Frammenti d’arte contemporanea, Belgrado e dintorni – I
Il Museo di Arte Contemporanea a Novi Beograd, una rassegna di manifesti per i 400 anni di Don Chisciotte nel cuore della Knez Mihailova, l’isola pedonale della capitale serba, l’incontro, a Novi Sad, con Miroslav Mandic "poeta, camminatore, mistico, magnifico cialtrone". Una passeggiata attraverso l’arte contemporanea che accompagnerà i lettori di OB sino alla fine dell’estate
Di Luca Arnaudo*
Ricordo di aver letto da qualche parte una critica in cui si parlava di Emir Kusturica – bosniaco spesso accusato di simpatie filoserbe nel corso della guerra in Jugoslavia dei primi anni novanta – come di un regista che preferisce raccontare storie invece di distribuire colpe. Per quanto sia difficile immaginare storie senza un qualche giudizio celato nelle pieghe del racconto, il commento coglie acuto la soluzione trovata da parte di un cittadino della vecchia Jugoslavia per superare le difficoltà di trattare l’esplosione di quel suo mondo: si tratta di difficoltà che l’osservatore estemporaneo di una delle schegge risultate da tale esplosione necessariamente sperimenta ancora più profonde, salvo forse potersi concedere una maggiore leggerezza di sguardo, a causa del minor legame personale con le vicende locali. Anche nelle pagine seguenti si cercherà di raccontare qualche storia, sperando – alla luce di questa premessa – di mantenere una passabile trasparenza d’intenti ed esiti mentre si rende conto di alcune mostre d’arte e artisti incontrati nell’aprile 2005 a Belgrado, con in più una puntata a Novi Sad. Sono storie raccolte in luoghi che, già al centro della Jugoslavia e ora della Repubblica di Serbia, ad attraversarli anche solo per poco tempo svelano impressionanti tensioni compresse, la carica vitale e dolorosa di un’area – culturale prima ancora che fisica – tanto cruciale per l’Europa quanto poco frequentata e ancor meno compresa (1), ma proprio per questo ancora più affascinante.
La prima storia prende avvio nel centro storico di Belgrado, poco dopo aver lasciato l’Hotel Royal – un modesto tre stelle che, nel decoro delle stanze, non mantiene le promesse delle fotografie visibili in rete, ma almeno riserva la sorpresa salace di essere anche un bordello – risalendo lungo la ripida strada Kralja Petra in direzione della perpendicolare Knez Mihailova, principale corso pedonale della città. La scolorita trasandatezza di un’insegna che, al numero 36 della via in salita, riporta la scritta ‘Galerija – legat Petra Dobrovića’, induce Susana e me a entrare nell’androne dimesso del palazzo, risalire fino al quarto piano su un ascensore molto malandato (la maniglia della porta costruita con un sughero di bottiglia e un chiodo ha però un notevole fascino duchampiano), infine bussare a una porta a cui si affaccia un uomo piuttosto anziano che ci guarda, assembla un breve incomprensibile discorso in serbo e subito richiude la porta. L’episodio torna in mente e si chiarisce quando, due giorni dopo, ci troviamo nella città nuova, al di là del fiume Sava, a visitare il Museo di Arte Contemporanea. L’ariosa costruzione immersa nel verde riserva, tra le altre sorprese, anche quella di un’ampia retrospettiva dedicata a Petar Dobrović, per realizzare la quale la galleria in Kralja Petra – dove è custodita la gran parte delle opere lasciate in legato testamentario dall’artista – è stata praticamente svuotata.
Risulta piuttosto difficile trovare l’opera di Dobrović citata e discussa nella letteratura d’arte al di fuori dell’area balcanica, dove invece costituisce un importante punto di riferimento. Quanto all’uomo che sta dietro l’artista, egli ha preso parte da protagonista a eventi che, per quanto anch’essi relegati al più in una nota a piè di pagina del corso principale della storia, contengono in sé la forza e l’impeto di un’intera epoca (2). Nato a Budapest nel 1890 da genitori di origini serbe, Dobrović è stato pittore di talento e rivoluzionario di orientamento marxista, combinando nella propria parabola personale una rocambolesca presidenza a furor di popolo dell’effimera Repubblica serbo-ungherese di Baranya (3) con l’insegnamento all’Accademia di Belle Arti di Belgrado e imponendosi come figura di riferimento della pittura jugoslava fino alla sua morte, avvenuta in Dalmazia nel 1942.
Sotto il profilo artistico, gli esordi avanguardistici di Dobrović trovano la loro migliore riprova visiva nell’importante autoritratto del 1913 – non a caso riprodotto in copertina al catalogo della mostra – in cui il pittore, ricorrendo a pochi saturi colori scuri e a una posa iconograficamente assai intensa, compone un’immagine prometeica di grande impatto visivo. Le maniche rimboccate e più ancora il gioco stentoreo delle mani, sovrapposto alla torsione del corpo verso l’osservatore, conferiscono infatti alla figura una singolare monumentalità espressionista, dove l’esaltazione dell’artista come lavoratore va di pari passo con un’accorta teatralità, ben esemplificata dal drappo che inquadra e delimita la scena sullo sfondo. Pur in simili estremi, peraltro, la genuina tensione utopistica che anima in generale la pittura di Dobrović (4) salva l’immagine dal rischio estetico di una piatta iconografia di propaganda. Inizialmente condizionato in maniera evidente dalla lezione di Cézanne, Dobrović si muove in una linea che trova un suo importante riferimento nell’esperienza di Nadezda Petrović, personaggio di spicco della pittura serba d’inizio novecento per la sua capacità di coniugare le istanze coloristiche dell’impressionismo francese con quelle figurative del primo espressionismo tedesco. La tensione tra colorismo e figurazione anima del resto l’intero percorso pittorico di Dobrović, anche durante temporanee divagazioni cubiste e fino agli esiti conclusivi, dove la trattazione della figura umana assume, da un lato, tratti quasi caricaturali (in particolare nella serie di ritratti dedicati ad artisti e intellettuali, tra cui spicca quello di Marko Ristić), dall’altro si pone al servizio di un’indagine ‘sociologica’ di tipi umani. Emblematica, in quest’ultimo senso, è l’ampia serie di ritratti di gente comune colta nella vita di ogni giorno nelle campagne e città jugoslave, nel dichiarato intento di ‘laicizzare’ l’arte del giovane stato balcanico, svincolandola dalla schiacciante tradizione iconografica di stampo bizantino.
Sono temi, questi, culturalmente appartati ma rilevanti rispetto all’opportunità di ripensare in termini più decentrati la storia dell’arte nel novecento. Come è stato giustamente rilevato dalla curatrice della mostra dedicata a Dobrović, in effetti, "una simile rivalutazione critica è particolarmente necessaria perché il modernismo risulta ancora interpretato come una sorta di modello (occidentale) omogeneo e un canone che ancora attende di essere problematizzato in maniera più radicale. Naturalmente, tutto ciò diviene più che ovvio quando si giunga all’interpretazione e alla ‘scoperta’ post-guerra fredda dell’Europa dell’Est, Centrale e di tutte le altre Europe non occidentali. Modelli uniformi di avanguardia, impegno o modernismo sono ancora da trovare: spesso tutto è semplicemente trasposto in una sorta di retorica orientalizzante di esotica ‘alterità’ la cui funzione è, come noto, di rafforzare e verificare la correttezza del modello centrale, in questo caso quello occidentale" (5).
… continua
Note
1. Le incomprensioni, del resto, partirebbero già dal linguaggio, se è vero che il toponimo ‘Balcani’ è entrato in uso all’inizio dell’ottocento a seguito dell'[]e di un geografo tedesco, August Zeune, il quale prese il generico termine turco ‘balkan’ (ovvero ‘catena montuosa’, di uso corrente in quella zona compresa tra impero asburgico e la c.d. Turchia europea), come nome proprio delle montagne tra Serbia e Bulgaria. La vicenda è ricostruita da Federico Faloppa, Parole contro. La rappresentazione del diverso nella lingua italiana e nei dialetti, Garzanti, Milano 2004, pag. 163.
2. Viene in effetti da pensare, per incidente, come la storia abbia l’andamento di un frattale dove ogni punto, a guardare meglio, riprende con misteriosa continuità e corrispondenza il disegno più grande di cui fa parte. Conseguenza interessante di ciò è che, nella complessità dell’immagine, non si possono individuare gerarchie e ogni parte ha la medesima importanza, per lo meno agli occhi di chi osservi il dettaglio o, più ancora, si trovi a vivere al suo interno.
3. La repubblica, di marcate tendenze comuniste e appoggiata esternamente dal neonato Regno di Jugoslavia che in quel momento stava occupando l’area intorno a Pecs, venne proclamata il 14 agosto 1921 e durò soltanto sei giorni prima di finire riassorbita nel nuovo stato di Ungheria. Maggiori informazioni sulle sue vicende storiche sono reperibili nel dettagliato contributo di Leslie C. Tihany, The Baranya Republic and the Treaty of Trianon (in http://www.hungarian-history.hu/lib/tria/tria24.htm ). Il testo si chiude con la sconsolata nota secondo cui, "cinquant’anni dopo la Comune di Parigi, la microscopica Repubblica di Baranya attraversò la storia senza essere notata dal mondo, scomparendo senza resistenza o versamenti di sangue sotto le forze delle restaurazione conservatrice. Come Parigi nel 1870-1871, così la Baranya nel 1918-1921 offre l’opportunità di studio di divisioni corse sotto la superficie nazionale secondo linee ideologiche e di classe, giunte fino a un livello di crisi dinamica come risultato di una sconfitta militare in attesa di una soluzione diplomatica".
4. In questo senso, secondo quanto è stato rimarcato da uno dei suoi maggiori studiosi, Dobrović "intese il proprio ruolo di pittore come rappresentazione critica dell’esistente, non solo come progetto del possibile. Tuttavia, per quanto membro della sinistra intellettuale, egli non credeva nell’arte come strumento diretto di politica … La sua attitudine si differenzia in eguale misura tanto da quella dell’arte ‘pura’ che da quella ‘impegnata’ del suo tempo" (Miodrag Protić, Petar Dobrovic, izmeðu stvarnosti I utopije, Galerija – legat Petra Dobrovića, Belgrado 1989, pag. 24. La citazione è ripresa da Jelena Stojanović, The Realism of Petar Dobrović, testo inglese nel catalogo della mostra Graðanski realizam Petra Dobrovića, Muzej Savremene Umetnosti Beograd, Belgrado 2005, pag. 57).
5. Jelena Stojanović, The Realism of Petar Dobrović cit., pag. 58.
* Scrittore, traduttore, giurista e critico d’arte, Luca Arnaudo è autore di numerosi saggi dedicati alla letteratura, al diritto e all’arte contemporanea. Vive e lavora a Roma