Qualcuno dovrà pure chiedere scusa

Valery Melis morì il 4 febbraio 2004 a ventisette anni. Ora finalmente il Tribunale Civile di Cagliari ha riconosciuto la responsabilità dell’Esercito Italiano nel non aver fatto nulla per proteggere i soldati dall’uranio impoverito, nonostante fosse a conoscenza dei rischi di contaminazione. Un commento

16/08/2011, Michele Nardelli -

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Valery Melis

Se si esaminano le aree interessate ai bombardamenti della Nato del 1999 sul Kosovo quella di Peja – Peć è sicuramente una delle più colpite. Nella distruzione generale, i segni dei bombardamenti erano visibili ad occhio nudo perché interessavano gli insediamenti industriali, i depositi, le caserme, le linee di comunicazione.

Nei mesi immediatamente successivi ai 78 giorni di fuoco che portarono all’abbandono della regione da parte dell’esercito serbo-montenegrino si sapeva che gran parte dei bombardamenti della coalizione occidentale avvenivano con missili arricchiti da “uranio impoverito”: 31 mila ogive con queste caratteristiche vennero scaricate in poco più di due mesi su Serbia, Montenegro e Kosovo, in violazione del diritto internazionale ed in particolare dei protocolli della Convenzione di Ginevra del 1977. Fonti delle Nazioni Unite parlarono allora di una quantità pari ad oltre 8 tonnellate di uranio Impoverito riversata su quei Paesi.

Lo sapevano bene le autorità politiche del nostro Paese, come del resto le gerarchie dell’Esercito italiano, ma non venne fatto nulla, né per mettere in guardia la popolazione civile che in quei luoghi ci tornava ad abitare, né per proteggere i soldati italiani che proprio a Peja – Peć avevano (ed hanno) il loro insediamento permanente.

Fra quei ragazzi in divisa c’era Valery Melis, caporalmaggiore di un esercito che, a differenza di altri contingenti militari presenti nella regione, non informò e nemmeno attrezzò i propri uomini al presidio di un territorio che fra le macerie nascondeva l’invisibile insidia dell’uranio impoverito. Non c’erano tute speciali, né maschere e guanti. Persino il tema era tabù, “inutile allarmismo” si diceva.

Melis si ammalò nell’autunno ‘99 e quando nel dicembre di quello stesso anno se ne tornò in Sardegna i noduli sul collo che preoccupavano quel giovane dai lineamenti così dolci presero rapidamente un nome: linfoma di Hodgkin. L’inizio di un calvario, affrontato con straordinaria dignità.

La dignità che invece non ebbero le gerarchie politiche e militari. Perché si può ben dire che si è sbagliato, si possono ammettere le proprie responsabilità, si possono rassegnare le proprie dimissioni. E invece non avvenne niente di tutto questo, a negare ogni evidenza, ovvero la relazione fra l’uranio impoverito e l’insorgere di patologie cancerogene.

Ero a Peja – Peć nel febbraio del 2000, ad accompagnare il processo di trasformazione della presenza trentina in quella parte del Kosovo: dall’emergenza che aveva visto come protagonisti i volontari della protezione civile all’avvio di una fase nuova di cooperazione fra le nostre comunità. Dalla quale nacquero i mille progetti che nei successivi undici anni sono stati implementati (e che ancora oggi proseguono) nell’ambito del "Tavolo Trentino con il Kosovo”.

Decine di incontri, per conoscere e capire prima di agire. Fra questi, quello con il colonnello Di Benedetto, allora comandante del contingente italiano di stanza a Peja – Peć. Nei miei appunti di allora, molte annotazioni sulla presenza militare italiana, sulle attività svolte, sulla formazione riservata ai soldati. Di una di queste ho un nitido ricordo, quando alla mia domanda sulla presenza di uranio impoverito nell’area di Peja – Peć mi rispose un po’ stizzito che si trattava solo di propaganda giornalistica.

Erano le stesse risposte che venivano date nei mesi immediatamente successivi ai bombardamenti ai rappresentanti delle molte Ong ambientaliste internazionali (Greenpeace, WWF, Rec, Focus Project…) che monitoravano quel territorio, ma anche alle agenzie delle Nazioni Unite come Unep, che poi confermarono nei loro rapporti come la situazione di rischio non fosse limitata solo alle aree direttamente colpite.

Solo dopo anni, nel 2007, il Governo italiano riconobbe per la prima volta il rapporto di causa/effetto nella morte di 37 militari (e 255 malati) esposti all’uranio impoverito utilizzato nei sistemi d’arma (dati per altro contestati dall’Osservatorio militare che invece parlava di 164 morti e di 2.500 ammalati). Numeri che con gli anni sono tragicamente cresciuti fino ad una recente ammissione da parte del ministro La Russa che ha parlato di 2.727 patologie neoplastiche riscontrate fra i soldati italiani fino al 31 dicembre 2009.

Valery Melis morì il 4 febbraio 2004 a ventisette anni. Ora finalmente il Tribunale Civile di Cagliari ha riconosciuto la responsabilità dell’Esercito Italiano nel non aver fatto nulla per proteggere i soldati nonostante fosse a conoscenza dei rischi di contaminazione, condannandolo a risarcire i genitori e i fratelli di Valery. “Deve ritenersi – scrive il giudice nella sentenza – che il linfoma di Hodgkin sia stato contratto dal giovane Valery Melis proprio a causa dell’esposizione ad agenti chimici e fisici potenzialmente nocivi durante il servizio militare nei Balcani, atteso che proprio i detriti reperiti nel suo organismo hanno ben più che attendibilmente causato alterazioni gravi alle cellule del sistema immunitario come rilevato con frequenza di gran lunga superiore della media per i militari rientrati dai Balcani”.

Nel 1999 si inaugurò il concetto di “guerra umanitaria”. Venne fatta senza alcun mandato delle Nazioni Unite, bombardando città ed impianti chimici, usando l’uranio impoverito. Che è entrato nella vita (e nelle viscere) di tanta gente che si è ammalata e continua ad ammalarsi di cancro senza fare notizia. Anche di molti ragazzi italiani impegnati nelle “missioni di pace”, soldati come Valery e tante altre vittime di quel veleno invisibile chiamato “uranio impoverito”.

Prima o poi qualcuno dovrà pure chiedere scusa.

* Michele Nardelli è Presidente del Forum trentino per la pace ed i diritti umani

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