Il Tribunale dell’Aja e la riconciliazione nei Balcani – III

Più di dieci anni dopo le guerre in Bosnia e in Croazia, IWPR si chiede in questo lungo dossier se la giustizia dispensata dall’Aja possa aiutare le comunità divise dei Balcani a procedere sulla strada della riconciliazione. L’ultima di tre parti

21/08/2006, Redazione -

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Corax - Danas 29.01.05 Kostunica consegna un ricercato per crimini di guerra alla Del Ponte

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Corax – Danas 29.01.05 Kostunica consegna un ricercato per crimini di guerra alla Del Ponte

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A cura dello staff di IWPR* all’Aja, Sarajevo, Ahmici e Londra, 21 luglio 2006, International War and Peace Report, IWPR (titolo originale: "Special Report: The Hague Tribunal and Balkan Reconciliation"). Traduzione di Carlo Dall’Asta per Osservatorio sui Balcani.

Fare i conti col passato

Al di là delle riserve sull’entità delle punizioni comminate ai criminali di guerra condannati, molti osservatori sostengono che un altro ostacolo alla riconciliazione, completamente diverso, è la resistenza mostrata da così tanta gente nei Balcani ad accettare la realtà dei fatti accaduti negli anni ’90.

Il sito web del TPI evidenzia che alla luce del lavoro della corte, "Nessuno può più mettere in discussione la realtà dei crimini che furono commessi a Bratunac, Brcko, Celebici, Dubrovnik, Foca, Prijedor, Sarajevo, Srebrenica e Zvornik, per nominarne solo alcuni".

Ma resta il fatto che nella regione molti continuano a fare proprio questo. "Ogni volta che si mette sotto processo un suo esponente, ciascun gruppo etnico accusa il TPI di parzialità", ha spiegato Charles Ingaro, professore di storia alla Purdue University (Indiana, USA, NdT).

"Abbiamo ancora molta strada da fare prima di accettare finalmente la verità, non importa quanto questa sarà difficile o dolorosa", ha concordato Todorovic (presidente del Comitato Helsinki per i diritti umani della Repubblica Srpska, NdT) .

Da parte sua Bloomfield (direttore del Centro di ricerca Berghof per la gestione costruttiva dei conflitti, NdT) ha suggerito che l’intera regione è probabilmente "lontana decenni da una verità condivisa su quanto è accaduto durante la guerra in Bosnia".

La comunità serba è spesso il bersaglio principale delle critiche sul non voler affrontare il passato. Molti serbi continuano per esempio a ritenere Karadzic e Mladic degli eroi, per il ruolo svolto nella guerra di Bosnia, nonostante l’enorme mole di prove che li indicano come responsabili di crimini di guerra.

Un attivista serbo per i diritti umani, che ha preferito non essere nominato, ha sostenuto che è pressoché impossibile trattare questo problema in Serbia. "Qui molti, pur non avendo preso parte direttamente ai crimini, li hanno ignorati…. E molti hanno costantemente sostenuto i colpevoli di questi crimini", ha detto. "Così è evidente perché essi non vogliono accettare la verità sulla guerra così come gliela presenta il TPI: se lo facessero, ammetterebbero di avere appoggiato personalmente i crimini di guerra".

Tokaca ha sostenuto che tra i serbi di Bosnia, in particolare, questa tendenza a negare verità scomode è alimentata inoltre dal timore che, ammettendo i crimini di guerra serbi, si metterebbe in pericolo l’autonomia di cui essi attalmente godono nell’ambito della Republika Srpska, entità nata appunto in conseguenza del conflitto.

Ma non si pensi che il non voler ammettere che il proprio gruppo etnico abbia commesso atrocità sia una prerogativa esclusiva dei serbi. In Croazia, per esempio, una fondazione privata incanala fondi per la difesa dei più importanti indiziati croati accusati di crimini di guerra. E quando emerse che l’attuale presidente croato, Stjepan Mesic, aveva segretamente testimoniato all’Aja nel processo contro il comandante croato Tihomir Blaskic, ci fu una reazione violenta da alcuni settori, con un quotidiano che intitolava "Mesic pugnala alla schiena la Croazia".

Allo stesso tempo molti serbi sono estremamente critici sull’interpretazione dei musulmani bosniaci di quanto accadde durante la guerra in Bosnia. Secondo loro, lo standard narrativo per esempio degli eventi di Srebrenica e dintorni, ignora in larga misura i caduti serbi – a loro dire, un numero ingente – ed i crimini commessi dai combattenti musulmani.

Quest’ultima controversia è stata riattizzata dalla recente decisione dei giudici dell’Aja di condannare Naser Oric, ufficiale di alto grado al comando delle forze musulmane di Srebrenica, a due anni di prigione in merito a episodi di tortura di prigionieri durante la guerra. Oric, che ha già scontato la pena in quanto detenuto durante il processo, è stato immediatamente rilasciato.

Importanti politici serbi hanno reagito aspramente al verdetto, sostenendo che esso non riconosceva la gravità delle sofferenze patite dai serbi del posto per mano dei musulmani durante la guerra.

Ad Ahmici, un soldato dell’esercito bosniaco che ha preferito restare anonimo ha offerto la sua spiegazione della costante resistenza verso la verità in Bosnia. Ricordando che "la storia è sempre stata scritta dai vincitori", ha detto: "Il problema è che in questa guerra non ci sono stati vincitori".

Affari esterni

Molti osservatori, locali ed internazionali, hanno comunque riferito a IWPR che lo stesso TPI non è immune da colpe, qundo si parla del fenomeno, persistente nei Balcani, della riluttanza a fare i conti con la storia recente.

Attualmente la corte ha un dipartimento per gli affari esterni con uffici a Belgrado, Sarajevo, Zagabria, Pristina e L’Aja, che impiega un totale di dieci persone. Le sue attività includono l’organizzazione di conferenze insieme ad ONG locali, e la produzione di CD-ROM divulgativi sul lavoro della corte in relazione ad alcuni degli eventi più famigerati dei primi anni ’90. Il dipartimento si occupa anche del lavoro di formazione dei tribunali regionali locali.

Comunque questo dipartimento è stato creato solo alla fine del 1999, molti anni dopo l’istituzione iniziale del TPI. Fino a quel momento la corte non aveva nessun portavoce in lingua bosniaco-serbo-croata nella sua sezione per gli affari esterni.

David Gray, professore assistente presso la scuola di Diritto della DukeUniversity, con all’attivo pubblicazioni sulla giustizia transizionale, enfatizza quanto sia importante che l’attività di istituzioni come il TPI siano visibili per la gente delle regioni di cui esse si occupano.

"La trasparenza e il rispetto della legalità sono elementi essenziali per la democrazia, in larga misura assenti nei regimi autoritari", sostiene. "Per mantenersi fedeli a questi principi le istituzioni che supportano la transizione, inclusi i tribunali internazionali, devono funzionare nel rispetto della trasparenza".

Eric Stover, direttore del Centro Berkeley per i diritti umani dell’Università della California, sostiene che i tribunali penali internazionali non dovrebbero occuparsi di "ingegneria sociale", ma che dovrebbero focalizzare il proprio lavoro sul difficile compito di amministrare una giustizia equa ed imparziale in circostanze difficili. "Ma lavorando a questo fine i tribunali devono trovare il modo di coinvolgere le comunità, così che chi maggiormente ha sofferto per le violenze di massa arrivi a comprendere il processo giudiziario", ha aggiunto.

L’attuale sforzo, da parte del TPI, di entrare in contatto con la gente dei Balcani ha ricevuto qualche apprezzamento.

Todorovic ha dichiarato a IWPR che quando il Comitato Helsinki ha organizzato una conferenza insieme allo staff per gli affari esterni del TPI, per pubblicizzare i risultati della corte riguardo ad alcuni dei peggiori crimini commessi durante il conflitto bosniaco, molti dei partecipanti erano da principio scettici. Ma le loro reazioni agli incontri è stata "sorprendente".

"Messi di fronte alla vera natura dei crimini commessi, essi erano scioccati", ha ricordato. "Tutti, senza eccezione alcuna, hanno condannato tali crimini. Alcuni erano davvero commossi, qualcuno piangeva. Dissero che, pur sapendo che erano stati commessi dei crimini, non si erano resi conto della loro effettiva portata e dell’orrore che le vittime avevano dovuto sopportare".

Tokaca ammette che i più recenti sforzi del tribunale sono stati notevoli: "Quando hanno cambiato atteggiamento ed hanno iniziato una politica di affari esterni più aggressiva, alcuni anni fa, gli effetti sono stati pressoché immediati," ha detto a IWPR. "La gente nelle aree in cui erano stati commessi i crimini ha potuto rendersi conto di prima mano di quello che davvero era successo ed è stata obbligata ad affrontare la verità".

Ma egli ha sottolineato che sarebbe stato opportuno iniziare molto prima un tale lavoro.

Certo, molti sono d’accordo che il ritardo nell’intraprendere un’attività di affari esterni nei Balcani è stato uno degli ostacoli principali alle possibilità del TPI di contribuire alla riconciliazione nell’area.

Un rapporto pubblicato nel corso di quest’anno dall’Iniziativa studiosi – un’associazione internazionale di accademici che si occupa di ricostruire la storia recente dei Balcani, di cui Ingaro è membro – nota: "In retrospettiva si può forse dire che il TPI sia stato gravemente negligente, nel suo insuccesso nel rivolgersi a questo pubblico.

"Data la relativa incomprensibilità del tribunale e la sproporzione tra i suoi risultati e le aspettative nella regione, le popolazioni locali spesso si sono orientate a concludere che il tribunale favoriva interessi diversi dai loro.

"In tali circostanze, ai politici è stato possibile ‘pescare nel torbido’, e sfruttare le critiche rivolte al tribunale (alcune delle quali, ma assolutamente non tutte, erano fondate) per perseguire i propri fini".

Lo stesso Ingaro descrive la "mancanza di sensibilità verso la percezione del pubblico" del TPI ai suoi esordi come "un grave errore", i cui effetti si sentono ancora oggi. "Essi non sapevano come volevano essere percepiti a Belgrado, a Zagabria o a Sarajevo; si comportavano in modo molto istituzionale", ha detto a IWPR.

"Il lavoro del TPI avrebbe potuto essere pubblicizzato molto di più nell’ex Jugoslavia", ammette Richard Goldstone, che era capo procuratore della corte nei primi anni della sua esistenza.

"Mi posso dire d’accordo, l’ideale sarebbe stato iniziare le pubbliche relazioni fin dal principio, quando il TPI fu istituito", ha dichiarato a IWPR la vice coordinatrice delle affari esterni della corte, Olga Kavran.

"Comunque è molto difficile dire quanto si sarebbe riusciti a fare, data la situazione con cui ci si confrontava", ha aggiunto. "La guerra infuriava ancora, e dopo la fine delle ostilità i governi presenti erano generalmente ostili al Tribunale, specialmente quelli di Serbia, Croazia e Republika Srpska."

La Kavran ha anche notato che le risorse sono "una seria limitazione", e ha spiegato che il dipartimento affari esterni non ha mai fatto parte del bilancio principale del Tribunale, ed è costretto a sopravvivere sulla base di contributi volontari.

"Nonostante tutto ciò, gli affari esterni sono riusciti ad ottenere grandi risultati", ha detto.

Il giudice Pocar, da parte sua, ha sottolineato che mentre l’attività di pubbliche relazioni "potrebbe aiutare il processo di riconciliazione", per un tribunale penale come il TPI questa è "in un certo senso un’attività collaterale", piuttosto che una priorità. Allo stesso tempo, ha detto, "A mio modo di vedere, il servizio di affari esterni svolge un buon lavoro. Se poi faccia tutto quello che si potrebbe fare, questa è un’altra questione – questo dipende dalle risorse".

Hazan suggerisce che la mancanza di qualsiasi sforzo effettivo su questo fronte per la prima metà dell’esistenza del TPI è legata in primo luogo al modo in cui l’istituzione nacque.

Secondo lui, la corte fu creata come una sorta di "foglia di fico" o di "alibi", in parte perché così sarebbe sembrato che l’Occidente facesse qualcosa per la crisi dei Balcani. "Il TPI è stato istituito per essere un esercizio di PR – o un gadget – per l’opinione pubblica occidentale, e non era disegnato per rivolgersi alla gente dei Balcani", ha spiegato.

Ha aggiunto che la preoccupazione di mantenere in vita la corte ha obbligato lo staff a ignorare quelli che avrebbero dovuto essere i beneficiari del suo lavoro, nei primi giorni, orientando invece gli sforzi a impressionare favorevolmente chi in Occidente aveva il potere di stanziare fondi ed arrestare i sospetti. Fu solo una volta che la corte si fu consolidata, dice, che fu davvero libera di concentrarsi sulla gente dei Balcani.

Il rapporto dell’Iniziativa degli studiosi fa eco a questa sensazione, notando che "L’orientamento che il TPI ha adottato verso gli attori globali e i criteri globali per il suo successo, hanno avuto in qualche misura come risultato il fatto che esso ha mostrato una facciata vuota proprio a quella regione che si presumeva fosse il suo principale referente – la popolazione dell’ex Jugoslavia".

Barriere politiche

Anche se la corte potrebbe avere delle responsabilità riguardo a temi come il rapporto con il pubblico, alcuni osservatori sostengono che ci sono molto probabilmente dei fattori politici, al di fuori delle sue possibilità di controllo, che costituiscono gravi ostacoli per la riconciliazione.

"Io credo che le gravi questioni politiche che restano irrisolte siano un ostacolo alla riconciliazione – nel senso umanitario della parola", ha dichiarato Burg a IWPR. "Questo perché la riconciliazione richiede innanzi tutto che i problemi vengano risolti. Le soluzioni possono piacere o meno alla gente, l’importante è che i problemi siano risolti. A quel punto le persone dovranno riconciliarsi con la situazione, dopo di che potranno riconciliarsi le une con le altre".

Tra i problemi che potenzialmente intralciano gli sforzi di riconciliazione nei Balcani, Burg elenca le questioni riguardanti la natura dello Stato bosniaco ed il futuro del Kosovo.

In merito alla situazione specifica della Bosnia, Tokaca ha indicato fattori come le due entità definite su base etnica e la "cattiva costituzione", e si è detto d’accordo sul fatto che "i problemi sono radicati così profondamente nella società, così tante questioni rimangono irrisolte… che è davvero difficile essere ottimisti".

Todorovic ha inoltre sottolineato che il TPI deve scontrarsi con la resistenza degli attori nella regione stessa. "Sfortunatamente coloro i quali in Bosnia sono in posizioni di potere sono ancora in larga misura contrari alla riconciliazione", ha detto. "Essi sabotano ogni sforzo fatto in quella direzione".

Diamogli tempo

Considerando la complessità del problema della riconciliazione postbellica e la scarsità delle ricerche condotte in questo campo, alcuni osservatori tendono a sottolineare la difficoltà di predire come queste questioni si evolveranno nei Balcani.

"Molti contributi sul tema vengono dalle esperienze della Seconda guerra mondiale, quando si parlava di Paesi che si riconciliavano, separati da una linea di confine", ha detto Bloomfield a IWPR. Egli ha espresso dubbi su quanto pertinentemente queste lezioni si possano applicare ai recenti conflitti che hanno avuto luogo nei Balcani, in cui i sopravvissuti spesso sono costretti a continuare a vivere a diretto contatto con i responsabili delle violenze.

Comunque, in molti concordano che per il momento è ancora molto presto per vedere se la riconciliazione stia avendo luogo, e per ripensare il ruolo del TPI in questo processo.

"La riconciliazione, se dev’essere raggiunta, è un compito sterminato che richiederà ovviamente ben più dell’intervento giudiziario, e si estenderà ben oltre l’esistenza del Tribunale", nota il rapporto dell’Iniziativa degli studiosi.

L’anonimo attivista serbo per i diritti umani ha suggerito che starà alle generazioni future, quelle che non sono state coinvolte direttamente nei conflitti degli anni ’90, venire finalmente a patti con quello che è successo.

Nel frattempo, Hatidza Mehmedovic continua a passare la sua vita a Srebrenica.

"Certo, niente può riportarmi indietro mio figlio", ha detto.

"Quello che però mi dà forza e speranza è quando vedo che i musulmani stanno tornando alle loro case – circa 4.500 di loro sono tornati nel comune di Srebrenica. Alcuni di loro vengono solo nei fine settimana, alcuni restano di giorno e vanno via la notte, ma il loro numero gradualmente cresce.

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quot;Sono sicura che riusciremo nuovamente a vivere con i nostri vicini serbi, ma dovremo lavorare per questo. I serbi dovranno accettare la verità e la responsabilità per i loro crimini presto o tardi, e noi dovremo perdonarli. Questa è l’unica via per la riconciliazione in questo paese. Ma non dimenticheremo mai".

Un’altra intervistata, una residente serba di Sarajevo che non ha più visto suo marito da che fu arrestato, durante la guerra, ha detto a IWPR: "Non ci può essere una pace duratura né una vera riconciliazione finché tutte le parti non mettono tutte le loro carte in tavola, e non dicono la verità sui crimini che sono stati commessi dai membri dei propri gruppi etnici.

"Dobbiamo sapere dove sono sepolti i nostri cari, dove sono le loro ossa, ne abbiamo diritto tutti – serbi, musulmani e croati, indifferentemente. Solo allora si potrà parlare di riconciliazione".

(Fine della terza e ultima parte)

*Questo dossier è frutto del lavoro di ricerca e compilazione di Merdijana Sadovic, corrispondente di IWPR da Sarajevo ed Ahmici; Michael Farquhar, giornalista di IWPR a Londra; Caroline Tosh, collaboratore di IWPR da Londra; e Janet Anderson, direttrice del Programma di giustizia internazionale di IWPR all’Aja.

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