La lunga rinascita della biblioteca di Sarajevo
Nella notte tra il 25 e il 26 agosto 1992 iniziò il bombardamento della biblioteca di Sarajevo. La Viječnica fu distrutta dalle granate incendiarie dell’esercito serbo bosniaco, e migliaia di libri bruciarono nel rogo. Kanita Fočak, architetto sarajevese, testimone di quegli eventi, ricorda la vita, gli amori, la storia di uno dei simboli della città
Kanita Fočak è nata a Split. Si è trasferita a vivere a Sarajevo all’età di otto anni e, da allora, non ha più lasciato la sua città. Durante e dopo il conflitto è entrata in contatto con gruppi della solidarietà italiana, soprattutto il Comitato Sarajevo di Bologna, rendendosi parte attiva della ricostruzione sociale della sua città. In occasione dell’anniversario del rogo, abbiamo raccolto il suo racconto sulla storia della biblioteca
Prima
E’ importante separare la storia dell’edificio dalla storia della biblioteca stessa. L’edificio della Viječnica (Rathaus, palazzo comunale) è stato costruito negli ultimi anni dell’800 secondo la volontà delle autorità austroungariche. Dopo quasi cinque secoli di dominio ottomano, la popolazione non era molto contenta di avere un altro padrone. Le autorità austroungariche decisero allora di costruire l’edificio per dimostrare la loro potenza e per rendersi amici i musulmani locali scegliendo, secondo la loro opinione, uno stile orientale.
Affidarono il compito ai migliori architetti dell’epoca, e fu il progetto dell’architetto di origini praghesi Alexander Vitek – che andò addirittura a studiare architettura al Cairo – ad avere la meglio sugli altri. Pensando già alla differenza di clima, visto che il nostro è un Paese di montagna, prese a modello una madrasa del Cairo – la madrasa del Sultano Hasan – copiandone letteralmente il modello. Secondo me un palazzaccio, bruscamente inserito nel sottile e bellissimo centro storico della città, che invece è tutto costruito a misura d’uomo e dove nemmeno le moschee sono molto grandi ma bensì quasi tutte nascoste tra le case.
I guai cominciarono però subito. La leggenda dice che Vitek, deluso da come era venuta la sua opera, si suicidò prima del termine dei lavori, che vennero poi finiti nel 1896 [l’inaugurazione avvenne il 20 aprile, ndr] dall’architetto Ćiril Iveković. Come se il palazzo fosse maledetto, vi entrò l’Arciduca Ferdinando d’Asburgo – Este prima di essere ucciso, insieme alla moglie Sofia, 10 minuti dopo in una via nei pressi del ponte Latino [Latinska ćuprija, o Principov most – Ponte di Princip – com’è stato chiamato durante la Jugoslavia di Tito, ndr] il 28 giugno del 1914.
Quando finì la Seconda Guerra mondiale, il palazzo assunse un ruolo completamente diverso. Essendo anche sede dell’Accademia delle Scienze, si cominciò la raccolta di libri per costituire la cosiddetta biblioteca nazionale e la biblioteca universitaria. Avendo anche le aule per accogliere gli studenti diventò un luogo di cultura, di incontri, un simbolo della città. Con il tempo ci abituammo alla sua “bruttezza”, un luogo che stonava con l’ambiente circostante. Diventò un luogo visitato dai turisti, fotografato per le cartoline e poi, essendo frequentato molto dai giovani e contenendo un enorme tesoro, diventò un simbolo forte della nostra cultura. In una delle tre torri in cima, uno dei nostri pittori, Vladimir Vlado Vojnović, aveva il suo studio, a ulteriore dimostrazione che era diventato un luogo d’arte sempre a servizio dei cittadini, smettendo di essere qualcosa di estraneo alla popolazione.
Sono entrata per la prima volta nella biblioteca, o Viječnica come la chiamiamo noi, verso i 15 anni. Mi ero iscritta al liceo e, dato che ero minorenne, non potevo avere la tessera della biblioteca per il prestito. Così si iscrisse mia madre, e con la sua tessera andavo a prendere i libri che mi servivano: opere di letteratura antica, medievale, rinascimentale. All’epoca leggevamo tutta l’opera del Boccaccio, Dante Alighieri… di cui all’inizio non capivo un bel niente, anche forse per l’età giovane che avevo!
In seguito diventò anche un luogo di ritrovo. Essendo così noto, anche per le persone che non conoscevano la città dire “ci troviamo alla Viječnica” era un’indicazione chiara su dove trovarsi. Oltre ad essere facile individuarlo è affacciato sul fiume Miljacka. Per cui noi ragazzi ci davamo appuntamento lì con i fidanzati e le fidanzate, se era bel tempo davanti alla Viječnica e se pioveva dentro, nel portico o nelle aule.
Sono passati gli anni, siamo cresciuti, non andavamo più a prendere in prestito i libri per studiare, avevamo ormai le nostre famiglie e quindi non prendevamo più appuntamenti con i fidanzati… e all’improvviso è entrata nelle nostre vite la guerra. Di notte.
La guerra
Nel 1992 abitavo di fronte alla biblioteca perché, dopo essermi sposata, ho cominciato a vivere nell’antica casa di famiglia con mia suocera. La casa era sulla sponda opposta del fiume Miljačka, e tutte le finestre davano sulla biblioteca.
Il 4 aprile del 1992 è cominciata la guerra. Faruk, mio marito, è stato ucciso un mese dopo, dalle schegge di una granata entrate in casa. Mia suocera era morta ad aprile e così sono rimasta a vivere lì da sola, con i miei figli. Una sera hanno cominciato a bombardare molto forte la città. Mi sono nascosta con i bambini sotto la scala, in uno sgabuzzino. Mi illudevo fosse un posto sicuro perché la scala era fatta di cemento armato, mentre il resto della casa era di mattoni e legno. I mattoni erano di “čerpić” un materiale tradizionale bosniaco fatto di argilla e paglia impastate e asciugate al sole. Era un’ottima casa ecologica, non c’è che dire… ma poco resistente ai bombardamenti, oltre all’umidità. Oggi sono certa che se la casa fosse stata costruita di solidi mattoni in terracotta, quel 10 maggio Faruk non sarebbe morto.
Quando mi sono svegliata la mattina del 26 agosto ho sentito una particolare ondata di caldo. Ho guardato fuori dalle finestre: la Viječnica era completamente in fiamme. Un’immagine incredibile. Stavo lì a guardarla, dall’altra sponda del fiume, con la cenere che volava e copriva tutto lì intorno, un gran fumo e odore forte di bruciato. E non potevo fare nulla… Una sensazione orribile, perché tutti sapevamo quale tesoro immane c’era tra quelle mura. Chiunque si avvicinava veniva preso di mira dai cecchini e, nel tentativo di salvare qualcosa, ci sono infatti stati dei morti.
Ho saputo solo dopo che la biblioteca era stata colpita durante la notte con un bombardamento di proiettili incendiari. Le bellissime colonne di marmo, portate da chissà quale cava dell’Impero austroungarico, si sgretolarono come sabbia. I dipinti, i libri, tutto perso. All’interno della biblioteca si formò un cumulo di macerie immenso e tutta la struttura divenne molto pericolante, dunque impossibile entrarci. Era una delle più ricche biblioteche d’Europa e il suo tesoro è andato perduto per sempre.
Dopo
Adesso esiste un’altra biblioteca, la biblioteca nazionale universitaria, che si è cominciata a formare grazie a donazioni arrivate dal mondo intero. Non so quanti volumi abbiamo attualmente, però nonostante tutti i libri ricevuti non sarà mai più la stessa cosa. Perché quell’agosto del ’92 sono andati in fumo anche documenti preziosi, manoscritti, incunaboli – preziosi soprattutto per studiare la storia della Bosnia Erzegovina – contratti, lettere, riviste, giornali, materiali che risalivano persino al Medioevo. Quella notte è stato fatto un danno inestimabile e irrecuperabile.
Per il restauro del palazzo c’erano fortunatamente tutte le carte del progetto, sia nell’archivio nazionale del Paese che negli archivi di Vienna, perché era stato costruito un centinaio di anni fa e dunque in tempi relativamente recenti. Non fu così complesso come è accaduto per la ricostruzione del ponte Vecchio di Mostar. In quel caso non avevamo alcun documento a disposizione e c’erano molti dubbi su come fosse stato eretto, più di 500 anni prima.
Rispetto alla ricostruzione non conosco i dettagli, perché sono una semplice cittadina di Sarajevo e non parte dell’amministrazione della città o di qualche ministero. Posso solo osservare le cose che stanno succedendo. So che è stata fatta una gran parte di lavori cosiddetti “invisibili”. Lo sgombero delle macerie crollate, operazione non priva di pericoli e che infatti, purtroppo, ha provocato la morte di un ingegnere e di un operaio. Poi è stata fatta la puntellatura interna del palazzo, dato che erano rimasti in piedi solo i muri esterni. In seguito è rinata la cupola di vetro che troneggia sul tetto e che poggia su una struttura di ferro.
I lavori interni, quelli fini, non sono stati semplici. La biblioteca era costituita di vari marmi e si sono dovute trovare le cave originali da cui estrarlo per realizzare tutti i lavori: la cosiddetta “plastica architettonica” dei merletti, dei gioielli di scultura interna negli archi e nelle colonne, che costituivano la parte interna della biblioteca.
So che ad oggi si è arrivati alla realizzazione dell’intonaco grezzo e di tutti gli impianti interni. I lavori continuano, ma secondo me sono troppo lenti. L’esatta cifra che è stata stanziata finora per la ricostruzione della biblioteca, non si sa. C’è un gran telone esposto su di una facciata della Viječnica, dove campeggiano tanti loghi di organizzazioni internazionali, associazioni, governi che stanno lì, in bella vista. Ma se hanno partecipato o meno, o se hanno promesso di partecipare ma per ora non l’hanno fatto, non saprei proprio dirlo.
Di positivo c’è che il palazzo è tornato ad essere un centro di cultura, pur non essendo ancora liberamente visitabile e aperto al pubblico. Si può godere dei suoi interni quando viene fatta l’inaugurazione di una mostra importante, come quella di Jannis Kounellis [espose per tutta l’estate del 2004, ndr], che fu l’evento dell’anno. Oppure in occasione di festival, concerti, installazioni come quella di Braco Dimtrijević, dopo la presentazione alla Biennale di Venezia. Insomma, riusciamo in qualche modo a rivivere la nostra Viječnica, sebbene non sia ancora stata riportata al suo splendore e restituita ai propri cittadini.