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Kosovo: status ansiogeno
L’indipendenza non è l’unica soluzione possibile. Tutt’altro. Un editoriale sull’avvicinarsi, in Kosovo, dei negoziati che andranno a definire lo status finale della provincia. Un invito a trovare una soluzione che accolga, almeno in parte, le aspirazioni di tutte la parti in causa
Di Jan Oberg* e Aleksandar Mitic* – TOL
Traduzione a cura di Osservatorio sui Balcani
Il dramma del Kosovo sta per raggiungere l’atto finale. Quest’estate sapremo se il Kosovo avrà superato il test di prova posto dalla comunità internazionale, un test che deve essere superato prima che possa avvenire l’avvio ufficiale dei negoziati sullo status finale. Per allora, l’autorità più alta della Provincia, il rappresentante speciale elle Nazioni Unite Soren Jessen-Petersen, dovrà decidere se la Provincia ha raggiunto o meno gli standard internazionali richiesti in merito a diritti delle minoranze e buon governo. Vi sono comunque pochi dubbi sul fatto che il suo giudizio sarà positivo.
Se accadesse questo, i negoziati sullo status inizierebbero già in settembre. Le posizioni sono chiare: le richieste inflessibili da parte della maggioranza albanese che popola la provincia si scontrano con la risposta serba che la provincia rientra ancora, dal punto di vista formale, sotto la sovranità di Belgrado. I negoziati, nonostante la loro complessità, potrebbero durare solo qualche mese e non certo anni.
In questi negoziati potrebbe essere la pressione della comunità internazionale a far raggiungere risultati tangibili. Nelle ultime settimane, ma anche in passato, sono stati palesi esiti ottenuti grazie a pressioni internazionali. L’ex Primo ministro del Kosovo, Ramush Haradinaj, si è recato spontaneamente all’Aja per rispondere, davanti al Tribunale Penale Internazionale per la ex Yugoslavia di crimini di guerra; contemporaneamente la Serbia ha invitato i propri incriminati a costituirsi, favorendo in questo modo un giudizio positivo dell’Ue in merito ad uno studio di fattibilità , condizione chiave per un’eventuale adesione all’UE.
Le Nazioni Unite potrebbero decidere che il Kosovo ha raggiunto tutti gli standard richiesti. Ma questo non dovrebbe illudere sul futuro del Kosovo; sarebbe naive presumere che ciò che è stato raggiunto non possa essere presto disfatto a seconda delle esigenze del momento. Quindi, ciò di cui si ha bisogno è un tentativo onesto di risolvere quest’inestricabile fonte di instabilità nell’Europa di oggi. E’ arrivato il tempo di riflettere sulla sostanza di un possibile accordo. Sfortunatamente però il dibattito in merito è stato di strette vedute; ed esiste il pericolo che altrettanto siano i negoziati.
La sola opzione?
Le lobbies pro-albanesi – come anche alcuni think tank tra i quali l’ICG (International Crisis Group) con sede a Bruxelles, che analizza conflitti in tutto il mondo – sostengono che l’indipendenza sia l’unica opzione realistica.
Noi riteniamo invece che quest’opzione sia ingiusta, pericolosa, obsoleta ed anti-europea.
E’ ingiusta perché l’indipendenza non può essere negoziata – può solo essere imposta. Un Kosovo indipendente significherebbe che gli albanesi hanno raggiunto la loro aspirazione massimalista. Belgrado ed i serbi del Kosovo lascerebbero il tavolo delle trattative a mani vuote. Un’indipendenza piena in effetti frustrerebbe tutte le aspirazioni delle comunità del Kosovo non-albanesi – innanzitutto serbi e rom – ma anche di quelle della Serbia, della quale il Kosovo è ancora formalmente parte.
E’ pericolosa perché infrangerebbe la cornice costituzionale che ha accompagnato il Kosovo dalla fine della violenza nel 1999, ricompenserebbe coloro i quali sono stati i fautori della campagna di pulizia etnica nei confronti delle comunità non-albanesi, incoraggerebbe coloro i quali hanno esportato la violenza dal Kosovo alle aree confinanti del sud della Serbia e della Macedonia occidentale.
E’ inoltre rischiosa poiché la stessa Belgrado si troverebbe nella condizione di non accettare un accordo su queste basi. Belgrado deve invece giocare un proprio ruolo nel trovare un compromesso sul Kosovo. Minare i presupposti affinché questo avvenga sarebbe un grave []e e potrebbe uccidere ogni speranza che si arrivi ad una soluzione negoziata. Prolungherebbe indefinitamente l’instabilità.
E’ arcaico ed anti-europeo creare nuovi confini internazionali in un periodo nel quale l’intera regione si sta muovendo verso "un’Europa senza confini". Un Kosovo indipendente rappresenterebbe anche un pericoloso precedente nella regione, dal punto di vista del diritto internazionale, dal punto di vista dello spirito legato all’integrazione regionale ed europea e, non da ultimo, per i delicati processi di pace in atto in altre parti della ex Yugoslavia.
Le mancanze dell’indipendenza
Vi è un tentativo portato avanti da chi sostiene l’indipendenza di definire i dubbi dei serbi sul Kosovo quali espressioni di un "mito del Kosovo", un mito dei quali i serbi dovrebbero liberarsi se vogliono avvicinarsi all’Europa. Think tank internazionali quali l’ICG ed altri esperti di Balcani dicono ai serbi: abbandonate il Kosovo come i francesi hanno lasciato l’Algeria o i russi l’Ucraina, o rischierete grosso. Offrono la scelta – pericolosa dal nostro punto di vista – o il Kosovo o l’Europa: i serbi devono scegliere una delle due opzioni, non potrebbero ottenere entrambe.
Ma i serbi non sono legati al Kosovo da miti. Neppure i più ferventi sostenitori della causa albanese negano l’importanza che il Kosovo ha nei cuori e nelle menti dei serbi. In Kosovo è situata un’imponente eredità culturale, religiosa e nazionale del popolo serbo. E’ la casa di circa 300.000 serbi – attualmente ancora in Kosovo o sfollati – per non menzionare le centinaia di migliaia che hanno abbandonato la Provincia per ragioni economiche o altro nei decenni che hanno preceduto il 1999. Circa 1300 tra monasteri, chiese ed altri edifici religiosi testimoniano la consistenza della presenza serba nella Provincia.
L’agenda dell’indipendenza è stata sospinta con sempre più aggressività da alcuni esponenti della comunità internazionale e da gruppi vicini ai loro governi. Ma, per varie ragioni, presentare l’indipendenza come l’unica opzione realisticamente possibile, è un paradosso ed un esempio della mancanza, in seno alla comunità internazionale, di chiare e consistenti politiche nei confronti dei Balcani.
Basti considerare la Republika Srpska, Entità serbo-bosniaca riconosciuta dagli Accordi di Dayton che nel 1995 hanno posto fine alla guerra in Bosnia. Come il Kosovo anche la Bosnia è un protettorato e vede la presenza sul proprio territorio di truppe NATO. Come il Kosovo in Republika Srpska circa il 90% dei cittadini appartiene ad un’unica comunità etnica. Dal punto di vista strategico la maggioranza della sua popolazione, serba, ha le medesime aspirazioni degli albanesi del Kosovo: raggiungere l’indipendenza.
Ma in Republika Srpska la comunità internazionale sta eliminando tutti i simboli e le strutture che la identifichino con uno Stato indipendente: dalle leggi, alle forze di polizia, all’esercito. La Republika Srpska è, nei fatti, progressivamente e gradualmente assorbita in uno stato bosniaco centralizzato, nel nome della stabilità, della multietnicità, dell’integrazione europea – ma contro il volere della maggioranza della sua popolazione.
In Kosovo, la stessa comunità internazionale, sta facendo esattamente il contrario: sta costruendo uno Stato dal nulla, pavimentando la strada per la disgregazione di un Paese (la Serbia e Montenegro) e trattando il Kosovo come uno Stato indipendente in fieri.
In secondo luogo la comunità internazionale rischia di disgregare uno dei Paesi più variegati dal punto di vista etnico della regione, la Serbia. Che esempio potrebbe essere questo per l’area del Sangiaccato, popolata in maggior parte da musulmani, per il sud della Serbia, popolato da albanesi, per il nord della provincia della Voivodina popolata da una minoranza ungherese e per l’ovest della Macedonia, popolata da albanesi o per la Slavonia orientale, in Croazia, popolata da serbi?
In terzo luogo se tutto il sud est Europa si sta incamminando verso un’Europa integrata dove i confini non dovrebbero più contare, perché creare nuovi confini attorno ad un nuovo stato albanese in Europa? Perché creare nuovi confini – con quei costi – se gli stessi confini verranno smantellati nei prossimi anni?
In quarto luogo il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo è altamente probabile avvenga all’esterno del quadro delle Nazioni Unite dato che Russia e Cina è probabile pongano il veto all’indipendenza, per ragioni anche di politica interna. Una soluzione senza le Nazioni Unite (e senza la Serbia, come proposto dall’ICG) darebbe un altro duro colpo al diritto internazionale ed aggraverebbe la situazione delle relazioni internazionali.
Infine vi sono pochi dubbi sul fatto che l’indipendenza del Kosovo, prima o poi, risulterebbe in un Kosovo monoetnico. Questo contraddirebbe gli argomenti di coloro i quali hanno sostenuto i bombardamenti del 1999 definendola un "intervento umanitario" nel nome della multietnicità.
Queste problematiche non hanno impedito all’ICG e ad altri gruppi di argomentare che il Kosovo deve raggiungere l’indipendenza per evitare il caos generale e la ripetizione delle massicce violenze anti-serbe vissute nel marzo 2004, che hanno mandato in confusione l’amministrazione internazionale della Provincia. Ma quest’argomentazione può essere anche ribaltata: non rischia una piena indipendenza di riconoscere le posizioni dell’etno-nazionalismo e della pulizia etnica attuata dagli estremisti albanesi?
Il Primo ministro del Kosovo Haradinaj ha promesso che "in un Kosovo indipendente la situazione dei serbi migliorerà". Ma con questa frase l’attuale incriminato presso la Corte penale internazionale voleva forse dire che a meno che la propria comunità non raggiungerà l’indipendenza i serbi continueranno ad affrontare violenze, intimidazioni e condizioni di vita miserabile all’interno di ghetti etnici?
Dietro alla cortina di fumo
Rimangono altre questioni aperte, altrettanto importanti.
Non rischia forse l’indipendenza del Kosovo di essere una ricompensa implicita ad una popolazione sempre più povera – o, nella pratica, una ricompensa a potenti gruppi criminali che hanno bisogno di appoggi politici in modo da controllare la prostituzione, il traffico d’armi, di stupefacenti e di persone?
Rappresenta l’indipendenza del Kosovo una soluzione genuina, duratura e giusta, o rischia piuttosto di rappresentare esclusivamente una strategia d’uscita per una comunità internazionale che sembra impaurita davanti all’estremismo albanese ed alla violenza?
Una volta ancora uno sguardo oltre confine, in Bosnia, risulta istruttivo. Lì serbi, bosgnacchi e croati lavorano fianco a fianco in polizia, alle dogane, nei corpi diplomatici. Magari non amano farlo, ma la comunità internazionale li ha obbligati. Non vi è ragione alcuna per la quale non dovrebbe accadere lo stesso per gli albanesi del Kosovo all’interno di una unificata Serbia e Montenegro. Ma non incontrando alcuna pressione dal parte della comunità internazionale gli albanesi del Kosovo non sembrano intenzionati a compromettersi e, al contrario, lottano per l’indipendenza.
Contemporaneamente molti media occidentali lasciano trapelare l’impressione che sia Belgrado il soggetto inflessibile e che trascina i piedi. Ma la verità è che molti leader a Belgrado hanno già riconosciuto pubblicamente ed in modo chiaro che il Kosovo non può ritornare alla situazione esistente prima del 1999. Nessun politico serio in Serbia crede che il Kosovo potrà essere governato nuovamente da Belgrado, che le forze di sicurezza serbe verranno nuovamente rispiegate in Kosovo e che il Kosovo non avrà un budget, una polizia ed una rappresentanza all’estero autonomi.
Al contrario credono che vada trovata una soluzione che garantisca una larga autonomia ma non offra una piena indipendenza. Per Belgrado, una piena indipendenza, anche se condizionata a determinati standard, è fuori questione. (Belgrado e la comunità serba considerano l’ "indipendenza condizionata" – una nozione molto in voga all’interno di think tanks, policymaker e lobbisti – pura retorica).
In effetti precedenti di soluzioni creative del conflitto etno-territoriale che non concedono però l’indipendenza già esistono nei Balcani. Vi sono, certamente, gli Accordi di Dayton che hanno posto fine alla guerra in Bosnia e che hanno portato alla creazione di due "entità" altamente autonome, all’interno del suo territorio. Ma vi sono anche gli accordi di Ohrid del 2001, che hanno riconosciuto una sostanziale autonomia alla comunità albanese di Macedonia e l’Accordo di Belgrado del 2003 dal quale è nata l’Unione Serbia e Montenegro per rimpiazzare la defunta Yugoslavia.
E’ tempo di rimuovere la cortina di fumo dietro alla quale si nascondono i policymakers occidentali. Il Kosovo non può ritornare allo status pre-1999; la missione ONU e della NATO non ha creato una società multietnica, libera e tollerante come promesso; non vi è stato alcun rientro dei più di 200.000 serbi e non-albanesi sfollati; la leadership albanese in Kosovo non ispira alcuna fiducia né ai serbi né alle altre comunità non-albanesi; ed il Kosovo non può e non deve essere un’eccezione nella regione, in Europa e nel mondo.
Un accordo giusto
Un accordo giusto e sostenibile può essere raggiunto solo se tutte le parti in causa cercano onestamente di raggiungerlo. Se le negoziazioni si avviano e finiscono partendo dal presupposto che è possibile una sola soluzione, allora non porteranno da nessuna parte.
L’obiettivo principale dovrebbe essere quello di fornire agli albanesi del Kosovo i mezzi per gestire il loro futuro senza sentirsi minacciati, ma anche senza minacciare gli altri.
Trovare un compromesso significa trovare una soluzione che stia tra un’autonomia poco sostanziale – insoddisfacente per la maggior parte degli albanesi – ed una piena (condizionata o immediata) indipendenza, inaccettabile da parte dei serbi e della Serbia.
Tra queste due, esiste una miriade di opzioni che soddisfano i requisiti del diritto internazionale, dell’integrazione europea, dei diritti umani e del diritto legittimo all’autogoverno.
Non saremmo contrari all’indipendenza se tutte le parti in causa nel conflitto volontariamente accettassero questa soluzione e si mettessero d’accordo su modalità concrete per raggiungerla. Ma non crediamo vi sia un’unica soluzione a questo problema complesso – in effetti la prospettiva legata ad un’unica soluzione è indicativa del fatto che la comunità internazionale in merito al Kosovo ha perso la bussola.
La comunità internazionale dovrebbe lavorare duramente con tutti i soggetti coinvolti sugli elementi chiave delle modalità di risoluzione del conflitto, come ad esempio la riduzione della paura ed il lavoro comune verso la ripresa economica dell’area.
La questione è come ridurre i timori ed aumentare la fiducia reciproca e la riconciliazione. La risposta è facile da dare, difficile da realizzare: cambiando tutte quelle strutture alla base delle paure. Sotto quest’aspetto il dialogo sullo status è necessario, ma assolutamente non sufficiente. Nessuna decisione sullo status del Kosovo avrà successo se la paura continuerà a caratterizzare la vita quotidiana. La paura non viene mai da sola, arriva accompagnata dai suoi partner: odio, desiderio di vendetta, l’immagine del vicino come nemico, e, di conseguenza, l’accumulo di armi per difendersi.
Crediamo che la maggior parte delle persone che vivono in Kosovo e più in generale nella regione sono intrappolati in queste strutture di pensiero delle quali hanno avuto esperienza per decenni. Senza dubbio i cittadini del Kosovo non potrebbero che beneficiare – ed alla pace verrebbe data un’opportunità – da una visione che sappia contrastare con queste paure. Sfortunatamente la comunità internazionale ha tra le sue fila pochi esperti nella gestione del conflitto e nessuna organizzazione che si occupa di gestire i conflitti con professionalità ed imparzialità. Ciononostante, dovrebbe per lo meno fornire occasioni, proporre modelli, tenere incontri e favorire un dialogo il più ambio possibile sui possibili futuri del Kosovo e della regione, dialogo che favorirebbe la speranza e diminuirebbe le paure.
Quali potrebbero essere i benefici derivanti da un accordo moderato, negoziato, giusto e sostenibile?
Per le Nazioni Unite implicherebbe un successo per la sua missione molto problematica, rispetto della propria statura di organizzazione mondiale fondamentale e rispetto per le risoluzioni del Consiglio di sicurezza. Per gli Stati Uniti rappresenterebbe la prova che si può dialogare con propri ex nemici nel nome della pace e della stabilità. Per l’UE significherebbe pacificare l’area d’Europa più instabile.
Per gli albanesi del Kosovo significherebbe raggiungere sostanzialmente l’autogoverno e favorire le prospettive europee; per la Serbia integrità territoriale, mantenimento di legami storici ed anche favorire le prospettive europee.
E per tutti noi, rappresenterebbe un segnale che una buona gestione del conflitto può sanare dispute che durano da tempo e portare riconciliazione e stabilità.
*Jan Oberg è fondatore e direttore della Transnational Foundation for Peace and Future Research (TFF) a Lund, Svezia. Aleksandar Mitic è membro di TFF e corrispondente di TOL da Belgrado. Questo articolo è parte di "The Kosovo Solution Series", disponibile su www.transnational.org