Obiettivo Turchia
Fotografo e sperimentatore, Fatih Pınar racconta storie di quotidianità, trasformazione, urbanizzazione del suo Paese, la Turchia. Un lavoro rigoroso di fotoreportage montati anche con brevi riprese audio, tenendo conto delle responsabilità del fotoreporter di fronte al vero. Un’intervista
Cosa ti ha spinto a lasciare gli studi di economia per dedicarti alla fotografia?
La fotografia per me non ha mai rappresentato un mestiere. La mia prima esperienza coincide con gli anni universitari. Avevo iniziato a interrogarmi sulle cose, cercavo un ambito in cui esprimermi artisticamente e ho iniziato a partecipare ai laboratori fotografici organizzati all’ateneo. Tra l’altro l’economia non mi piaceva, non avevo alcuna aspirazione a diventare un commercialista o a lavorare in banca.
Poi però il mio interesse per la fotografia si è trasformato in passione e ho deciso di abbandonare gli studi per andare a Istanbul e lavorare alla rivista “Atlas ” . Il mio obiettivo non era quello di diventare un fotografo qualsiasi, volevo diventare fotografo di quella rivista specifica, perché avrei avuto la possibilità di realizzare dei servizi girando la Turchia e il mondo. E soprattutto avrei avuto l’opportunità di occuparmi di temi marginali e di partire anche per i luoghi più rischiosi. Non era, insomma, una qualsiasi rivista di viaggio che proponeva ai lettori immagini di belle spiagge con gente felice. Certo non è stato facile ottenere il primo incarico. Ho dovuto provare più volte per diversi mesi, ma non ho mollato.
Però hai scelto fin dall’inizio un indirizzo molto specifico per i tuoi lavori che sono – se possiamo definirli così – dei ‘documentari umani’…
Il mio ambito di interesse si è formato col tempo, sono però sempre stato attratto dai soggetti umani. Poi, iniziando a lavorare ad “Atlas”, mi sono concentrato su temi sociali e culturali fotografando le persone da un punto di vista ravvicinato, ottenuto dopo averci trascorso insieme diverso tempo e essere riuscito a creare con loro un dialogo basato sulla fiducia.
È stato questo l’elemento d’attrazione dei miei lavori per la rivista che poi coincideva anche col mio modo di vedere la vita e con la mia personalità. Sono sempre stato uno che ama ascoltare le storie di vita degli altri e che vuole conoscere. Col tempo però, poter raccontare la storia di una persona è diventato per me molto più importante di tutto il resto. È per questo motivo che non mi definisco un fotografo, ma un fotoreporter, un giornalista che lavora attraverso le foto. Non mi interessa più scattare delle foto di grande impatto visivo, ma realizzare dei lavori che diffondano la voce di chi si trova in difficoltà nel proprio contesto di vita.
La tua scelta degli ultimi anni di usare diversi prodotti multimediali come strumento espressivo rientra in quest’ottica?
Sì è così. È una tappa cui sono giunto dopo aver girato per sei anni in lungo e in largo la Turchia e una ventina di altri Paesi. Sono stato in numerosi villaggi e in alcune delle zone più martoriate del sudest anatolico. Poi sono andato come fotoreporter in Palestina durante la seconda intifada nel 2002 e all’inizio della guerra in Iraq. La spinta principale era quella di compiere una missione storica e sociale documentando quello che vedevo.
Nel 2004 lasciai la redazione di “Atlas”. Sono rimasto disoccupato per un po’ di tempo. Sempre in quel periodo sono andato per qualche mese negli Stati Uniti e in Germania. Al ritorno, questa volta, ho iniziato a mettere a punto dei fotoreportage composti da immagini in sequenza abbinate a registrazioni vocali. Ho proposto il progetto al sito online della Ntv, la Msnbc , che l’ha accettato. Sono nati così i lavori che ritraggono momenti importanti della vita collettiva come le feste nazionali, le migrazioni dei pastori nomadi Sarıkeçili, il
ramazan, gli autisti dei minibus di Istanbul, gli spazzini.
Anche in questi lavori, potendo scattare liberamente fino a venti inquadrature, ho potuto scendere fin nei minimi dettagli dei soggetti fotografati. Abbinando il suono, invece, ho iniziato a seguire la storia delle persone non solo con l’occhio, ma anche con le orecchie. Per ciascuna immagine ho imparato a registrare una voce. Ora con la mia macchina fotografica posso effettuare anche delle videoregistrazioni che però non faccio mai durare più di 8-10 secondi, utilizzo cioè la telecamera come se fosse una macchina fotografica. I miei lavori sono così diventati un’unione di tutte queste tecniche messe assieme, dei multimedia. A volte aggiungo anche musiche e testi. Sono un autodidatta, non ho mai avuto maestri o frequentato scuole. Ma utilizzo le possibilità fornite dai mezzi tecnologici per sperimentare modalità nuove d’espressione.
Quale spazio nei media turchi oggi per un fotoreporter come te?
In nessun importante media turco c’è posto per il genere dei fotoreportage che interessano a me. L’anno scorso ho lavorato sempre per il sito di informazione della Msnbc, ma quest’anno non hanno più voluto continuare la collaborazione.
Il motivo?
Perché trovano i miei lavori marginali e critici. Eppure non avevo proposto dei temi così spinosi. Volevo parlare della quotidianità dei lavoratori precari o dei bambini di strada. Non si vuole né vedere né far vedere alcun tema scomodo e tutti, cittadini e giornalisti, si sentono costretti ad autocensurarsi. Anche perché quando vuoi raccontare qualcosa di diverso e non ti imponi l’autocensura vieni immediatamente emarginato.
In questo stato di cose internet fornisce un canale alternativo ai media dominanti. Io per oppormi alla loro tendenza carico i miei video su Vimeo , e li diffondo utilizzando facebook e twitter. Vedo che vengono seguiti da migliaia di persone, cosa che mi rende a mia volta un media indipendente. Non riesco forse a raggiungere un numero molto alto di persone, ma sono almeno libero di gestire da solo il materiale che voglio.
Cosa pensi delle immagini che si trovano sui media turchi?
Noto soprattutto che sui siti internet di alcuni quotidiani principali quando si accede alla pagina iniziale non si capisce se si sta guardando un sito pornografico o un giornale. La schermata si riempie di donne in bikini e di foto da riviste di gossip e devi fare i salti mortali per poter leggere la notizia che ti interessa. È il mezzo più volgare per ottenere rating e serve non solo a depoliticizzare il lettore, ma anche ad allontanarlo dall’informazione.
E il tuo lavoro sulla trasformazione urbana in atto a Istanbul a che punto è?
Il progetto, durato un anno, è ora concluso. Ma non è detto che non possa tornare sul tema perché il processo di trasformazione che interessa non solo Istanbul ma anche altri luoghi del Paese si intensificherà. In Turchia stiamo assistendo al grande dominio della lingua del denaro affermatosi con il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP). E’ questa sua lingua unita al conservatorismo e non quella della religione – come si tende a pensare – il motivo del suo successo.
Si tratta di un fenomeno che non riguarda solo le grandi metropoli, ma anche i più remoti paesi anatolici. Ormai, quando ti siedi in un caffè dopo i primi saluti la seconda domanda che ti viene rivolta è quanti soldi guadagni al mese, che macchina hai, se hai la casa. Domande molto personali che fino a poco tempo fa erano considerate inappropriate, maleducate.
Quello che sei viene soppesato non più, come avveniva in passato, in base al piacere della tua conversazione, ma dai tuoi simboli di potere, dai tuoi soldi. Le nuove trasformazioni prospettate per Istanbul come il progetto del terzo ponte, il Bosforo bis, rientrano in quest’ottica. Tutti progetti costosissimi. Ma Istanbul non è obbligata a diventare una nuova Shanghai o New York. È bella così com’è. Concentrando milioni di abitanti attorno ad una mastodontica città/centro di consumo le aree storiche di Istanbul vengono trasformate in merce rara, luoghi per permettere alle persone arricchite durante il governo dell’AKP di acquisire un nuovo status e fare un salto di classe.
Qual è il tuo prossimo progetto?
Voglio continuare il video-attivismo, quando posso. Il mio percorso mi sta portando ora verso la realizzazione di un documentario. Vorrei lasciare dei lavori duraturi che raggiungano più persone possibili. Ma non sarà certo facile in questo Paese dove i canali televisivi trasmettono i documentari come punizione quando vengono sanzionati dal Consiglio superiore della radio e televisione o chiedono dei soldi al documentarista per trasmettere il suo lavoro. Io fino ad adesso ho cercato di mantenermi sempre con lavori non commerciali, ma sta diventando sempre più difficile.