Belgrado, la čaršija scomparsa

Una città che è cambiata radicalmente negli ultimi due secoli. Ma che dietro a una facciata urbanistica che mescola Mittel Europa ed eredità socialista non ha perso del tutto i suoi elementi ottomani. I bazar non ci sono più, ma il loro spirito sopravvive

14/07/2011, Marjola Rukaj - Belgrado

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All'interno del locale "Snak Pitanja", nel quartiere di Belgrado che in passato ospitava la charsija - foto Davide Sighele

Solo pochi metri di selciato, qualche gatto, signore indaffarate che si affrettano e alcuni bambini che si chiedono cosa ci sia mai da fotografare in una strada marginale come questa. E’ ciò che rimane della čaršija* di Belgrado. Ora è una delle strade che si diramano dalla Knez Mihailova, il cuore commerciale e trendy della città.

Avvicinandosi al parco di Kalemegdan, una delle attrazioni turistiche più gettonate della città, percorrendo la Kralj Petra, una traversa del Corso principale, si arriva a questo pezzo di storia dimenticata e trascurata.

L’importanza e la centralità di questa zona di Belgrado sopravvivono comunque. Vi hanno sede alcuni monumenti di grande rilevanza, proprio in questa via si trova la Saborna Crkva, una delle chiese più importanti della capitale serba, accanto alla residenza (Konak) della principessa Ljubica, (moglie del principe Miloš Obrenović). Intorno un paesaggio urbano che mescola edifici neoclassici e case fatiscenti, fino ad arrivare alla Biblioteca nazionale, bombardata a più riprese in entrambi i conflitti mondiali.

Oltre al selciato, rimane anche un ristorante. Si dice che sia l’edificio più antico di Belgrado, un esemplare tipico di architettura ottomana. Pareti bianche, legno scuro e il piano superiore che si amplia gradualmente. Si chiama Znak Pitanja, punto interrogativo, perché di nominativi ne ha avuti molti fino a confondere abitanti e viandanti, tanto da meritarsi l’ironia di un punto interrogativo. Almeno questo è quello che raccontano le guide turistiche e il personale di servizio del locale, che riconduce a un’atmosfera a metà tra l’eredità ottomana e quella dell’economia socialista.

C’erano una volta tante čaršije

Nell’identità cittadina le čaršije sono state spazzate via dai tempi che sono cambiati, da altri punti di riferimento, da altre correnti culturali e politiche.

“Ne esistevano diverse – afferma Predrag Marković, uno tra i più autorevoli studiosi dello sviluppo urbano di Belgrado – sono morte come ovunque, un po’ per il volere dei governanti di turno, un po’ per le trasformazioni storiche che hanno interessato questa parte del mondo”.

“Dopo l’autonomia della Serbia dall’Impero ottomano, nel corso di 50 anni, Belgrado si è trasformata radicalmente, come poche altre città europee. Da una città tipicamente ottomana, ha avviato un percorso intenso di modernizzazione all’insegna delle voghe mittel-europee”, sottolinea la studiosa serbo-svizzera Nataša Mišković che ha dedicato a queste trasformazioni il suo PhD e la pubblicazione dal titolo “Bazari i Bulevari”.

Gli avventurieri occidentali che visitavano la Belgrado sotto l’Impero ottomano puntualmente registravano il loro stupore nel vedere una popolazione mista, di religioni e lingue, ma che si mescolava a tal punto da rendere difficile la distinzione tra le varie comunità.

“La città era tipicamente ottomana e la maggior parte della popolazione era costituita da musulmani. Durante il regno di Kralj Miloš, arrivano sempre più cristiani, di varie nazionalità e la città in tempo record diventa a maggioranza cristiana”, commenta Pedrag Marković.

Nuovo, moderno ed europeo

Con l’autonomia e in seguito l’indipendenza della Serbia dall’Impero ottomano, viene avviato il processo di formazione della nazione. E un ruolo chiave lo ebbe la modernizzazione della capitale. Modernizzazione fu sinonimo di occidentale al posto di ottomano, nazionale al posto di balcanico, francese al posto di turco, cappello a borsalino al posto di fez, asfalto al posto di ciottolato e, infine, boulevard al posto di bazar. In tutto questo la città vecchia è stata spazzata via in pochi anni, al suo posto un centro molto simile a quelli di Vienna e Parigi.

Se ne è occupata a fondo Dubravka Stojanović, storica di spicco dell’Università di Belgrado, dedicando un libro proprio alla modernizzazione della città a fine ‘800 dal titolo suggestivo: “Ciottolato e asfalto” (“Kaldrma i asfalta”).

“Le élite cercavano di deottomanizzare e di nazionalizzare a tutti i costi la cultura, la città. Le loro intenzioni di trasformazione non combaciavano però necessariamente con la mentalità e le abitudini dei cittadini. Vale menzionare per esempio che a fine ‘800 nei teatri di Belgrado venivano rappresentati molti drammi storici, che miravano al risveglio nazionale. Che però si rivelavano dei veri e propri fiaschi perché la gente non andava a vederli. Preferivano le commedie e le operette”, commenta la Stojanović.

Un'antica mappa di Belgrado

Per altri versi la modernizzazione di Belgrado ha portato nella città balcanica delle infrastrutture di cui solo poche capitali occidentali disponevano all’epoca. “Nel 1892 Belgrado aveva un sistema di illuminazione stradale e un trasporto urbano costituito principalmente dai tram a cavallo, che esistevano solo a Londra, New York, Parigi e Berlino” spiega la studiosa Nataša Mišković.

La modernizzazione, ma anche la nuova dimensione nazionale, ha comportato la morte delle čaršije. “E’ incredibile, – commenta in una della sue opere lo scrittore serbo di fine ‘800 Branislav Nušić – come sia morta la čaršija in così pochi anni”.

Rimembranze turche

E i turchi – definizione in Serbia ambigua che si riferisce talvolta alla popolazione etnicamente turca, talvolta ai musulmani senza distinzione di lingua ed etnia – come ovunque nei Balcani, con il ritiro dell’Impero ottomano, lasciarono Belgrado, svuotando anche le čaršije belgradesi. “I turchi dei Balcani sono emigrati verso la Turchia. Ne sono rimasti solo in pochi Paesi, in poche città. A Sarajevo per esempio, a Skopje e in alcune città albanesi. La dove i turchi sono rimasti, si sono conservate anche le čaršije”, spiega Predrag Marković.

Gli ortodossi, che erano stati per secoli dei cittadini di serie B, erano diventati di colpo il modello di cittadino propagato dal nuovo stato e dal nascente senso di nazione. “Vi è stato un ricambio enorme di popolazione, come ovunque, anche ad Istanbul è successa la stessa cosa”, commenta Marković.

L’eredità turca diventava scomoda, un sinonimo del passato ma anche un comodo capro espiatorio su cui scaricare le responsabilità dell’arretratezza rispetto all’Europa occidentale.

Ciononostante, Belgrado, sotto le sembianze di una città mittel-europea, è sempre rimasta una città in bilico tra l’eredità ottomana, la modernizzazione e, infine, l’impronta socialista.

L’eredità ottomana è ancora percepibile in una parte notevole della toponimia della città, nella cultura materiale e linguistica. Uno degli elementi probabilmente più visibili, persino ai meno esperti, sono i caffè sempre pieni della città, dove la gente fa affari, socializza, vive, si espone allo spazio pubblico. Non solo in quanto public sphere come sostiene Jürgen Habermas per la cultura mitteleuropea, ma in un senso ben più intimo, che deriva proprio dalla cultura delle kafane nella čaršija, che erano in qualche modo una cancelleria e un salotto comune a tutti i cittadini. Su questo gli studiosi concordano: se non le čaršije, almeno la loro cultura sopravvive ancora nella Belgrado mitteleuropea.

* Per facilitare la lettura si è scelto di usare il termine in versione ‘bchs’ (čaršija) nei testi riguardanti la Bosnia Erzegovina e la Serbia; in quelli sull’Albania, l’ortografia albanese (çarshija); invece per i bazar in Kosovo e Macedonia vengono usate indifferentemente entrambe le diciture.

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