La Grecia e Srebrenica
Volontari da diversi Paesi hanno preso parte alla guerra in Bosnia Erzegovina. Secondo diverse testimonianze, nel luglio del ’95 a Srebrenica c’erano anche alcuni paramilitari greci. Un approfondimento sui rapporti che negli anni ’90 legavano la Grecia alla Serbia di Milošević
Un’amica mi racconta di come lei, croata, insieme al marito italiano, siano stati ben accolti in Grecia: l’uomo d’affari che li ospitava li aveva sistemati a casa propria, li portava in giro, offriva loro le cene. Durante una di quelle cene, il padrone di casa proruppe in lacrime parlando dei cugini morti e dei beni perduti. L’evento che gli provocava così tanto dolore era accaduto cinque secoli fa, quando l’allora Costantinopoli fu conquistata dagli ottomani.
“Sono tutti uguali”, ha concluso la mia amica riferendosi ai greci e al loro atteggiamento melodrammatico.
“Non sono tutti uguali”, obietto.
Srebrenica
Ad esempio, non è così il mio amico Leonidas, giornalista e scrittore greco. Egli si sentì offeso, e si oppose pubblicamente alla gloria che i volontari greci avevano procurato alla patria conquistando Srebrenica, nel luglio 1995, insieme ai serbi bosniaci. “In onore del coraggioso combattimento dei greci schieratisi con i serbi”: su esplicita richiesta del generale Ratko Mladić (intercettazione depositata presso il Tribunale dell’Aja) la bandiera greca fu innalzata assieme a quella serba nella Srebrenica conquistata. I quattro volontari greci distintisi nel genocidio sono stati decorati con la medaglia dell’aquila bianca. L’allora presidente dei serbi bosniaci, Radovan Karadžić, aveva assegnato loro il massimo riconoscimento. Dopo che il quotidiano greco “Ethnos”, nel 1995, pubblicò su due pagine la storia dell’eroico combattimento dei volontari greci in BiH, le linee telefoniche del giornale erano impazzite per le telefonate di centinaia di giovani che volevano partire immediatamente per il fronte in BiH e combattere insieme ai serbi.
Da noi esiste un detto, “buni se ko Grk u hapsu” (protesta come un greco in carcere), che sta a indicare uno che protesta incessantemente, si lamenta forte e non dà pace, come appunto un greco imprigionato. In questi giorni penso che il detto abbia perso il suo senso, o forse i greci sono cambiati. Altrimenti non riesco a capire come mai oggi i greci lascino, senza opporsi, che tutta l’attenzione dei media mondiali si focalizzi sul generale Ratko Mladić. E nessuno reclama la meritevole parte della Grecia e dei suoi volontari nella guerra in BiH, in particolare nella presa di Srebrenica.
Negli anni Novanta, i volontari greci partivano in guerra alla volta della Bosnia per – è così che affermavano pubblicamente – “lottare nel nome dell’ortodossia”. Venivano regolarmente reclutati per il volontariato al fronte tramite uffici a Belgrado, Atene e Salonicco. Il primo gruppo, circa cento greci “studenti, avvocati, medici e altri professionisti”, ha affermato un certo Stavros Vitalis di Salonicco, nel 1993 fu stazionato in una piccola città nella Bosnia orientale, a Vlasenica.
Proprio là, il mese scorso, sono stati sepolti i resti ritrovati di venti bosniaci del luogo, uccisi durante la guerra. A Vlasenica, dopo dieci anni di ricerche, Hasan Nuhanović (autore del libro “Sotto la bandiera delle Nazioni Unite”), ha trovato i resti di sua madre: della giovane donna presa a Srebrenica, e scomparsa, è rimasto solo un cranio fracassato e altre due ossa.
La famiglia Salaharević non è stata così “fortunata”. Sta ancora cercando il figlio e fratello Edin Salaharević. Era un ragazzo slanciato, alto, come un albero, il migliore dei giovani giocatori di pallacanestro nell’ex Jugoslavia. Era la stella del club nella città industriale di Bor, nella Serbia occidentale. Pochi giorni prima dell’inizio della guerra era tornato a Vlasenica, dalla Serbia, per far visita ai genitori. Finì detenuto nel campo di concentramento di Susica, allestito dai serbi del luogo, poi è scomparso.
Il prezioso contributo dei greci è stato riconosciuto. Radovan Karadžić, all’epoca presidente dei serbi bosniaci, oggi in carcere all’Aja, accusato per genocidio e crimini contro l’umanità, affermava che “i serbi hanno solo due amici: Dio e i greci”. I due Paesi ci tenevano così tanto ad essere i monoliti dell’ortodossia che all’ex presidente serbo Slobodan Milošević era venuta l’idea di unirli. La federazione della Grecia e la Serbia dovevano, naturalmente, inghiottire la minuscola Macedonia che stava nel mezzo. Secondo il progetto, la Macedonia doveva essere divisa tra Belgrado e Atene. Il progetto non passò per un pelo, oppure per un briciolo di sale nel cervello di qualche politico di Atene. Ma tutti gli altri tipi d’aiuto ai serbi, da parte della Grecia, non cessarono.
Dei volontari greci e del loro contributo alla guerra in BiH scrive, tra altro, il professore dall’università di Amsterdam Cees Wiebes, autore del rapporto fatto per il governo olandese e pubblicato nel 2002. Il prof. Wiebes ha esaminato per cinque anni i dati riservati dei servizi segreti di vari Paesi. Nel rapporto, di settemila pagine, sono riportati dati che dimostrano non solo che dalla Grecia partivano i volontari, ma anche che il governo di Atene aiutava il regime di Slobodan Milošević economicamente, militarmente e politicamente.
Dai porti greci partivano imbarcazioni con le armi che, tramite gli scali montenegrini, arrivavano ai serbi bosniaci all’epoca in cui vigeva l’embargo delle Nazioni Unite per l’importazione di armi e petrolio. La Grecia aiutava i serbi passando informazioni riservate sulle azioni militari della NATO. Di questo scrive il diplomatico americano Richard Holbrooke nel suo libro “To end a war”, secondo il quale gli ufficiali della NATO alla fine evitarono di condividere i piani con i greci, proprio perché temevano che li passassero ai serbi bosniaci.
Takis Michas
L’autore greco Takis Michas, nel suo libro “Unholy Alliance: Greece and Milošević’s Serbia in the Nineties” (Un’alleanza scellerata: la Grecia e la Serbia di Milošević negli anni ’90) ha documentato e analizzato il ruolo della Grecia nelle guerre della ex Jugoslavia. Michas sostiene che il sostegno più consistente della Grecia al regime di Slobodan Milošević sia stato nel settore finanziario. Lo conferma il rapporto del Tribunale dell’Aja, pubblicato nel 2002, secondo il quale le istituzioni bancarie greche e cipriote avevano disegnato, implementato e mantenuto la struttura finanziaria che forniva i soldi all’esercito serbo. In altre parole, tramite 250 conti correnti sul nome di Slobodan Milošević, le banche greche e cipriote facevano funzionare la macchina da guerra serba. Quando l’ex procuratore capo del Tribunale dell’Aja, Carla del Ponte, aveva chiesto alle istituzioni bancarie greche e cipriote di passare le informazioni sui conti segreti del regime di Slobodan Milošević, quelle rifiutavano, finché non sono state costrette a collaborare.
Dieci anni dopo il genocidio di Srebrenica, nell’agosto 2005, quando ormai era stato accertato che in quella città gli aggressori non avevano trovato fondamentalisti islamici ma civili innocenti, che non avevano fatto niente per meritare il destino che gli era capitato, un gruppo di intellettuali e attivisti politici ha invitato “lo Stato greco a chiedere scusa pubblicamente alle famiglie di 8.000 bosniaci massacrati, a processare i volontari greci complici del crimine, così come gli sconosciuti personaggi che li avevano manipolati”.
L’appello è caduto nel vuoto, non ha suscitato alcuna reazione.
Partendo da un’interrogazione parlamentare è stata formata una commissione per condurre le indagini “sulla possibile partecipazione di volontari greci nel genocidio di Srebrenica”. All’epoca il ministro greco della Giustizia, Anastasios Papaligurs, aveva affermato che “non esclude la responsabilità di alcuni cittadini greci nel massacro di musulmani a Srebrenica”.
Ma la commissione non ha portato a nulla.
“In un’epoca in cui tutti dicono ci dispiace, in Grecia nessuno ha mostrato il minimo rimorso per i crimini in Bosnia”, ricorda Takis Michas.
Questi giorni, dopo la cattura di Ratko Mladić, il mio amico e giornalista Leonidas ha scritto un articolo in cui critica duramente i politici e la politica greca a proposito della BiH e Srebrenica. L’articolo è stato un penoso ricordo di come la Grecia aveva sostenuto, incondizionatamente e per un lungo periodo, quelli che oggi rispondono davanti al Tribunale dell’Aja di crimini contro l’umanità e genocidio. Quindici anni fa, per quello che scriveva, Leonidas fu attaccato, minacciato, punito. Oggi i suoi articoli passano in silenzio.