Kosovo, le contraddizioni della presenza europea

Ad inizio aprile dalle pagine del quotidiano britannico The Guardian, ha espresso critiche molto esplicite all’operato della missione europea in Kosovo e dell’International Civilian Office. Un punto di vista da tenere in considerazione dato che Andrea Lorenzo Capussela ha lavorato in Kosovo, sino alla primavera di quest’anno, proprio per l’ICO. Una nostra intervista

16/05/2011, Francesco Martino -

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Eulex (The advocacy project/flickr)

Dal dispiegamento della missione europea Eulex (primavera 2008) Andrea Lorenzo Capussela è stato direttore del dipartimento Affari economici e fiscali dell’International Civilian Office (ICO). Nel marzo 2011 Capussela ha terminato il proprio mandato. Alcune settimane più tardi, ha pubblicato un intervento molto critico sull’operato e i risultati ottenuti in questi anni dalla missione europea Eulex (ma anche sulle attività dell’ICO) sul quotidiano britannico “The Guardian”.

In un suo recente intervento sul “Guardian”, lei sostiene che la missione Eulex è oggi un simbolo di incompetenza. Su quali fattori basa una posizione così critica?

Il titolo del mio intervento, piuttosto enfatico, non è stato scelto da me, ma dai redattori del “Guardian”, comunque nella sostanza corrisponde al mio pensiero. Le critiche all’operato di Eulex nascono innanzitutto dalla gestione, a mio modo di vedere gravemente inadeguata, di alcuni casi che ho potuto seguire da vicino. Primo fra tutti l’arresto (per accuse di corruzione) di Hashim Rexhepi, ex direttore della Banca centrale del Kosovo. Rexhepi è stato tenuto in carcerazione preventiva per quattro mesi, quando ben tre dei quattro capi di accusa erano basati esclusivamente su lettere anonime. Quando questo elemento scandaloso è emerso, per merito dell’avvocato difensore, la procura ha presentato al giudice nuove prove, ma in modo informale e senza mostrarle alla difesa. Prove, queste, subito accettate dal tribunale per confermare la carcerazione preventiva. Mi sembra che ci siano tutti gli elementi per parlare di gravi violazioni dei diritti dell’accusato,che da quasi sei mesi attende di sapere se la procura chiederà il rinvio a giudizio o l’archiviazione.

La sue critiche toccano anche i risultati ottenuti da Eulex nella lotta alla corruzione…

In questi tre anni, nonostante i proclami di lotta senza quartiere al fenomeno, senza risparmiare i piani alti del potere, nessuna inchiesta rilevante è stata portata a giudizio. Anche l’operazione anti-corruzione che ha avuto l’eco mediatica più forte, quella a carico dell’ex ministro dei Trasporti Fatmir Limaj (aprile 2010), non ha portato a nessun risultato visibile. Durante la mia missione in Kosovo sono venuto personalmente a conoscenza di alcune operazioni molto sospette. In tutti i casi ho girato ad Eulex le informazioni di cui disponevo e, almeno in un caso, ritengo di aver fornito prove documentali molto significative. Purtroppo, però, non ho mai visto alcun seguito rispetto alle mie segnalazioni.

Ma si tratta soltanto di negligenza oppure, secondo lei, Eulex ha posto obiettivi politici, cioè garantire la stabilità del Kosovo, al di sopra di quelli dichiarati ufficialmente, cioè rafforzamento dello stato di diritto e lotta a corruzione e criminalità?

Non dispongo di elementi concreti per rispondere. Mi sembra però una domanda del tutto legittima. Dispongo, ad esempio, di un’istruzione interna emessa dal capo-missione Eulex Xavier Bout de Marnhac che richiede di ricevere “informazioni preventive” in merito ad una lunga lista di attività di competenza della missione, comprese le legal actions, termine che comprende inchieste, procedimenti legali, decisioni del tribunale. Una richiesta che, a mio modo di vedere, da una parte dimostra una fondamentale incomprensione del concetto di “indipendenza della magistratura”, e dall’altra tradisce il desiderio di essere informati (e quindi, potenzialmente, di poter intervenire) sulle scelte dei procuratori e degli operatori di giustizia di Eulex. Sono convinto che questa istruzione non sia stata applicata, ma il fatto stesso che sia stata emanata fa pensare che ci sia il desiderio di tenere sotto controllo, almeno informativo, le operazioni più delicate.

Secondo lei, quindi, è possibile che Eulex abbia preferito “chiudere un occhio” rispetto a situazioni potenzialmente destabilizzanti sugli equilibri politici del Kosovo?

Credo che domandarsi se Eulex, nel delineare alcune scelte operative, abbia messo sul piatto della bilancia la stabilità politica, o la necessità di avere buoni rapporti con le élites locali, sia senz’altro giustificato. Bisogna tenere presente il fatto che Eulex in Kosovo si trova oggettivamente in una posizione difficile. Il fatto che l’Unione europea nel suo complesso (e di conseguenza anche Eulex) non abbia riconosciuto l’indipendenza di Pristina, rende delicata la posizione della missione, che per operare sul campo ha bisogno della collaborazione delle autorità locali. In alcuni casi, questo potrebbe aver spinto Eulex ad evitare situazioni di scontro e tensione con la classe politica kosovara.

Questo non significa però che Eulex sia immune da critiche. Nelle scorse settimane la missione è stata attaccata sia dai membri del governo kosovaro che dall’associazione degli ex combattenti UÇK per le inchieste sui crimini di guerra e la timidezza nell’intervenire nel Kosovo settentrionale, a maggioranza serba…

Questo sembra essere il peggiore dei mondi possibili: i traffici illeciti che avvengono oggi non vengono toccati, per non incidere sul precario equilibrio politico, ma allo stesso tempo Eulex è tenuta sotto scacco dalle stesse élites che potrebbero temere le sue azioni di contrasto alla dilagante corruzione. Allo stesso tempo, sono lieto di riconoscere che in questo settore Eulex sembra operare con maggiore determinazione che sulla corruzione e la criminalità economica; ma, dal punto di vista degli interessi dello sviluppo economico, sarebbe più utile concentrarsi su queste ultime, o quantomeno dare loro la stessa priorità accordata ai crimini di guerra di dieci anni fa. Non fosse altro perché spesso i circoli (o addirittura le persone) responsabili dei crimini solo le stesse.

Mentre i risultati nella lotta alla corruzione languono, tra i cittadini del Kosovo monta un clima di crescente insoddisfazione. Il cliché del “pigro internazionale” che lavora poco e riceve retribuzioni da capogiro sembra affermarsi sempre di più a Pristina e dintorni…

In questo cliché, probabilmente, ci sono elementi di verità: per alcuni i Balcani sono diventati una vera e propria professione, anche se nelle missioni internazionali sono in molti quelli che lavorano con competenza e dedizione. Credo che il problema centrale risieda nello scarso grado di accountability (responsabilità), visto che negligenza o poca intraprendenza sono raramente sanzionate. Missioni come Unmik o Eulex, per funzionare, hanno bisogno dell’immunità diplomatica. Il tema è oggetto di ampio dibattito. Personalmente, sono convinto che il punto di equilibrio tra immunità e responsabilità, anche alla luce dell’esperienza del Kosovo, debba essere rivisto.

Lei ha espresso critiche anche nei riguardi dell’International Civilian Office (ICO), la missione per cui ha lavorato in questi anni, soprattutto riguardo all’evoluzione del rapporto con le autorità locali…

L’operato della nostra missione in rapporto alle autorità di Pristina può essere suddiviso in tre fasi. Dopo la dichiarazione di indipendenza, l’ICO ha interagito in modo utile e positivo con il governo locale, aiutando il Kosovo a darsi le forme di uno stato sovrano. In un secondo periodo, la missione ha spinto perché queste istituzioni operassero meglio, con rispetto delle regole di trasparenza e buona governance, incontrando da parte kosovara sostanziale collaborazione, seppure spesso riluttante e di facciata, e non si è tirata indietro quando occorreva criticare pubblicamente il governo.

Negli ultimi mesi, però, le cose sono cambiate, in peggio. L’élite locale è stata indebolita da fattori interni ed esterni (rapporto Marty, elezioni politiche problematiche,  stagnazione dei riconoscimenti internazionali). In questo contesto, ICO ha scelto di attivarsi per garantire stabilità politica, arrivando ad assumere un atteggiamento quasi simbiotico con il governo di Pristina.

E’ questa un’impostazione che non ho condiviso e ho avversato. Proprio il dissenso della missione sulla mia proposta di opporsi a un’operazione compiuta dal governo è stata, dopo un lungo dibattito, la ragione del mio licenziamento disciplinare, che è avvenuto appena tre ore prima del termine del mio mandato. Anche per questo ho condiviso la scelta di chiudere l’ufficio economico della missione, di cui ero responsabile: non c’erano più le condizioni per lavorare come ritenevo andasse fatto.

Può farci qualche esempio di iniziative politiche intraprese da ICO in questa direzione?

In campagna elettorale, il premier Hashim Thaçi ha promesso aumenti salariali a tutte o quasi le categorie dell’impiego pubblico. Una politica sbagliata e irresponsabile, ma che il capo-missione ICO Pieter Feith ha sostanzialmente appoggiato con dichiarazioni pubbliche non discusse con me ed espresse quasi contemporaneamente al duro giudizio della Commissione Europea e del Fondo Monetario Internazionale.

Anche il giudizio espresso da Feith sulle elezioni politiche (“peaceful and constructive”) è, dal mio punto di vista, problematico. Certo, non ci sono stati incidenti, ma le elezioni sono state pesantemente condizionate da brogli. Al cuore di una democrazia funzionante c’è un processo elettorale libero e corretto: il fatto che ICO non abbia espresso critiche su elezioni evidentemente falsate, a mio modo di vedere, somiglia molto ad un tradimento della propria missione.

Negli ultimi mesi l’influenza statunitense sulla vita politica kosovara è diventata ancora più evidente. Che ruolo hanno giocato gli Stati Uniti nel definire gli orientamenti all’interno di ICO?

La forte influenza degli USA in Kosovo non è certo una novità. E’ vero che in questa fase è divenuta ancora più visibile, con situazioni anche buffe, come quelle che hanno accompagnato sia l’elezione a presidente di Bagjet Pacolli sia l’elezione dell’attuale presidente Atifete Jahjaga. Anche in ICO, per motivi strutturali, l’influenza USA è forte. Siccome il piano Ahtisaari non è stato approvato dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, l’unica chiara base legale della missione è la costituzione del Kosovo. L’ICO si trova quindi, nei fatti, a dipendere dal sostegno di alcuni stati “sponsor” dell’indipendenza di Pristina, soprattutto quelli del gruppo informale chiamato “Quint” (USA, Germania, Francia, Regno Unito, Italia) all’interno del quale gli Stati Uniti hanno un peso centrale. Il delinearsi di relazioni sempre più strette di ICO con il governo di Pristina coincide, a mio modo di vedere, con un aumento dell’influenza USA all’interno della missione.

L’ambasciatore americano Dell è stato molto attivo anche nella definizione del piano economico per il 2011-14, recentemente presentato dal premier Thaci. Ha avuto modo di visionare questo documento?

Purtroppo non ho avuto l’occasione di leggerlo. Mi limito a fare una considerazione di carattere generale: il Kosovo sottolinea continuamente la propria vocazione europea e l’ intenzione di aderire quanto prima all’Unione europea. Mi sembra curioso che una decisione così importante, come la definizione di un piano economico di medio termine, sia stata presa attraverso un dialogo quasi esclusivo con la controparte americana. Credo che coinvolgere anche i partner europei sarebbe stato preferibile.

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