Il “fattore armeno” in Azerbaijan e nella diaspora

Il conflitto con l’Armenia influenza la politica interna ed estera azera. Il “fattore armeno” è usato per manipolare l’opinione pubblica, giustificare provvedimenti impopolari in politica interna e omogeneizzare messaggio e agenda della diaspora. Con conseguenze negative sul processo di risoluzione del conflitto stesso. Un’analisi

16/05/2011, Jale Sultanli -

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Manipolazioni (flickr/aliasgrace)

Questo articolo è una versione breve di "Azerbaijani Domestic Politics and the Diaspora: (Mis)use of the “Armenian Factor” and its Implications for Conflict Resolution ", originariamente pubblicato su CaucasusEdition.net . "Caucasus Edition" è una rivista online indipendente che si occupa di trasformazione del conflitto in Nagorno Karabakh offrendo analisi e rassegne stampa dalle aree coinvolte dal conflitto. Scopo della rivista è offrire un luogo di analisi e dibattito mirato a una risoluzione sostenibile del conflitto in Nagorno Karabakh. Gli autori provengono da tutte le zone coinvolte.

Il fattore armeno in politica interna

Il fattore armeno si manifesta in due modi nella società e nella politica azere: da un lato nella convinzione condivisa dall’opinione pubblica che il conflitto sia il principale problema irrisolto per il Paese, dall’altro nell’uso che del conflitto fa la classe politica per delegittimare nemici e rivali. Sull’approccio al conflitto e ai problemi interni ci sono molte divisioni, anche fra gli attivisti politici. Molti oppositori e attivisti considerano l’attuale status quo e l’incapacità azera di sbloccare la situazione una diretta conseguenza delle politiche del governo attuale e di quello precedente. In quest’ottica, le possibilità di successo nel conflitto sarebbero legate allo sviluppo complessivo e a riforme democratiche che non sono in atto. Chi sostiene il governo ritiene invece che il dissenso destabilizzi e indebolisca la posizione azera distraendo dal conflitto. Queste visioni contrastanti, combinate con la frustrazione dell’opinione pubblica per lo stallo nei negoziati e le diffusa ostilità verso l’Armenia, creano un terreno fertile per l’uso del nemico esterno per manipolare l’opinione pubblica, far tacere le critiche sulle violazioni dei diritti umani e distrarre dai problemi interni.

Visita il dossier di Osservatorio sul rischio di nuovo conflitto in Nagorno Karabakh (2011)

Dato che la collaborazione con persone od organizzazioni armene è considerata un modo di compromettere gli interessi azeri, è diventata anche un’utile accusa per screditare e, più raramente, processare i nemici politici interni. Questo potrebbe essere una percezione più che una realtà, dato che lo stesso fatto che qualcuno sia stato effettivamente perseguito formalmente dalle autorità per aver “collaborato” con l’Armenia è in discussione, e a parte alcuni interrogatori pare non ci siano in effetti casi di incarcerazioni o processi. In ogni caso, anche la sola percezione del rischio di poter essere interrogati o perseguiti legalmente genera cautela nel contattare o collaborare con persone e organizzazioni armene. Se aggiungiamo la generale ostilità al contatto con qualunque persona o cosa associata all’Armenia, ecco che la “vicinanza con il nemico” diventa un comodo ed efficace strumento di intimidazione e delegittimazione.

Anche per questo, attivisti per i diritti umani e la maggior parte dei movimenti giovanili hanno pochissimi contatti con organizzazioni armene. Sanno che questa collaborazione può essere usata per screditarli agli occhi dell’opinione pubblica e intimidire chi ha avuto un ruolo attivo nelle campagne su Facebook o nelle proteste di piazza. La manipolazione del fattore armeno per la soppressione del dissenso ha implicazioni anche per il conflitto stesso, in quanto scoraggia l’emergere di nuove iniziative di pace.

La diaspora azera e il fattore armeno negli Stati Uniti

Il conflitto sul Nagorno Karabakh è stato uno dei fattori principali nel determinare la politica estera azera e le attività della diaspora organizzata in Europa e Stati Uniti. Nell’ultima decina d’anni, l’Azerbaijan ha cercato di mettersi alla pari con l’organizzatissima diaspora armena e le sue lobby, migliorando la propria diplomazia e incoraggiando le attività della diaspora. La Sezione 907 (una legge statunitense che vietava al governo di Washington di offrire sostegno al governo azero approvata a inizio anni Novanta) e l’abbondanza di informazioni sul Karabakh offerta dalla diaspora armena, ha reso il conflitto una priorità nell’agenda della diaspora per generare sostegno nella comunità internazionale.

La commemorazione degli eventi di Khojali, presentazioni, conferenze, tavole rotonde in università con organizzazioni internazionali e a Capitol Hill, petizioni su varie questioni relative ad Azerbaijan e Armenia: queste ed altre le abituali attività della diaspora organizzata negli Stati Uniti.

In un contesto di attività della diaspora principalmente dedicate a guerre legislative e di informazione con il nemico esterno, il fattore armeno si manifesta in due modi. In primo luogo, fino a pochi anni fa, ha soppresso nella diaspora l’emergere di dissenso nei confronti del governo di Baku da parte di vittime di violazioni di diritti umani o attivisti che sostengono riforme democratiche. Inoltre, la stessa natura delle attività sostenute ha scoraggiato la diaspora dall’intraprendere misure di confidence-building e risoluzione del conflitto insieme agli armeni. Peraltro, è giusto ricordare che gli obiettivi opposti della diaspora armena contribuiscono altrettanto a rendere difficile questo processo.

Come succede anche nello stesso Azerbaijan, e considerato anche il ruolo cruciale della diaspora nella “guerra d’informazione” con l’Armenia condotta a livello internazionale, secondo l’opinione predominante nelle organizzazioni della diaspora azera rendere pubblici problemi interni quali le violazioni dei diritti umani comprometterebbe l’obiettivo di creare sostegno per l’Azerbaijan sul tema del Nagorno Karabakh. Quindi, finché il conflitto non è risolto, la diaspora non dovrebbe dedicarsi ai problemi interni.

Di recente, tuttavia, il quadro ha cominciato a cambiare. Voci alternative, seppur poche, sono emerse da membri della diaspora per portare l’attenzione sulle violazioni dei diritti umani e sulla mancanza di libertà in Azerbaijan. Il referendum che ha tolto il limite al numero di mandati presidenziali consecutivi possibili e poi l’arresto dei blogger Emin Milli e Adnan Hajizada hanno generato ondate di protesta a Washington, New York e in diverse città dell’Europa occidentale nonché petizioni indirizzate a politici e organizzazioni internazionali.

Chi protesta attribuisce all’attuale governo la responsabilità per la perdita di territori e la stasi nei negoziati, e vede nella democratizzazione lo strumento per rafforzare l’Azerbaijan e di conseguenza risolvere positivamente il conflitto. In quest’ottica, il silenzio su mancanza di libertà e di progresso democratico danneggia l’Azerbaijan e il suo sviluppo di lungo termine.

Se l’emergere di visioni alternative ha vivacizzato il dibattito su problemi interni e conflitto del Nagorno Karabakh all’interno della diaspora, i critici della politica interna del governo tendono comunque ancora a rifuggire dibattiti e attività sul conflitto, il che porta al poco o nulla di fatto sul fronte confidence-building.

Implicazioni per la risoluzione del conflitto

Dal punto di vista della risoluzione del conflitto, il fattore armeno e la sua manipolazione hanno chiari effetti negativi. L’uso del fattore armeno per screditare e intimidire attivisti e intellettuali influenza i processi transfrontalieri, riducendo così il potenziale impatto dei movimenti sulla trasformazione del conflitto. In primo luogo, soffoca il dibattito interno, bilaterale e fra le diaspore sul Nagorno Karabakh, dibattito che potrebbe contribuire ad una migliore analisi e comprensione del conflitto da parte del pubblico. In secondo luogo, compromette l’emergere di una diplomazia parallela non ufficialie, la cosiddetta “track II diplomacy”, cosa che molti esperti ritengono necessaria per una risoluzione pacifica del conflitto.

In Azerbaijan, l’abuso del fattore armeno scoraggia la maggior parte della gioventù istruita e di talento dall’intraprendere progetti di peace-building. Ad esempio, quasi tutti i movimenti giovanili azeri (AN, Nida, OL, Dalga…) si tengono alla larga del tema del Nagorno Karabakh, in parte perché non lo ritengono una priorità, in parte per il rischio che questo coinvolgimento comporterebbe. Di conseguenza, gran parte dei gruppi critici verso il governo su altri temi non si esprime sul Nagorno Karabakh. Anche nel pubblico più vasto, i giovani non prendono parte a programmi di questo tipo per paura di conseguenze per le future possibilità di impiego o per la famiglia.

Lo sviluppo di un ambiente più tollerante che dia a gruppi ed individui lo spazio necessario per confrontarsi con l’altra parte potrebbe contribuire al processo di trasformazione del conflitto di cui entrambe le società coinvolte hanno grande bisogno.

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