Il memoriale di Omarska: un’occasione da non sprecare
Omarska, Bosnia settentrionale. Durante la guerra un campo di concentramento dove sono state uccise 900 persone. La popolazione serba locale ha raramente ammesso le atrocità che vi erano avvenute. Ora il faticoso tentativo di dedicare alle vittime un memoriale
A cura dell’ICHR *
Nel campo della "transitional justice", il nuovo campo di studi che si occupa della giustizia nelle società in transizione, i monumenti commemorativi fanno parte di quegli strumenti che servono alle società per rielaborare il proprio passato. Tali monumenti fanno rivolgere l’attenzione sulle ingiustizie, rendono merito a coloro che hanno sofferto e obbligano le società a rivedere il proprio passato e porre fino al diniego e all’omertà.
Ma come funzionano tali monumenti in una società che è ancora divisa lungo linee etniche e dove le memorie sul passato sono ancora divise, così come accade in Bosnia ed Erzegovina oggi? Inevitabilmente al giorno d’oggi i monumenti sono un altro fattore controverso e rispecchiano le divisioni della società bosniaca. In ogni zona i gruppi etnici di maggioranza sono pronti a riconoscere la sofferenza della "loro" gente e tendono a negare le sofferenze degli altri gruppi. Come risultato i monumenti commemorativi servono più a dividere le divisini etniche che a promuovere la riconciliazione tra i popoli della Bosnia ed Erzegovina.
E così mentre fioriscono in tutto il paese monumenti dedicati ai soldati caduti in combattimento, solo il memoriale di Srebrenica è dedicato alla memoria di vittime che appartengono ad un altro gruppo etnico. Tale memoriale, più che per la riconciliazione, serve per rompere il muro di omertà e ricordare a tutti i crimini avvenuti a Srebrenica. È questo l’unico memoriale di questo genere esistente al giorno d’oggi in Bosnia ed Erzegovina.
Al momento vi sono comunque due altre iniziative miranti a costruire simili monumenti in Bosnia ed Erzegovina. Uno è il monummento che dovrebbe ricordare il massacro di Koricani iniziativa ad opera del sindaco serbo di Knezevo/Skender Vakuf, su cui l’Osservatorio ha già riportato. L’altra è il memoriale di cui è prevista la costruzione alla miniera di ferro di Omarska, che durante la guerra fungeva come campo di concentramento per i bosgnacchi musulmani di Prijedor. La miniera di Omarska è stata comprata nel 2004 dal gigante dell’acciao anglo-indiano, Mittal Steel che al momento è il maggior produttore d’acciaio mondiale e il più importante investitore straniero in Bosnia ed Erzegovina. Subito dopo l’acquisto, le associazioni di vittime ed internati nel campo di Omarska hanno contattato la Mittal Steel richiedendo la costruzione di un monumento commemorativo. La Mittal Steel, dopo un intenso processo di mediazione tra le popolazioni locali da parte di un’organizzazione non governativa inglese, Soul of Europe, aveva dato il suo consenso alla costruzione di un memoriale e promesso di pagarne le spese. La mediazione mirava ad ottenere il sostegno di tutte e tre i gruppi etnici presenti a Prijedor.
Prijedor, che fu teatro di alcune delle peggiori atrocità del conflitto in Bosnia ed Erzegovina ha visto il ritorno di circa 25,000 bosgnacchi-musulmani che erano stati espulsi durante la pulizia etnica della città. Molti di loro infatti erano stati internati ad Omarska e dove si calcola che circa 3,000 persone siano state imprigionate e circa 900 persone siano state uccise. La popolazione serba locale ha raramente ammesso le atrocità avvenute ad Omarska e ha invece prevalso l’omertà. Il libro "La memoire a vif" di Isabelle Wesselingh e Arnaud Valerin descrive in modo estremamente corretto quest’atmosfera.
Ad ogni modo, dopo una nutrita serie di incontri e mediazioni, e con il supporto di una parte della comunità serba, ma senza il sostegno della municipalità, la Mittal Steel aveva reso noti i piani per la costruzione di un memoriale. A tal scopo, il 30 novembre scorso, durante una conferenza stampa, Mittal Steel, Soul of Europe e i sopravvissuti di Omarska avevano presentato i piani ed alcune foto del memoriale in progettazione.
Questa poteva essere una buona chance per rompere l’omertà. Ma, subito dopo l’annuncio dei piani, si sono levate alcune voci di dissenso che protestavano contro la costruzione del memoriale. Il sindaco serbo di Prijedor, Marko Pavic, che a Prijedor aveva occupato posizioni importanti durante il conflitto, aveva dichiarato che la costruzione del memoriale avrebbe aumentato le tensioni interetniche e aveva quindi rifiutato di sostenerne la costruzione. Secondo Pavic, queste questioni andrebbero risolte per via legislativa a livello nazionale e non di singola municipalità. La sua posizione non ha comunque sorpreso molti.
La sorpresa è giunta invece da una petizione online di circa 1,200 persone, iniziata dai membri della diaspora bosgnacca che ha enunciato dei principi su come il progetto dovrebbe essere formulato e aveva lanciato alcune proposte per la gestione del memoriale. Tale iniziativa sembrava indicare uan spaccatura tra le vittime che vivono all’estero e coloro che hanno fatto ritorno a Prijedor.
Messi di fronte a tali espressioni di dissenso, provenienti da tutte e due le parti, la Mittal Steel lo scorso febbraio ha annunciato la sospensione del progetto dal momento che deve riconsiderare la sua posizione nella speranza che i popoli di Prijedor "possano trovare una soluzione accettabile per tutti".
È paradossale che la petizione di alcuni gruppi di vittime abbia fatto il gioco di coloro che sono contrari alla costruzione di un memoriale e tale petizione ritarda il processo di rielaborazione del passato a Prijedor. Se da un lato ottenere il supporto di tutte le comunità può essere un approccio lodevole, dall’altro è irrealistico aspettarsi che tale supporto possa arrivare dai rappresentanti ufficiali della municipalità dato il ruolo che essi hanno avuto durante il conflitto. La Mittal Steel non dovrebbe aver paura di negoziare da una posizione di forza e di usare il suo peso economico e la sua influenza per promuovere la costruzione del memoriale e renderlo accessibile a tutte le vittime.
* International Committee on Human Rights