Ritratti dalla periferia d’Europa e dal Paese che non c’è
Dalla Transilvania alla Moldavia, sino al Paese che non c’è. Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo reportage di viaggio
-Transnistria
-Trans…cosa?
-Pridnestrovie.
-Partiamo!
Zaino pronto, scarpe allacciate, pochi soldi, e un po’ di follia.
-Ma…si può andare?
-Credo di sì.
-Sai come farlo?
-Più o meno.
-Sei sicuro di come andrà?
-No!
Un aereo, chiudi gli occhi. Sei da qualche parte alla quale non appartieni. Mischiati tra la gente, respira gli stessi odori, mangia con loro per strada e perditi, dai, perditi, non c’è niente come perdersi. Cammina, osserva, cerca di vedere. Ricorda Antonio Machado “Caminante, no hay camino, se hace camino al andar”. Adesso siediti, cerca di capire qualcosa di quello che hai visto, sono persone, vedi come sono persone? Non valutarle, non paragonarle. Piuttosto mangia i fritti per strada, prenditi del vino, usa i bagni pubblici, viaggia con loro sull’autobus. Hai mai visto un melograno? Certo, lo avrai visto, ma non come il mio. Non hai mai visto i melograni nel mercato di Chişinău. Ti senti così diverso? Certo, sei diverso, ma l’uomo è uno. Lo sai? Lo vedi?
Il nostro viaggio parte da Cluj Napoca: venticinque minuti di corsa per riprendere i bagagli dimenticati nel deposito e un treno per Iaşi che parte all’una di notte e che arriverà quando le lancette della mattina incroceranno le dieci. Penso che Cluj la visiteremo meglio al ritorno.
-Dormiamo!
-Non dormiamo…
Le notti in seconda classe senza vagone letto possono diventare delle lunghe e animate serate. Fa ridere a ripensarci, ma cosa fanno cinque vecchie signore rumene sveglie a bere e a chiacchierare nello stesso scompartimento, dello stesso vagone, dello stesso treno, alla stessa ora e allo stesso giorno in cui ci sei anche tu, soprattutto nello stesso momento in cui tu non desidereresti altro che dormire?
-Le donne di una certa età non sono sveglie alle quattro di mattina, vero?
-Falso!
Non bevono distillati verso il nascere del sole, gli anziani signori non ti cadono addosso.. È l’alba, magari gli verrà sonno; non a loro. Non più di venti minuti dormiti ed una lunga giornata davanti, cominciamo bene.
Iaşi. Quanta guerra. Incendiata nel 1513 dai Tatari, nel 1538 dagli Ottomani, nel 1686 dalle truppe russe, ed ancora la morte colpisce sotto forma di peste nel 1734. Elevata a capitale durante la prima guerra mondiale, presto ha dovuto restituire il posto a Bucarest. E poi la bestia umana, come chiamarli? Uomini. Uccisi circa quindicimila ebrei, in uno dei più crudeli pogrom della storia. Treni della morte, Iaşi – Calarasi circa cinquemila persone, dopo sette giorni di viaggio arrivano vivi mille e undici; Iaşi – Podu Iloaiei, distanza: quindici chilometri, rapporto ufficiale: “dei 1.900 ebrei ufficialmente a bordo del treno "solo" 1.194 erano morti “. Come chiamarli? Uomini?
La bestia umana dimentica sempre che anche lei dovrà fare i conti con la storia.
Come distruggere una città, lezione numero uno.
Ceausescu, ci sei quasi riuscito. Tu ed i tuoi. Avete sventrato queste piazze, distrutto i palazzi, raso al suolo interi quartieri, e poi? E poi avete riso, e bevuto del vino buono, e siete andati a dormire in letti caldi. Ma gli occhi della gente li avete visti? Li avete messi in gabbie grigie e avete cercato di anestetizzarli con ottuse dottrine, dimenticando che anche voi prima o poi sareste stati chiamati a risponderne. Abbiamo girato la città e ci siamo persi, ci spingiamo ancora avanti nei sobborghi fino a incrociare un fiumicello, il cui margine ci fa compagnia per un tratto fino a quando non sbagliamo ancora strada, finendo in un mercato a fianco di un viadotto. Ci sono dei gatti, e alla sinistra del marciapiede il cartello di un dentista, tubature gialle sgorgano dalla terra circondando le case, sembrano tracciarne il perimetro. Dietro al mercato ci sono i binari del treno però non c’è passaggio, da qualche parte ci deve essere un attraversamento pedonale. Dove sarà la strada giusta? Bisogna tornare alla stazione degli autobus, che è appena davanti a quella dei treni, prima dell’una, corri. Ce l’abbiamo fatta, altri cinque minuti e saremmo rimasti a terra. Ci accomodiamo, c’è spazio, anzi c’è un sacco di spazio, a dire il vero siamo gli unici su quel furgoncino che chiamano mini-bus o qualcos’altro che non ricordo, è l’una del pomeriggio, dobbiamo partire.
Iaşi, ci rivediamo tra qualche giorno.
L’una e dieci.
-Magari aspettano qualcuno.
-Forse.
-Mannaggia, abbiamo fatto una lunghissima corsa per arrivare in tempo e adesso si parte in ritardo.
L’una e venti. Entrano delle signore, adesso sì che possiamo partire.
Non ancora, questo sembra che prima di riempire il furgone non parta. E noi che dovremmo arrivare presto per trovare dove dormire, sì perché la prenotazione ce l’abbiamo…per il giorno dopo però.
Le due, stiamo partendo, ci aspetta ancora un lungo viaggio, ma abbiamo con noi un cordino pieno di ottimi covrigi, una specie di pretzel versione rumena.
Un’ora dopo arriviamo alla frontiera e qui bisogna essere seri, se sorridi qua si pensa che hai qualcosa da nascondere; soprattutto, bisogna avere dei motivi veramente convincenti agli occhi dei poliziotti rumeni per entrare in Moldavia. Turismo? Cosa vuol dire…
-Cosa fai? E cosa studi? Per fare cosa? Cosa vieni a fare in Moldavia? Perché vieni? Vieni da solo? E perché strana ragione girano un portoghese e un’italiana da queste parti? Porti con te qualcosa di strano? Droghe, armi? Ma, sei già stato in Moldavia o è la prima volta? E per che ragione torni? Trovi qualcosa di interessante? Ma…ma…ma…ma.
Il controllo moldavo è meno rigido e almeno per compensare l’overdose di burocrazia ho la fortuna di rivedere il magico bagno, l’ex libris di questa frontiera, una casetta di legno con un buco, la intravedo da lontano ma la sensazione è la stessa, torniamo indietro nel tempo. E i cani, che girano dappertutto da queste parti, al confine giravano senza patria, scappando al controllo del passaporto, più liberi degli uomini, a volte cani uguali.
La vecchia strada taglia il paesaggio senza pudore, portandoci alle viscere della Moldavia rurale, le oche, le mucche, le galline, le capre, le anatre e tanti altri animali domestici girano liberamente, le fabbriche giacciono in un desolato abbandono di ferro e ruggine, l’agricoltura sembra essere ancora ai primordi, e la vita scorre al ritmo dei carri che girano indifferenti al progresso, affrontando il mostro meccanico. A cosa serve la benzina se non la puoi dare da bere ai cavalli?
Le casette spuntano come funghi, un arcobaleno di colori in questo angolo del mondo, dove ogni paesino sembra competere per avere la più bella tra le fontane, tanto più utili che i benzinai, schiavi, loro dell’acqua come noi del benessere.
Ricordo le persone anche se giravamo veloci tra i vari villaggi, e penso al destino di tutto questo, all’irrefrenabile voglia di cercare una vita, alle migrazioni umane e all’ipocrisia. È un paradiso di decadenza ai miei occhi. Siamo entrati nel futuro ma abbiamo nascosto le chiavi e dimenticato che esistono campi di grano che non crescono.
Quelli che rimangono, i martiri del silenzio, li hai visti? Condannati senza accusa, divorati da un mondo a loro strano. Da qualche parte però cresceranno i melograni.
Tutto sistemato, dormiremo. Notte fredda, godimento gastronomico sugli odori caldi della soleanca, mi trovo bene nella città dell’assurdo, luogo di ogni contraddizione.
Chişinău è ogni cosa, la memoria sovietica e il capitalismo sfrenato, la ricchezza più ostentata e la miseria.
La mattina presto si cercherà di arrivare in Transnistria, Pridnestrovie, il paese che non c’è.
Prendiamo un taxi, anzi, per la verità è il tassista che viene a cercare noi: la tendenza a riempire i mezzi prima di partire questa volta cade a nostro vantaggio, e invece di aspettare un’ora o più come a Iaşi, questa volta partiamo subito. L’”autostrada” ha tre corsie, quella di destra, quella di sinistra e quella in mezzo che serve per superare da entrambi lati, è bello, molto bello, ci sono alberi dipinti di bianco fino a mezzo tronco che accompagnano il cammino, le ragazze si nascondono nei cespugli ma lasciano un fuocherello davanti per avvertire i bisognosi della loro presenza. Tra un po’ si arriverà in quello che viene definito orgogliosamente come l’ultimo bastione sovietico, l’anacronistico museo vivente delle glorie rosse, l’isola di utopia incancrenita dalla sete di potere. Tiraspol non è un luogo, è un mito, la capitale di un micro impero personale, l’avamposto russo nella frontiera europea.
È come aprire gli armadi della nonna e trovare un centrino di pizzo, è un bel lavoro ma non lo vorrei sopra la tv, in più puzza anche di naftalina.
Alla frontiera della Transnistria ci viene accordato un visto di dieci ore, che si tradurranno in cinque vista la poca disponibilità di mezzi per il ritorno. Proseguiamo nel nostro taxi targato Pridnestrovie, l’autista sembra conoscere molti dei soldati russi che sono stanziati lungo il confine di questo paese, con un cenno ne saluta parecchi, e questo apparentemente ci evita eventuali problemi. Arrivati a Tiraspol scendiamo nella strada principale, diamo un occhio al Nistru e ci dirigiamo al mercato, ricco di paccottiglia dell’esercito sovietico. Un vecchio dalle dita tatuate ci offre le sue spille con la falce il martello sopra, ci dice il prezzo direttamente in dollari, 50; capiamo che anche se di turisti qui se ne vedranno probabilmente pochi, c’è chi si attrezza in ogni caso per l’evenienza.
Passeggiamo per la cittadina, la maggior parte delle persone che vediamo camminare in strada sono militari, di tutte le età, arriviamo anche davanti ad una scuola i cui allievi sembrano essere in pausa fuori nel cortile: ragazzini in divisa militare che ci fissano e sembrano quasi deridere la nostra insolita presenza. Nella strada principale troneggiano da una parte un carro armato, simbolo della guerra civile che ha portato al distaccamento della Transinstria dalla Moldavia, e dall’altra un’enorme statua di Lenin. Prima di andare alla stazione dei bus per prendere l’ultimo diretto a Chişinău, ci fermiamo a comprare una bottiglia di Qvint, il brandy prodotto in questa terra, proprietà anch’esso, come buona parte di questo paese, degli Smirnov. Nel ritorno ci perdiamo nuovamente, e ci troviamo a vagare in stradine di fango tra casupole instabili e muri con vetri incollati in cima che ci fanno pensare di aver sbagliato completamente strada; in realtà ci accorgiamo poi di non essere tanto lontani dalla strada principale, unica vetrina di una ricchezza inesistente.
Transnistria è la forza di un sogno troppo grande, la gente che in piazza vende i calzini vecchi, le donne del mercato, l’uomo che suona vecchie melodie russe con la fisarmonica e canta con dolcezza la malinconia della decadenza, le donne stupende che sembrano ballare ad ogni passo sulla boulevard, Transnistria è contraddizione nella contraddizione, uno spazio senza tempo perché non c’è più tempo.
Tutto è fragile qui, un mondo di cartapesta e di sogni, non è l’inferno è il limbo.
Si torna a Chişinău, la sera è ormai calata, domani Odessa, Ejzenštejn, la scalinata e tutto quanto. Cerchiamo di comprare i biglietti per domani, la stazione sembra vicina dalla mappa. Perditi, spingiti più avanti, ancora, ancora. Ecco, ci siamo completamente persi! La zona non è per nulla invitante, incrociamo un passaggio pedonale sulla ferrovia ed entriamo in una vecchia zona industriale, alla debole luce dei lampioni percepisco le ombre di grandi capannoni, sinistre figure incrociano la strada insieme a cani randagi. Non sappiamo di chi fidarci, chiedere, oppure… la diffidenza, la nostra diffidenza verso l’altro ci porta alla paura.
E qui la fortuna, o quello che sia, incrociamo un personaggio eccezionale, di quelli che vanno e vengono; raccontare la sua parte nella storia sarebbe come svelare la carità anonima.
Comunichiamo a gesti, avrà capito quello di cui abbiamo bisogno? Lo vediamo chiamare al cellulare spesso, non sappiamo se fidarci oppure no, ci porta lungo la strada, arriva un’auto con i vetri oscurati e ci invita a salire. Che si fa? Con il cuore in gola saliamo, non vogliamo più rimanere in quel posto, come andrà andrà, pensiamo a tutti i possibili piani di fuga. Quando davanti a noi vediamo comparire l’edificio illuminato con scritto “Gara” tutta la tensione accumulata svanisce in un secondo. L’uomo ci fa pure da interprete con la svogliata impiegata della stazione degli autobus, ci richiama il taxi offrendoci la corsa e ci riaccompagna perfino in centro città.
Immensa gratitudine e la convinzione che se l’uomo è uomo, non c’è niente che lo divida, la diversità è solo quello, diversità, la disperazione e la riconoscenza sono emozioni universali. In quei momenti di smarrimento totale, senti che qualcosa dentro sta cambiando, e riesci a scoprire porte dentro di te per le quali non credevi di avere la chiave…
Scendiamo davanti al surreale mercato dei fiori 24 ore su 24, cerchiamo di ripagare la sua gentilezza in qualche modo:
-No, non posso accettare, prenditi quei soldi e compra un fiore alla tua amica piuttosto.
Mattina, c’è il mercato per strada, vicino alla stazione ferroviaria, si vende tutto quanto ciò che si abbia a casa per arrivare a fine mese, compresi vecchi peluche, bulloni arrugginiti, lampadine fulminate, anche biancheria usata.
Pomeriggio, la pioggia sottile ci accompagna in stazione sud-ovest, un interposto nei sobborghi di Chişinău, da dove si parte per le città più importanti dell’Ucraina e della Russia europea. Qui russi, moldavi, ucraini e molti altri, si mescolano in una folla indistinguibile, ci tuffiamo anche noi.
Compiliamo il modulo, sono le due, si parte, Chişinău ci lascia impregnata addosso una sensazione strana, dalla finestra dell’autobus la guardo ancora, mi sembra che ci siano più macchine di lusso che in qualunque altra parte del mondo, ricordo la ridicola successione di Hammer limousine, immagino la musica, le risate e lo stappare di champagne in mano a gonfi pancioni con le loro ragazze da portare in giro, ricordo i ristoranti e i locali all’ultimo grido, e poi, e poi ti bastano 5 secondi per riflettere e per capire che c’è qualcosa di profondamente malato se a non più di 5 km da qua l’unica realtà che si vede è la povertà, la fatica nell’andare avanti, l’acqua corrente che diviene un lusso per pochissimi e i carri. È anche per tutto questo, soprattutto per questo che percorrendo queste terre ho guadagnato un profondo rispetto per la fierezza della gente che le abita.
Quasi sempre povertà, a volte estrema, ma allo tempo stesso dignità profonda. Paesini coloratissimi, come scenari dipinti sulla facciata delle case che fiancheggiano la strada, ogni villaggio con la sua stupenda fontana ornata in modo ricchissimo, creando un forte squilibrio con tutto ciò che la circonda.
E questa stessa umana voglia di esprimere l’individualità, celata durante il regime in nome della massa egualitaria, la si respira negli abbellimenti delle facciate dei grigi palazzoni sovietici dei sobborghi, a volte decorati per intero con motivi a dir poco azzardati, a discrezione del proprietario dell’appartamento, che ne colora a piacere l’esterno.
Un’altra frontiera, è già notte quando finalmente riusciamo a superare la burocrazia, due ore dopo finalmente in Ucraina.
Stazione di Odessa, senza grivne non possiamo andare da nessuna parte, non ci possiamo nemmeno permettere il bagno della stazione, dobbiamo cambiarli questi soldi, ma qui non ce li cambiano, giriamo, finalmente un bancomat.
-Quanto vale la loro valuta?
-Non lo so.
-Prendi cinquecento.
Come al solito l’ostello l’abbiamo prenotato per il giorno dopo, comunque ci lasciano rimanere, è un enorme appartamento ristrutturato, al sesto piano di un fatiscente palazzo fin de siècle, due indiani mangiano in cucina dei piatti giganti di fagioli e riso, ci mettiamo comodi ma restiamo poco, partiamo a scoprire la città e per mangiare anche noi; è passata la mezzanotte, vediamo di trovare qualcosa. Anche qui ci arrendiamo ai vapori caldi della Soleanca, seguita da un piatto di capra e insalata. Usciamo, un vento ghiacciato arriva dal mare, nero, come la notte, ma la città è bianca, le ombre avvolgono le piazze, i palazzi, i monumenti, in un’atmosfera magica. Ecco cos’è stata per noi Odessa: un respiro di aria fresca e piena di vita.
Mattina, dobbiamo partire subito, la neve cade copiosa e non possiamo rischiare di rimanere bloccati, lo stesso autobus e lo stesso autista, sembra confuso nel rivederci con così poche ore di distanza. Il paesaggio che la notte non ci lasciava ammirare si rivela questa mattina in tutto il suo splendore, immense paludi ghiacciate assolutamente inospitali per l’uomo, tutti tranne noi sembrano indifferenti alla bellezza ipnotica di questi luoghi, sono circa due ore fino alla frontiera e lì ci attende un’altra assurda prova. La profonda ingiustizia del luogo di nascita: una madre e i suoi due bambini ritenuti inadatti a sorpassare la frontiera, costretti a rimanere in questo inferno di ghiaccio per ulteriori controlli. L’autista dell’autobus non si cura dei tempi della burocrazia e riparte, lasciando indietro tre dei suoi passeggeri.
Viaggiatore sei fortunato, sei nato dalla parte giusta, puoi girare, puoi vedere, e puoi tornartene a casa, sai che per te è solamente una parentesi, ma non dimenticartene: hai un privilegio raro.
Di nuovo a Chişinău per uno scalo veloce, decidiamo di ritornare in Romania in treno, il “treno della morte”, cosi lo chiamano, un viaggio che in autobus sarebbe di tre ore e mezza ci porta a nove, cinque delle quali fermi alla frontiera; i binari europei sono di misura diversa rispetto a quelli moldavi, per questo ad ogni passaggio è necessario riadattare il treno per permettergli di proseguire. Non ci bastano le dita per contare i controlli della polizia, ognuno più serio e dettagliato del precedente; non riusciamo a chiudere occhio, e finalmente arriviamo a Iaşi.
La notte è lunga, e in stazione aspetteremo il giorno.
Le sei di mattina, il freddo fa gelare perfino le ossa; finalmente il treno, due ore ed un’altra fermata, Suceava, da qui si raggiungeranno i monasteri.
Girando si scopre che ogni angolo del mondo è un mistero, bisogna stare attenti, camminare con cura per non disturbare ed avere gli occhi aperti alla meraviglia.
-Si vestono di nero, sono in lutto per Cristo, e vogliono dimenticare la superficialità della vita fuori da queste mura.
Una suora molto giovane ci da il benvenuto nel primo dei quattro monasteri che visiteremo. Mai visto niente di simile, non serve descrivere questi luoghi, bisogna vederli, non saprei raccontarne la bellezza, quanta bellezza c’è, posti fuori dal tempo e dallo spazio, ognuno unico anche se rispettano tutti una tipologia architettonica comune, dipinti fino all’esaurimento, interno ed esterno, in un’orgia di affreschi, lodando la divina gloria per la gioia dell’uomo. Sono pezzi di cielo in mezzo a una foresta ad alta quota in montagna.
C’è il film di Tarkovskij, ed il vero Rublëv, c’é la fame e il freddo, Giotto, Michelangelo, Picasso, Malevic e Maradona, c’è Omero, Shakespeare, Kurosawa e ancora Wagner, Sinatra e Neruda c’è l’umiltà del genio anonimo, la morte e la vita. Ci sono tutti quanti qui, tutti quelli che toccati dalla scintilla degli eletti, hanno osato creare luce in mezzo all’oscurità.
Torniamo al mondo, si torna sempre.
Il tramonto anche.
Sette ore di treno, Cluj Napoca, aereo e poi casa.
Il viaggio finisce, la memoria perdurerà.