Sull’orlo della catastrofe
Un commento di Senad Pećanin, direttore del settimanale di Sarajevo DANI, sulla retorica nazional-populista di Milorad Dodik e sul conseguente comportamento della comunità internazionale. Nostra traduzione
Di Senad Pećanin, DANI, 22 settembre 2006 (tit. orig. Na rubu katastrofe )
Traduzione per Osservatorio Balcani: Ivana Telebak
Nonostante ci fossimo messi d’accordo tanto tempo fa per un’intervista pre-elettorale, da settimane ormai Milorad Dodik mi sta evitando. Una parte dei miei colleghi lo spiega con la sua paura delle mie domande. Alcuni credono che semplicemente non ha bisogno di esporsi alle difficili domande in una situazione in cui controlla praticamente tutti i media nella Republika Srpska, quando la televisione di Tijanovic e la stampa belgradese gli si stendono ai piedi come lo facevano una volta con Milosevic, quando a Sarajevo esistono televisioni come la OBN e giornalisti come Mato Djakovic…
E invece io credo, ma forse sono ingenuo, che mi eviti perché si vergogna. Credo che non gli sia facile affrontarmi perché non è passato così tanto tempo da quando in privato abbiamo parlato apertamente e a lungo, quando io rimasi impressionato dal suo coraggio di lottare sia pubblicamente che segretamente contro l’ancora potente infrastruttura criminale di Karadzic, e lui dalle mie idee su nazionalisti e criminali senza differenze rispetto al popolo di appartenenza. Eravamo d’accordo che le politiche dei partiti nazionalisti in tutta BiH non fanno che aumentare il nazionalismo che prima di tutto serve come protezione per il crimine dei potenti vertici dei partiti e dei loro patroni.
Fino a qualche mese fa, finché non ha assunto completamente e finché non ha costruito in modo speciale la peggiore retorica nazionalista, mi sembrava che la combinazione di Dodik con alcuni altri forti leader politici anti nazionalisti della Federazione fosse una combinazione vincente per una tanto attesa e vera stabilizzazione della Bosnia ed Erzegovina. Purtroppo, grazie al premier della Republika Srpska, questa possibilità è stata persa per sempre.
Usando il nazionalismo radicale per conquistare la maggioranza assoluta dei voti serbi, Dodik già adesso, per i prossimi quattro anni, ha rimandato la possibilità di qualsiasi serio progresso in Bosnia ed Erzegovina. La sua retorica è una flebo tanto per il nazionalismo bosgnacco che per quello croato. Sulla scena politica è ritornato Haris Silajdzic e come serio pretendente al governo, e senza Dodik sarebbe un referente politico con solo una sfumatura in più rispetto a Muhamed Cengic.
Quello che ora sto cercando di analizzare è la (ir)responsabilità della comunità internazionale, personificata dall’Ufficio dell’Alto rappresentante, per il calvario in cui Dodik ha trasformato le elezioni e la BiH. E’ difficile valutare cosa sia stato il fallimento più catastrofico: la loro strategia di rapporti verso Dodik o la sua applicazione.
La strategia di risposta dell’OHR e dei principali diplomatici occidentali a Sarajevo rispetto all’istigamento delle passioni nazionaliste provocate da Dodik si basa su ridicole e deboli critiche pubbliche e sulla tolleranza delle sue minacce e offese: dalla separazione della Republika Srpska, all’annuncio del ritiro di tutti rappresentanti serbi dalle istituzioni del governo, all’affermazione sulla impossibilità di sopravvivenza della BiH, fino a paragonare Sarajevo con Teheran. Privatamente, un diplomatico occidentale mi ha spiegato il servilismo pubblico verso Dodik con la strategia "del torcere il braccio" che lui e i suoi colleghi applicano durante le frequenti riunioni a porte chiuse. La convinzione che si tratti di una strategia adeguata è basata sulla valutazione che a Dodik sia necessario uno scontro pubblico pre-eletorale con la comunità internazionale, e che loro non vogliono venirgli incontro includendo il pubblico. Ho espresso le mie riserve verso una tale strategia, primo perché ho sospetto della sua efficacia, e poi anche per le conseguenze dell’effetto di radicalizzazione nazionalista dei bosgnacchi e dei croati, che non sono proprio un effetto collaterale trascurabile.
Purtroppo, avevo ragione. L’intera strategia dei rappresentanti internazionali in BiH si è sciolta con l’annuncio dell’Alto rappresentante Christian Schwarz-Schilling sulla possibilità di sostituire Dodik e di escluderlo dalla vita politica. Non si sa cos’è peggio nella dichiarazione di Schilling: se il fatto di essere completamente consapevole che non ci sono possibilità per osare di prendere una tale decisione, e Dodik lo sa benissimo, oppure il fatto che con una vuota minaccia abbia solo sollevato l’indice di consensi a favore di Dodik fra gli elettori serbi, oppure per averlo fatto soltanto dieci giorni prima delle elezioni…
Naturalmente non bisogna amnistiare i cittadini della Bosnia ed Erzegovina e i politici locali dalla responsabilità per il fatto che questo paese non sia ancora in grado di funzionare in modo indipendente. Ma un livello non inferiore d’immaturità nella risposta locale al nazionalismo di Dodik lo hanno mostrato anche i rappresentanti stranieri a Sarajevo. Loro sono qua, forse, col compito di stabilizzare la Bosnia ed Erzegovina. La cosa tragica è che lo fanno con la stessa ingenuità con la quale l’occidente credeva che Slobodan Milosevic fosse il fattore della pace nei Balcani dopo l’accordo di Dayton.
Se la comunità internazionale avesse reagito in tempo alla campagna senza scrupoli di Dodik per ottenere il potere, come non lo fece nemmeno nel caso di Milosevic, le conseguenze avrebbero potuto essere di gran lunga inferiori. Adesso è illusorio aspettare una votazione razionale da parte dell’elettorato serbo. Soltanto i bosgnacchi e i croati possono ancora salvare la Bosnia ed Erzegovina da una catastrofe, se riusciranno ad evitare la trappola della dannosa convinzione secondo la quale i loro nazionalisti sono una risposta giusta e saggia a Dodik.