Di Gulo Kokhodze e Tamuna Uchidze* per IWPR Titolo originale " Bride Theft Rampant in Southern Georgia". Traduzione di Gaia Baracetti
Maia è stata rapita dal futuro marito tre volte. Le prime due volte è riuscita a fuggire, ma la terza ci ha rinunciato ed ha accettato il proprio destino.
Ora dice: "Gia è un ottimo marito. Sono contenta di vivere con un uomo simile." Questo nonostante il fatto che Gia e i suoi amici l’abbiano portata via con la forza, non lasciandole altra scelta se non sposarlo.
Ora i due hanno tre figli. Tutti conoscono Maia nel suo villaggio natale nella regione dello Samtskhe-Javakheti, nella Georgia del sud, così lei ha chiesto che non venga fatto il suo vero nome.
La storia di come cominciò il matrimonio di Maia 14 anni fa è un buon esempio di quella che molti nello Samtskhe-Javakheti, una regione con una popolazione mista georgiana e armena, considerano una tradizione accettata. La pratica del rapimento della sposa sta vivendo una rinascita nel Caucaso sin dalla fine del dominio sovietico.
Secondo le organizzazioni locali di donne il rapimento della sposa è una forma di violenza maschile primitiva e profondamente radicata. Queste organizzazioni stanno cominciando a denunciare il fenomeno e a cercare di proteggere le donne dal rapimento.
Degli attivisti nel Samtskhe-Javakheti dicono che è difficile fornire statistiche accurate su quanto sia diffusa quest’usanza, ma credono che siano centinaia le donne in questa regione che ogni anno sono costrette a sposarsi contro la propria volontà.
Secondo i gruppi di donne, sono molto poche quelle che sporgono denuncia alla polizia perchè, una volta rapite, portano il marchio della sospetta verginità perduta.
Maia descrive come Gia, che lei all’epoca conosceva, abbia tentato più volte di rapirla.
"Ho incontrato Gia alle superiori", racconta. "Dopo aver finito la scuola, ho continuato gli studi al collegio di teologia. Gia mi veniva spesso a trovare al convento. Sospettavo di essere più di una semplice amica per lui. Ma al tempo ero innamorata di un altro."
Gli amici di Gia lo hanno aiutato a rapire Maia tutte e tre le volte. La prima, racconta lei, "con l’inganno mi hanno convinta a salire sulla loro macchina. Avevo molta paura. Piangevo e li imploravo di tornare indietro. Vedendo che le lacrime e le preghiere non servivano e niente, ho aperto la porta, messo fuori le gambe, e minacciato di buttarmi. Le altre macchine hanno cominciato a rallentare. Ci stavano guardando tutti."
Gia si è piegato e l’ha lasciata andare, ma la volta dopo i suoi amici l’hanno inseguita per una discesa fangosa prima che alcuni passanti intervenissero e la portassero in una chiesa lì vicino. "Ero tutta sporca, avevo i vestiti strappati. In lacrime mi sono avvicinata all’icona del Salvatore, mi sono inginocchiata e ho sussurrato: ‘Dio, io non lo amo, ma che sia fatto come tu vuoi’", ricorda Maia.
La terza volta, racconta, "qualcuno mi ha messo la mano sulla bocca per impedirmi di urlare. Sono riuscita a scappare, ma era buio e sono caduta in una fossa, facendomi male alla schiena. Ho ancora la cicatrice."
"Una sensazione terribile si è impadronita di me dopo il rapimento", continua Maia. "Anche oggi, tremo se ci penso. Non sapevo cosa fare. Sapevano tutti che ero stata rapita. Pensavo ai miei fratelli. Ho pensato che se fossi tornata, la gente avrebbe detto che non ero vergine.
"Ecco perchè ho deciso di rimanere."
Alcune persone del posto calcolano che metà dei matrimoni sono cominciati con il rapimento della sposa. In molti casi non si tratta di un vero rapimento, ma di parte di un rituale di corteggiamento. Ci sono anche casi in cui una giovane coppia finge un rapimento per evitare di dover richiedere il permesso dei genitori per il matrimonio.
Ma molti dei rapimenti sono veri eccome, e tutt’altro che volontari.
"In qualunque villaggio, nove donne su dieci sono state rapite," sostiene una residente di Akhalkalaki, Ofelia Petrosyan. "Ho una figlia appena adolescente, e ho paura che se la vesto bene, sarà attraente, e qualcuno potrebbe rapirla."
Petrosyan ritiene che la tradizione continui perchè la società è così arretrata. "È tutta colpa dell’ignoranza dei giovani", spiega. "Gli importa solo di sposarsi. Le donne si preoccupano così tanto di dar da mangiare alla famiglia che non pensano a nient’altro e sono pronte a vivere come schiave."
Nel parco centrale della più grande città dello Samtskhe-Javakheti, Akhaltsikhe, gli adolescenti indossano vestiti alla moda e animano le loro conversazioni con le ultime parole di slang. Ma le loro idee sono di norma molto all’antica.
"Non sposerei mai una ragazza che è stata rapita, anche se fosse tornata a casa lo stesso giorno, perchè la sua reputazione sarebbe macchiata per sempre", dice un giovane, Nika Beridze. "Che bisogno ho di una donna che è stata rapita da un altro? Se amo una ragazza, potrei rapirla io."
Non c’è accordo tra gli storici sull’origine della tradizione. Alcuni dicono che fece la sua comparsa mentre il Samtskhe-Javakheti era sotto il dominio ottomano o che arrivò da oriente. Altri sostengono che sia una tradizione originaria del Caucaso.
"Questo è il Caucaso: abbiamo i rapimenti nel sangue, e nessuno ci può fare niente", dice Nina Nakhatakian, che abita nello Samtskhe-Javakheti. "Ho settant’anni, e è tutta la vita che vedo famiglie formarsi da rapimenti. Rovina la vita della donna, mentre l’uomo può sempre rapire qualcun’altra."
Per lo meno in teoria, la legge georgiana è severa nei confronti dei rapimenti delle spose. L’articolo 23 del codice penale sui "crimini contro i diritti e le libertà umane" stabilisce una sentenza tra i quattro e gli otti anni di prigione per il rapimento, e se si rivela essere un atto premeditato commesso da un gruppo di persone, gli anni di prigionia possono arrivare a dodici.
Questo riflette una modifica alla legislazione risalente a qualche anno fa, quando fu scritta una nuova legge che definì il rapimento della sposa "un rapimento finalizzato al matrimonio." Fino a quel tempo, era percepito come un’offesa minore che era punita poco o niente.
Attivisti ed esperti di diritto sostengono che le modifiche alla legge e le prospettive di punizioni severe hanno avuto un po’ di effetto deterrente. Ma dicono che non è neanche lontanamente sufficente.
"Dei tantissimi casi di rapimento nello Javakheti, solo due o tre sono stati registrati ufficialmente," denuncia l’avvocato di Akhalkalaki Anaida Oganesian, un’esperta di rapimenti di sposa.
"Perchè non si chiede mai alla donna se ama l’uomo che la rapisce?", chiede. "Non sa neanche che ha dei diritti che può difendere in tribunale. Le madri dicono alle figlie: ‘Cosa dirà la gente? Dovrai rassegnarti, come ho fatto io quando è toccato a me."
Oganesian ha recentemente lavorato all’unico caso che è arrivato in tribunale ad Akhalkalaki. "Stavo difendendo gli interessi della ragazza e ho fatto del mio meglio per far condannare il rapitore," racconta. "Ma all’ultimo momento lei si è ritirata, chiedendo: ‘digli che mi lasci stare, e non lo farò condannare’.
L’uomo se l’è cavata. Ora la ragazza è depressa e non esce mai di casa."
L’avvocato dice che i rapitori agiscono nell’impunità perchè le vittime non incontrano comprensione, ma disonore. "Le donne sono socialmente vulnerabili. Che io sappia, non c’è stato un caso in cui un colpevole fosse punito. Una ragazza che è stata rapita non ha l’appoggio nemmeno della propria famiglia: se torna a casa, per i parenti è una vergogna.
Il modo in cui vengono tirati su i giovani è sbagliato. Le persone che fanno uso di violenza contro le donne non sono chiamate a risponderne.
"È come nel cinquecento", conclude Oganesian.
Numerose organizzazioni non-governative nello Samtskhe-Javakheti stanno cercando di insegnare alle giovani donne quali sono i loro diritti e come possono proteggersi dalla violenza. Ma ammettono che cambiare la mentalità, anche tra i giovani, si sta rivelando molto difficile.
"Incontriamo donne di cui la maggior parte è stata rapita. Hanno famiglie e sono felici, almeno così dicono", racconta Marina Modebadze, leader del gruppo Donne Democratiche dello Samtskhe-Javakheti. " È difficile cambiare il loro modo di pensare. Non ci illudiamo che tutto possa cambiare subito, ma a poco a poco si vedranno dei risultati."
Il gruppo di Modebadze ha pubblicato dei libretti informativi e creato un numero verde, e ha in programma di aprire una casa di accoglienza per le vittime di tentativi di rapimento.
Maia, che dice di aver cominciato ad amare suo marito solo un anno dopo il rapimento, liquida questo attivismo.
"Sarà come Dio vuole", dice Maia. "Il primo anno del mio matrimonio è stato difficile, ma con l’aiuto di Dio abbiamo superato insieme le difficoltà. Ora ho una figlia, e il suo futuro è la cosa più importante. Se dovesse essere rapita, vorrà dire che era quella la volontà di Dio."
Dei due figli maschi, dice: "Un giorno potrebbero fare anche loro quello che fece loro padre: rapire la donna che amano. Non c’è scampo dalla tradizione."
*Gulo Kokhodze e Tamuna Uchidze sono dei corrispondenti del Southern Gates, pubblicato con il sostegno di IWPR nello Samtskhe-Javakheti