Penelope in Groznyj
Marco Calvani ha messo in scena "Penelope in Groznyj", un duro spettacolo sul conflitto in Cecenia ispirato agli scritti di Anna Politkovskaja e di Omero. Uno spettacolo che va ben oltre la storia cecena, mostrando attraverso un uso sovrabbondante del corpo nudo la violenza e le umiliazioni causate da tutte le guerre
L’Iliade. La madre di tutte le guerre. L’Odissea. La madre di tutte le storie. Fuse insieme nella sceneggiatura di Marco Calvani liberamente ispirata ai reportage di Anna Politkovskaja sulla guerra cecena, andato in scena al Teatro OutOff di Milano dal 24 al 29 maggio. "Piace" non è la parola giusta. Estremamente icastico e suggestivo, a livello di impressioni ed emozioni. Viene quasi voglia di distogliere lo sguardo dalla scena. Lo stesso effetto dei libri di Anna Politkovskaja: si legge a piccole dosi, ogni due pagine si chiude il libro, perchè l’orrore della guerra trabocca. In egual modo, a teatro: ogni tot minuti viene spontaneo voltare la testa dall’altra parte o chiudere gli occhi per un secondo. È così che dev’essere. Se la messa in scena dell’orrore non suscita repulsione non serve. Sarebbe come andare ad Auschwitz per una scampagnata.
Penelope fa la sua prima apparizione vestita di bianco, riversa e priva di sensi su un tavolo da tortura dove il maggiore Antinoo pasteggia in compagnia del suo capitano. E chiude in piedi, in lutto, vestita da shahidka, da vedova nera. È un personaggio ambiguo, che nel corso dell’azione si evolve. Canta con passione i canti della sua terra cecena, ma si concede ad Antinoo, mostrando il seno generoso. "Sto solo cercando di salvarmi la pelle", dice ad Euriclea. "Il corpo è solo un involucro. Non mi hanno ancora ucciso l’anima." Della famosa tela non c’è più traccia. Non attende più Ulisse?
La scena è incredibilmente ricca di riferimenti letterari e storici, che vanno al di là di Anna Politkovskaja e del testo omerico.
Un finale bacchico con Elena che si masturba con la canna di un fucile. Riporta alla mente "Ragazzi di zinco" di Svetlana Aleksievič. Vi è descritta una scena simile. Il confine fra realtà e creatività è più labile di quanto si pensi. Elena "con gli occhi calmi e il cuore spigoloso" che non crede in niente se non nell’uso della propria bellezza. Ricorda Celeste di Porto, "Stella di Piazza Giudia": la bella spia del ghetto ebraico di Roma, famosa per i suoi rapporti con i fascisti per salvarsi la pelle, nonostante lei stessa fosse ebrea. "Io non sono come loro." Così si presenta Elena, bella, rinnegata, corruttrice, nella prima scena, impellicciata, pronta per andare in Sicilia. "A fare quello che fanno tutti: bere vino e mangiare salame." I due divieti islamici: alcol e maiale.
Quasi brutale, sovrabbondante l’uso del corpo nudo: simbolo dell’umiliazione in guerra. Un uomo nudo non è più un uomo. È un’immagine potente che risveglia nella memoria i campi di concentramento nazisti. Uomini e donne spogliati dei loro effetti personali di fronte ai loro carcerieri. Uomini e donne nudi avviati alle docce. Cataste di corpi nudi ammucchiati nelle fosse comuni. Richiamano le riprese amatoriali fatte dai soldati russi dei prigionieri ceceni.
Spogliare un uomo dei propri vestiti equivale a spogliarlo della propria dignità. Una regola antica come la guerra stessa.
da un punto di vista visivo è davvero
notevole… la mia non è una valutazione
artistica, ma è fatta in base alla
verosimiglianza con la guerra veraArkadij Babčenko
Telemaco, giovane guerrigliero, va in montagna per unirsi al padre, ex-Ministro di un Paese che non è più. Fatto prigioniero, nella scena finale, solleva fra le braccia la propria amata, morta, con il volto sporco di sangue, e urla di disperazione. Quel corpo femminile esile e gracile fa pensare a Elsa Kungaeva: era forse cosi la ragazzina stuprata e uccisa dal colonnello Budanov?
Il personaggio bianco, Euriclea. L’anziana saggia che personifica l’Islam tradizionale della Cecenia, il pacifico sufi, a contrasto del dilagante estremismo. L’unico personaggio interamente positivo. Rassegnata, fra deportazioni e guerre. Sullo sfondo Laerte, reso folle dalla guerra, uno jurodivyj ceceno, che non ha bisogno di parlare per riempire il palcoscenico. L’uomo che ha perso tutto e che non capisce più niente. Quanti ce ne sono, cosi, in Cecenia, oggi, storditi dalla guerra fino all’oblio totale?
Il personaggio nero: il maggiore Antinoo, luciferino, che maledice il giorno in cui è nato. Il trucco ispirato all’hard-rock, con smalto nero sullle unghie e un solo occhio pesantemente truccato di nero. Morde il seno di Penelope e si preoccupa di aver messo su pancia in Cecenia. Dev’essere perfetto, per la missione che la storia gli ha affidato.
Fra i due si collocano gli altri personaggi: una gamma di chiaroscuro a intensità variabile. "Due tette per un sorso d’acqua", risuona la supplica di un’ancella di Penelope al piantone russo. O l’enigmatica Dottoressa, che insiste sui casi di suicidio dell’esercito russo ma poi acconsente a registrarli come "Arresto cardiaco." Troppo debole per opporsi, ma non abbastanza per adeguarsi senza fare domande, decide di togliersi la vita anche lei, seguendo il destino dei suoi soldati.
Non dev’essere stato facile rendere sulla scena le complesse sfaccettature dell’intricata guerra cecena. Ci vuole audacia e una vera convinzione, per portare uno spettacolo cosi forte in una Milano assorbita dal ballottaggio. Convinzione che salta fuori a ogni secondo, da tutti i componenti della compagnia, non solo sulla scena nell’interpretazione, ma anche fuori.
La Cecenia oggi
Marco Calvani non si è limitato a mettere in scena uno spettacolo sulla Cecenia, ma a latere ha voluto organizzare una tavola rotonda, patrocinata da Memorial Italia , intitolata "L’orrore dimenticato", per dare la possibilità di raccontare a chi aveva qualcosa da dire, e di ascoltare a chi ritiene l’informazione non solo un diritto ma anche un dovere. Nel foyer del teatro si sono riuniti, per parlare di Cecenia e di guerra, Andrea Nicastro, corrispondente del Corriere della Sera, Massimo Bonfatti, Presidente dell’OdV "Mondo in Cammino", Arkadij Babčenko, veterano delle guerre cecene e autore del libro "La guerra di un soldato in Cecenia" e la sottoscritta. A sopresa, non prevista, la partecipazione di Nikolai Lilin, autore di Educazione siberiana e Caduta libera, libro dedicato alla guerra in Cecenia.
Arkadij Babčenko, ha commentato lo spettacolo: "Non ho potuto seguire il testo perchè non conosco la lingua, ma da un punto di vista visivo è davvero notevole. La mia non è una valutazione artistica, ma è fatta in base alla verosimiglianza con la guerra vera."
Un’iniziativa che può sembrare anacronistica, oggi che Grozny non è più occupata dai russi ma dai calciatori di fama internazionale che vanno ad inaugurare il nuovo stadio di Grozny, con Ruud Gullit che allena il Terek. Una questione superata, una guerra ormai finita. Da dimenticare. Da lasciarsi alle spalle. Soprattutto in vista delle elezioni presidenziali russe previste per l’anno prossimo. Ma proprio quando si inizia a dimenticare si fa più forte la necessità di ricordare."Dalla guerra non si torna, è un biglietto di sola andata" dichiara Arkadij Babčenko. I morti, le torture, le ingiustizie, non si cancellano con una ricostruzione a tappe forzate. Chi ha vissuto la guerra è ancora lì. Penelope ha atteso dieci anni, tessendo e disfando la sua tela. Ad aspettare che Ulisse torni e faccia giustizia. Ma Ulisse, per adesso non torna.