Slovenia: la fine di Borut
Alla fine è dovuto andare davanti al parlamento e chiedere la fiducia. Che non gli è stata accordata. Ieri sera in Slovenia il governo di Borut Pahor è arrivato al capolinea, 36 voti a suo favore e 51 contrari. Un approfondimento del nostro corrispondente
Ha concluso la sua carriera di premier nel suo stile, con due discorsi patetici, pieni di retorica e privi di contenuti. Borut Pahor finalmente è venuto in parlamento per la fiducia. Lo ha fatto chiedendo ai deputati di approvare la lista di cinque ministri che sarebbero dovuti andare a sostituire quelli che aveva perso per strada negli ultimi mesi.
Senza maggioranza
La maggioranza non ce l’aveva dal maggio scorso, dal momento in cui il Partito dei pensionati decise di abbandonare l’esecutivo. All’epoca il governo si reggeva sul voto che avrebbero potuto garantirgli i deputati del gruppo misto, che formalmente non facevano parte della coalizione, ma a giugno ne andò anche Zares ed a quel punto il suo governo era proprio in minoranza.
L’effimera illusione di ottenere comunque la fiducia si reggeva sull’ipotesi di ottenere una striminzita maggioranza grazie all’assenza di un buon numero di deputati dell’opposizione e magari all’appoggio di qualche parlamentare del partito nazionale o di quelli delle minoranze italiana ed ungherese. Alla fine il risultato è stato nettissimo: 36 i voti a favore 51 quelli contrari. Le opposizioni vecchie e nuove non gli hanno fatto sconti ed ai 33 voti di quel che restava della coalizione di centrosinistra si sono aggiunti solo quelli di tre transfughi degli ex partiti di maggioranza.
30 giorni per un nuovo premier
E’ la terza volta che un primo ministro viene sfiduciato nei vent’anni di storia della democrazia parlamentare slovena. Era toccato al democristiano Lojze Peterle nel 1992 e poi a Janez Drnovšek nel 2000, in entrambi i casi si evitarono comunque le elezioni anticipate.
Adesso restano 30 giorni per trovare un nuovo premier o per riconfermare Pahor, se ciò non accadesse il presidente della repubblica scioglierebbe la camera e si andrebbe alle urne prima della scadenza del mandato. Sarebbe la prima volta in Slovenia.
Al momento sembra abbastanza improbabile che dal cilindro possa spuntare un nome nuovo, ma sin da questa mattina le segreterie di partito si metteranno in moto per cercare di capire quali potrebbero essere i possibili scenari. La palla è in mano soprattutto ai Socialdemocratici che per il momento giurano di non avere altro leader all’infuori di Pahor.
Sconfitta a sinistra
Per il centrosinistra, però, il futuro appare alquanto cupo. Alle prossime elezioni si prospetta una sonora sconfitta. Demoliberali e soprattutto Zares potrebbero addirittura rischiare di non entrare in parlamento, i Socialdemocratici dovrebbero uscirne alquanto ridimensionati, mentre non si preoccupano più di tanto quelli del Partito dei pensionati, che potrebbero addirittura consolidare il loro risultato e persino tornare a far parte di un’ipotetica maggioranza di centrodestra.
I Democratici di Janez Janša intanto invocano a gran voce la via delle urne. Sono loro i potenziali vincitori delle prossime elezioni, dove potrebbero ottenere un risultato fantastico, qualcuno sogna addirittura il 50% dei voti, a cui andrebbero aggiunti anche quelli dei potenziali alleati. Alla fine la maggioranza in parlamento potrebbe essere schiacciante e l’opposizione inconsistente. In realtà più che su un sostanziale incremento di voti in termini assoluti il centrodestra potrebbe contare sull’astensionismo degli elettori di sinistra, che difficilmente prenderanno d’assalto i seggi per andare a votare i partiti dell’ex coalizione di maggioranza.
Alla storia per le beghe
Il gabinetto Pahor, più che per l’inefficacia dei provvedimenti presi in campo economico, passerà alla storia per le continue beghe interne, per le sue troppe prime donne e per i molti scandali che hanno coinvolto i suoi ministri e i funzionari dell’esecutivo. Accuse di corruzione, interessi privati e di mala gestione dei fondi pubblici sono piovute all’indirizzo dei tre dei quattro presidenti dei partiti di maggioranze. Karl Erjavec, leader del Partito dei pensionati, è stato invischiato nello scandalo legato alla fornitura dei blindati Patria all’esercito sloveno; Gregor Golobič, presidente di Zares, non è mai riuscito a risollevarsi dalle polemiche nate dal fatto che non aveva ammesso di essere proprietario di una quota di una azienda di servizi informatici; mentre su Katarina Kresal, capo della Democrazia liberale, aleggiano sospetti di corruzione per uno stabile preso in affitto dal ministero degli Interni, di cui era titolare.
Tutti e tre hanno abbandonato l’esecutivo, ma ciò non ha impedito che aumentasse la percezione che nel Paese ci fosse oramai una classe politica corrotta, pronta a difendere soltanto i propri interessi. La cosa è stata cavalcata ad arte dalle televisioni e dai giornali, che hanno alimentato scandali che in altri Paesi non sarebbero percepiti come tali. Del resto anche alla vigilia del voto di fiducia non sono mancati sarcastici commenti in cui si diceva che mai e poi mai gli avidi deputati avrebbero sfiduciato Pahor perché così, in caso di elezioni anticipate, avrebbero corso il rischio di perdere qualche mese di stipendio. Sta di fatto che la disaffezione dei cittadini per la politica sta raggiungendo picchi preoccupanti.
In ogni modo l’unico a non essere stato sfiorato dagli scandali è stato il premier Borut Pahor. Lui, però, si è contraddistinto subito per alcune mosse che hanno lasciato allibiti i suoi elettori. Quella più eclatante è stata nominare l’ex ministro degli Esteri Dimitrij Rupel suo consulente per la politica estera. Uno degli uomini simbolo del governo Janša, bersagliato dagli opinion leaders del centrosinistra e non voluto dal capo dello stato come ambasciatore, era di colpo entrato dalla porta di servizio nell’ufficio del primo ministro.
Pahor, che sin dal suo insediamento non ha mai voluto rinunciare a star sotto i riflettori, si è poi lanciato nell’arena della politica internazionale. La sua prima mossa è stata quella di bloccare il cammino della Croazia verso l’Unione europea, condizionandolo con la soluzione della vertenza confinaria tra Lubiana e Zagabria, che dopo la dissoluzione della Jugoslavia non erano riuscite a stabilire l’esatto tracciato di alcuni chilometri di confine sulla terra ferma e di alcune decine chilometri sul mare. La questione è stata risolta dopo una lunga mediazione dell’Unione europea, con la Slovenia isolata che in pochi mesi è riuscita nell’incredibile impresa di scrollarsi di dosso l’immagine, costruita per anni, di tranquillo Paese centro-europeo per rimettere i panni di un riottoso stato balcanico.
Forse l’unico risultato dell’esecutivo è stato quello di aver finalmente chiuso la questione dei cancellati, ponendo, in parte, rimedio alla più grave violazione dei diritti umani compiuta nella Slovenia indipendente. Qui, però, i meriti più che al premier vanno ascritti alla cocciutaggine della Kresal, che dalla sua poltrona di ministro degli Interni è riuscita praticamente ad imporre di chiudere la questione sia alla opposizione sia alla maggioranza. E’ solo in parte riuscita invece la riscrittura del codice di famiglia, che voleva dare alle coppie LGBT gli stessi diritti di quelle eterosessuali. Tutto ciò però non basta a non considerare quello di Pahor il peggior governo che la Slovenia ha avuto dalla sua indipendenza.