è congratulata con la popolazione turca per aver accettato il piano Annan ed ha distribuito promesse riguardanti la fine dell’embargo e il ripristino di normali relazioni commerciali. In realtà tutto è rimasto immutato. E, dopo il 17 dicembre, ancora una volta Cipro si presenta come l’ostacolo sulla strada dell’adesione, mentre, nel frattempo, il presidente greco-cipriota Papadopoulos lancia messaggi poco incoraggianti.
Non mancano quindi gli elementi per consolidare fra larghi strati della popolazione turca la sensazione di isolamento ed il sentimento che le politiche europee siano inficiate da pregiudizi. Il risultato è il diffondersi di un vasto disincanto fondato sulla convinzione che l’Europa stia giocando (è esattamente questo il verbo utilizzato nel Paese) con le aspirazioni europee della Turchia, alzando continuamente la posta ogni qual volta un obbiettivo viene raggiunto. Un disincanto che sconfina spesso nell’irritazione e che favorisce la ricomparsa di una serie di leit motiv che fanno parte del bagaglio nazionalista, dai toni spesso sciovinisti, così fortemente radicato nella tradizione politica del Paese. Le accuse all’Unione Europea di avere mire imperialiste e coloniali, di puntare alla disgregazione del Paese ed alla distruzione della sua sovranità nazionale affiorano così non solamente nelle dichiarazioni provenienti degli ambienti politici più disparati, di destra e di sinistra, ma spesso anche nelle parole dell’"uomo della strada". Anche il Presidente della Repubblica Sezer, che molto si è adoperato per sostenere e promuovere il processo di trasformazione e democratizzazione del Paese, nel suo discorso di fine d’anno ricordava la necessità di affrontare "con onore" questa delicata fase del processo di adesione europea.
La ricomparsa sulla scena pubblica turca del vocabolario nazionalista, fondato sulla paranoia del pericolo esterno, indubbiamente costituisce la prova di come la questione del destino dell’identità culturale non sia esclusiva solo del dibattito europeo e come essa faccia riemergere paure cha da sempre si agitano nel subconscio collettivo del Paese.
Questa riapparizione però costituisce soprattutto la prova delle carenze da parte del mondo politico e dell’informazione nell’opera di informazione sulle tematiche europee. Se è indubbio che queste tematiche negli ultimi anni hanno monopolizzato il discorso pubblico, è altrettanto vero però che sono state trattate soprattutto su di un piano emotivo. La dicotomia "l’UE ci riconosce come Europei/l’UE ci rifiuta" e le sue altalenanti vicende hanno costituito la prospettiva privilegiata scelta dai mass media e dalla classe politica. Approcci più concreti hanno spesso messo in luce le ricadute economiche che l’adesione porterebbe al paese. Anche in questo caso però spesso si sono moltiplicate previsioni "miracolistiche" sulla pioggia di investimenti che cadrebbe sul Paese e sui magici effetti che l’adesione avrebbe sulla disoccupazione e gli standard di vita della popolazione. Poco è stato fatto, ad esempio, nel campo dell’informazione sugli aspetti più prettamente politici del progetto europeo, sulla sua natura sovranazionale e collegiale, sui suoi principi portanti. Anche le informazioni relative al concreto funzionamento dei meccanismi istituzionali su cui si basa la struttura politica dell’Unione sono state, salvo lodevoli eccezioni, scarse. Le accuse di imperialismo e di minaccia per la sovranità nazionale, ad esempio, sembrano ignorare il fatto che l’adesione turca comporterebbe anche la partecipazione dei rappresentanti del Paese a tutti gli organi decisionali dell’Unione.
Molto rimane da fare, in Europa ed in Turchia, in vista dello storico appuntamento dell’adesione.