Bosnia: segnali di (fine?) tempesta

L’ennesima crisi a quindici anni da Dayton. I nazionalismi destabilizzano lo Stato, mentre la comunità internazionale sembra impotente e confusa. La Bosnia cerca la propria via per entrare nell’UE tra tante difficoltà e ferite ancora aperte. Un commento

17/05/2011, Christophe Solioz, Wolfgang Petritsch - Ginevra, Parigi

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Sarajevo - Anna Cavarzan

Una quindicina d’anni dopo la firma degli Accordi di Dayton, il 14 dicembre 1995 a Parigi, la Bosnia resta invischiata in quel che rimane di una transizione post-bellica interminabile. Le crisi hanno il gusto amaro del “già visto”, scandiscono il ritmo della vita quotidiana dei suoi cittadini (dis)illusi. Ogni volta si prevede il peggio, il sollievo che segue è dunque grande quanto illusorio.

La Bosnia è ora puntualmente di fronte a una nuova crisi. Vediamola più da vicino: dalle elezioni dell’ottobre 2010 lo Stato non ha un governo; i partiti bosniaco-croati (HDZ e HDZ 1990) e la Commissione elettorale contestano la formazione del governo della Federazione croato-mussulmana; la creazione di una “assemblea nazionale croata” a Mostar; la costruzione di una chiesa ortodossa a due passi dal monumento di Potočari in ricordo del genocidio di Srebrenica; infine, la minaccia di referendum nella Republika Srpska sul sistema giudiziario e le competenze delle autorità internazionali.

Si intuisce una certa agitazione nelle cancellerie occidentali. E l’Unione europea s’affretta a mandare a Banja Luka Catherina Ashton per ottenere in extremis l’annullamento del referendum. Mentre l’alto rappresentante dell’UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza ha altre gatte da pelare, è apprezzabile che si rechi di persona in una provincia bosniaca per riportare alla ragione un primo ministro che ha gli occhi più grandi dello stomaco. Per quanto riguarda gli altri problemi, si farà quel che si può, giorno per giorno. Intanto, tutto sembra più o meno rientrato nell’ordine. Per quanto tempo?

Tale scenario si ripete troppo spesso, è necessario capirne la logica. Queste mosse, cui unico scopo è la destabilizzazione dello Stato bosniaco, sono lo strumento di baratto dei nazionalisti, sopratutto serbi, ma non solo, che trovano così un mezzo per occupare la scena politica. Canto del cigno che non si deve però sottovalutare. A questo si aggiunge l’interesse di milioni di bosniaci di ogni parte a far prevalere lo status quo e a intralciare il processo di ormeggio all’Unione europea. Non meno costernante, l’assenza totale di un movimento di opposizione significativo: la primavera araba non sembra agitare le sponde della Neretva. L’innesto della democrazia non sembra attecchire o forse ha bisogno di tempi particolarmente lunghi. Ma il tempo passa.

Alle resistenze interne, bisogna aggiungere anche il comportamento goffo e le mancanze della “comunità internazionale”. Gli Stati uniti, occupati altrove, sembrano poco desiderosi di togliere le castagne dal fuoco. Dal 2006, l’OHR ha perso in efficacia e, sopratutto, in credibilità. Il trattato di Lisbona (2009) non ha risolto per il momento i problemi di governance di un’Unione sempre incapace di parlare con una sola voce (Barroso, Van Rompuy, Ashton).

Il Servizio europeo per l’azione esterna e specialmente il suo Direttore per i Balcani, ex-altro rappresentante Miroslav Lajčák, devono ancora orientarsi. Alla fine ci restano solo gli occhi per piangere e deplorare l’assenza di una strategia convincente per uscire dal labirinto bosniaco a testa alta.

Tra le crisi a ripetizione e le cantonate prese dalla cosiddetta “comunità internazionale”, è inutile sottolineare che tutto il processo di riforma in Bosnia è bloccato da anni. Questa situazione non può più durare, è l’ora delle scelte e dell’azione.

Prima di tutto, è importante rimaneggiare gli Accordi di Washington (1994) che regolano il funzionamento della Federazione della Bosnia-Erzegovina, cioè l’entità croato-mussulmana, dal 2006 in fallimento e al limite dell’implosione.

Diventa ineluttabile sopprimere uno dei tre livelli di governo territoriale al fine di ottenere un’architettura istituzionale più razionale che conceda nello specifico più spazio ai poteri locali.

Un raggruppamento regionale di agglomerati dovrebbe permettere di soddisfare le rivendicazioni dei bosniaco-croati, senza che ci sia neppure il problema di creare una terza entità. Si tratta dunque di salvare una nave alla deriva e di equilibrare il rapporto di forza con l’altra Entità, la Republika Srpska.

In secondo luogo, l’OHR ha fatto il suo tempo. L’attuale crisi dimostra che si può ormai sostituire ai poteri coercitivi dell’OHR (Bonn powers), i mezzi persuasivi e non coercitivi dell’UE (Soft powers). Bisogna dunque portare a termine il processo di trasferimento alle autorità bosniache delle competenze ancora tenute da questo organismo che dovrebbe rapidamente trasformarsi in osservatorio che vigila il rispetto dell’integrità territoriale del Paese. Parallelamente, è indispensabile istituire una missione Ue dotata di una visione e di una strategia forte.

Infine, si dovrà un giorno affrontare direttamente la revisione degli Accordi di Dayton. Ci sembra arrivato il momento di non aver paura d’aprire il vaso di Pandora, unico modo per far riemergere la speranza di un futuro diverso per questo Paese che ha sofferto nel dopo guerra quasi come durante la guerra. È importante avviare un negoziato sulle competenze centrali necessarie a uno Stato che aspira a diventare membro dell’UE.

Lo storico accordo di Mrakovica-Sarajevo (2002) dimostra che è possibile seguire questa via coinvolgendo i politici bosniaci in un processo che questa volta avrà come obiettivo il superamento delle contraddizioni e delle insufficienze degli Accordi di Dayton. Da qui la nostra proposta di un conclave sotto l’egida dell’Unione europea, che coinvolga gli stati garanti degli Accordi di Dayton (la Serbia e la Croazia) e la Turchia.

Partendo da un bilancio di questi quindici anni di semi-protettorato, la posta in gioco sarà di riconsiderare la ripartizione delle competenze a diversi livelli (Stato, Entità, distretti e comuni). La linea rossa da non oltrepassare è nota a tutti, a Banja Luka come a Sarajevo: non si può considerare né un’indipendenza delle Entità, né una centralizzazione assoluta. Tra questi due estremi, il negoziato deve avere come obiettivo l’istituzione di un sistema confederale avente come bussola i criteri e le esigenze, molto pragmatiche, per l’adesione all’UE.

Tra i sostenitori dell’interventismo, che pensano che solo l’azione della comunità internazionale possa impedire l’implosione della Bosnia, e quelli che, al contrario, ritengono che i bosniaci soli sono responsabili del loro futuro, noi siamo per una via intermedia: quella di una responsabilità condivisa, di un partenariato esigente che superi gli errori del passato per mettere il Paese nell’orbita di Bruxelles.

 

Wolfgang Petritsch, l’ex Alto rappresentante in Bosnia Erzegovina (1999-2002), attualmente ambasciatore d’Austria presso l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) a Parigi

Christophe Solioz, segretario generale del Centro per le Strategie di Integrazione Europea (CEIS) a Ginevra

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