Nel bunker di Tito

Dal bunker antiatomico di Konjic, trasformato in galleria d’arte contemporanea, alle vie del centro di Sarajevo. Chi ha fatto la guerra? Perché? Un viaggio nel cuore della Bosnia alla ricerca di risposte

28/10/2011, Azra Nuhefendić -

Nel-bunker-di-Tito

Ferhadija (Foto Marzia Bisognin, Flickr )

Mi affretto per vedere, prima che chiuda, uno degli eventi culturali del 2011 in Europa, la mostra d’arte contemporanea di Konjic. Dopo un’oretta di pullman, da Sarajevo, arrivo nella città di Konjic. L’esposizione è allestita nel bunker antiatomico di Tito, rimasto segreto per sessant’anni. Mentre aspetto l’ora della visita guidata, mi siedo sul muretto dell’edificio del Kulturni Dom (la Casa della Cultura). Un palazzo costruito negli anni Sessanta, semplice ed elegante, innalzato sulla sponda destra del fiume, ben integrato con l’ambiente. Oggi però è trascurato, maltenuto, semivuoto. Peccato, penso. Dall’altra parte della strada stanno costruendo un mostro di cemento, acciaio e vetro. È ingombrante per il luogo, non ha nessuna bellezza, sarà un altro degli innumerevoli centri commerciali. In BiH non si produce più niente, si commercia solo.

Due donne

Dopo un po’ arriva un’anziana e si siede accanto a me. Un attimo, ed eccone un’altra che si accomoda vicino. Sono delle donne paesane, della campagna, tutte e due con il fazzoletto sulla testa, una di colore nero mentre l’altra variopinto, il che vuole dire che una è musulmana e l’altra cattolica. Chiacchieriamo. Sono dei due villaggi vicino, aspettano l’autobus per tornare a casa. Tutte e due vivono da sole, i figli sono altrove, emigrati oppure spariti o uccisi durante la guerra. Le nonnine sospirano in modo identico quando gli chiedo come è andata con la guerra. Nei loro villaggi hanno compiuto massacri prima i croati e poi i musulmani per vendetta. Con malinconia parlano della solitudine. A una s’illumina il viso quando parla di una capra: “Non era come le altre, mi guardava dritto negli occhi, quella capiva tutto”. Poi ci spiega che è arrivato il figlio dalla Norvegia e l’ha convinta a dare via la capra. “Ma ne prenderò un’altra”, afferma con la voce insicura, come se stesse cercando di darsi coraggio o di convincere se stessa. Guardo quelle due donne, una cattolica, l’altra musulmana, si parlano, si capiscono, tutte e due mangiano il burek, e hanno destini simili, la stessa solitudine e lo stesso abbandono.

Underground

Il bunker di Tito (Foto David Crowley 66, Flickr)

Il bunker di Tito (Foto David Crowley 66, Flickr)

Arrivo davanti all’entrata del bunker antiatomico, è la porta di una casa come tutte le altre intorno. Il posto è idilliaco, niente preannuncia che da là si entra nel rifugio blindato, cinquemila metri quadrati scavati nella montagna a 300 metri di profondità. Il segreto del bunker fu svelato all’inizio della guerra degli anni novanta, perché quelli che avevano giurato il silenzio non si sentivano più vincolati al Paese che si stava disintegrando, la Jugoslavia.

Il gruppo è composto da una ventina di tedeschi che fanno parte delle forze internazionali in BiH. Tito non era mai stato personalmente nel bunker, e adesso ecco, ci sono i soldati di un Paese che, in teoria, la Jugoslavia temeva e contro i quali si proteggeva costruendo fortezze come questo bunker. Un altro gruppo è costituito da montenegrini, poi sei sloveni, uno studente italo-tedesco e due di Banja Luka. Un ufficiale dell’esercito bosniaco ci spiega, un po’ annoiato, cosa stiamo per vedere. È alto e robusto. Noto che la sua divisa, a differenza degli ufficiali dell’ex armata popolare jugoslava (JNA), non è in perfetto ordine. Hmmm, forse meglio, perché erano proprio quelli perfettini, in uniforme, a seguire ciecamente gli ordini anche quando si trattava di attaccare il proprio popolo.

Il posto è da favola, arredato, ben curato, tutto funziona: le sale, le camere, i bagni, gli uffici, le stanze con vari macchinari e sistemi che permettono la sopravvivenza nel luogo per sei mesi senza alcun bisogno del mondo esterno. Alcuni soldati tedeschi si sdraiano sul letto di Tito, uno si guarda allo specchio nella stanza della first lady, altri toccano i vecchi macchinari stampa. In una stanzetta c’è un aggeggio che ti permette di registrare e riascoltare subito la voce. Scherziamo e io, abbracciata con un certo Boris di Banja Luka, mi ritrovo a cantare “Druže Tito mi ti se kunemo” (Compagno Tito, ti giuriamo di non abbandonare la tua strada).

L’ufficiale che ci fa da guida è preciso quando parla dei dettagli che riguardano il bunker, mentre sull’esposizione di arte contemporanea non si sofferma, si limita a dire: “Sì, quello là è di tizio…” Non gli interessa, non capisce e non cerca neanche di coinvolgerci.

La stanza delle comunicazioni (Foto Blandm, Flickr)

La stanza delle comunicazioni (Foto Blandm, Flickr)

Finita la visita, dopo due ore e mezza, mi preparo per tornare a Sarajevo. Gli sloveni mi offrono un passaggio in pullman, ci vanno per una breve visita perché già l’indomani hanno in programma di fare rafting sul fiume Neretva. Scherziamo, offro loro da assaggiare il formaggio torotan, comprato al mercato locale. È una specialità erzergovese, un formaggio fresco di capra, ottimo. Lo prendiamo direttamente dal sacchetto con le mani, e questo gesto – che non si deve fare – ci fa sentire complici. Ridiamo. Mi invitano ad andare con loro l’indomani a fare rafting, li avverto che il livello della Neretva è ai minimi storici. “Non fa niente, è bello lo stesso, quello che conta è la compagnia, poi si mangia bene”, ribadiscono. Non ho né l’attrezzatura né il guardaroba necessario. Telefono, e dall’altra parte una voce amichevole, uno dei tanti organizzatori di rafting, mi assicura che “basta venire”, tutto il resto viene dato dagli organizzatori.

Diaspora

A Sarajevo sono tutti fuori, letteralmente e simbolicamente. Il tempo è bello, le vie sono piene di gente sorridente, spensierata come se tutto andasse a meraviglia in questo Paese che, secondo i politici internazionali, rischia la disintegrazione.

Sono sulla via Ferhadija, là dove a causa dei tavolini dei numerosi bar messi all’aperto, si riesce a malapena a passare. “Se vuoi vedere o incontrare qualcuno, appostati in quella zona”, mi hanno detto. Appena mi siedo: bingo! Arriva Gordana Knežević, amica e collega, la mitica redattrice del quotidiano “Oslobodjenje” proclamata eroina del giornalismo nel 1992 (International Women’s Media Foundation Courage in Journalism Award). Non ci vediamo da otto anni. Lei, emigrata in Canada, adesso è a Praga dove fa la direttrice di Radio Free Europe. È a Sarajevo da appena due ore. Urli di gioia, abbracci. I curiosi ci guardano. Dopo, uno dal tavolo vicino mi dice che scene come queste sono frequenti nei mesi di luglio e agosto. “Diaspora”, conclude quello, con una certa antipatia. In Bosnia, dopo i nazionalisti serbi (cetnici), i più odiati sono i bosniaci emigrati altrove, cioè la gente come me. Le stesse parole/accuse le sento da mia sorella, anche se lei stessa è stata profuga in Germania per due anni.

Poi passa Mladen Jelačić, che tutti conoscono come Troka. Negli ultimi quarant’anni non c’è bambino a Sarajevo che non abbia una foto con Troka: è il nostro “Babbo Natale”. È il suo mestiere e fu personalmente colpito quando le autorità del partito musulmano SDA avevano proibito il “Babbo Natale”, con il pretesto che si trattava di un’usanza estranea ai bosniaci. Io e Troka ci siamo visti l’ultima volta circa vent’anni fa, sulla spiaggia nudista a Dubrovnik. Stavo sdraiata sulla pancia, e quando mi sono girata ho visto Troka accanto. “Ehilà, scusa, non ti ho riconosciuta dal fondoschiena”. In questi anni, ogni volta che mi ricordavo di lui ridevo per questa battuta. La figlia di Troka, con gravi problemi di salute, sta facendo delle cure in Italia. Gli italiani si sono sbrigati ad aiutarla, e questo fatto ha ispirato il collega Zlatko Dizdarević a scrivere che “ogni persona deve avere almeno due patrie, quella di origine e l’Italia, come seconda”.

Poi, sorpresa delle sorprese, passa Selma. Viveva “da sempre” a Belgrado, ed eccola qui, cittadina di Sarajevo. È disperata. “Non mi abituerò mai a questa città, stretta, con solo due vie principali, ma non potevo più vivere in mezzo a quelli (i serbi) che ci hanno fatto la guerra”, dice.

La protesta di Enjo Hadžiomerspahić

Il rumore della strada è talmente forte che mi devo avvicinare per sentire quello che mi stanno dicendo. Ciononostante un suono sottile, ma penetrante, sopraggiunge da non lontano. Troka mi dice che davanti alla “fiamma eterna” Enjo Hadžiomerspahić, direttore generale di Ars Aevi, sta suonando il flauto. Enjo protesta con un happening artistico, chiede simbolicamente l’elemosina perché le autorità bosniache da vent’anni promettono di procurare uno spazio per la galleria d’arte moderna. Enjo è conosciuto al pubblico internazionale come autore del progetto Ars Aevi, che ha spinto i più importanti pittori contemporanei a donare le proprie opere a Sarajevo. Costituita durante la guerra come resistenza di cultura, la collezione contiene oltre 120 opere di noti artisti mondiali tra cui Michelangelo Pistoletto, Jannis Kounellis, Joseph Beuys, Braco Dimitrijević e Joseph Kosuth. La genesi di quest’opera visionaria è lunga due decenni. Tutto cominciò durante l’assedio di Sarajevo. Mentre sulla città piovevano le bombe, un gruppo di intellettuali immaginò un’utopia: “Sembrava folle parlare di un futuro museo in quei giorni nei quali nessuno di noi sapeva se un minuto o un’ora dopo sarebbe stato ancora vivo”, spiega Enjo. Oggi la collezione ha un valore inestimabile, ma manca il posto per custodirla ed esporre le opere.

La stessa sera, su una terrazza che offre una meravigliosa vista sulla città, con un gruppo di amici facciamo una grigliata. Il vino fa il suo: dopo un po’ litighiamo su cosa è più importante per Sarajevo, la galleria d’arte contemporanea, che non c’è, oppure la pinacoteca nazionale chiusa dopo sessant’anni di esistenza, per mancanza di fondi. “È una tragedia nazionale” afferma Momo, un veterano dell’ultima guerra. Per tre anni e mezzo aveva combattuto, a sue parole, “per la Bosnia”. “Ma è questo il mondo per il quale rischiavo la vita…?”, si chiede, e ci chiede. Poi comincia a piangere, e la serata finisce.

Tutto, ma non la rakija

Quest’anno è piovuto poco in BiH, l’estate è stata lunga e calda e, di conseguenza, le prugne sono piccole. Ma gustosissime. Alcuni si lamentano perché non c’è niente per l’esportazione, ma molti sono contenti. Ce ne saranno di più per la rakija, la grappa fatta in casa. Ogni anno, in questo periodo, tutta la Bosnia, per la costernazione dei mullah locali, profuma di rakija. Il famoso giornalista Boris Dežulović scrive, con superba ironia, che “i bosniaci con la riscoperta dell’islam sono pronti a ritornare nelle moschee, a pregare cinque volte al giorno, a fare il pellegrinaggio, a rinunciare al prosciutto e alla carne di maiale, a espellere Babbo Natale, a non ascoltare più il rock n’roll; acconsentono a lasciarsi crescere la barba, ad avvolgere le donne in lenzuola, sono disposti a rinunciare a tutto, tranne che alla rakija”.

Al mercato di frutta e verdura i banchi scricchiolano sotto il peso delle prugne. Un chilo cinquanta centesimi. Spesso i venditori al mercato hanno un aspetto diverso dai contadini dei dintorni di Sarajevo. Si distinguono perché sono più alti, più robusti e tra di loro molti hanno gli occhi azzurri. Parlo, scopro che vengono in gran parte dalla Bosnia orientale, dai bellissimi e fertili luoghi lungo il fiume Drina. Sono i musulmani “ripuliti” da Višegrad, Foča, Goražde, Srebrenica, Cerska. Le loro case sono state distrutte, ma molti di quelli che incontro hanno ancora là vasti terreni e boschi. “Mi fanno pressione per venderli (i serbi) ma finché sono viva no, non gli vendo la terra dei miei antenati”, dice una che prima della guerra faceva la maestra di scuola elementare; adesso vende la frutta che raccoglie nel proprio frutteto a duecento chilometri dalla capitale. I suoi figli sono cresciuti a Sarajevo, non hanno intenzione di tornare dove sono nati, ma lei si sente a casa solo là.

Chi ha fatto la guerra?

Un’amica, Ferida Duraković, poetessa, tornata da Belgrado, mi racconta di come sia stata accolta calorosamente, di come i partecipanti al congresso mondiale del Pen Club (l’associazione mondiale degli scrittori), compresi i serbi, abbiano salutato con un lungo applauso la proposta di fare Sarajevo, nel 2014, capitale culturale d’Europa. Il tassista, al quale esitava a dire da dove arrivava, le aveva detto rassegnato: “Ci hanno ingannato tutti”. Un altro amico, un giudice in pensione, tornato entusiasta dal raduno degli amici della montagna, tenutosi a Spalato, in Croazia, mi ha detto che “venivano da tutta l’ex Jugoslavia, e ci siamo divertiti tantissimo, ho fatto una nuova amicizia, c’è un amore in vista”, facendo piani per i futuri incontri.

Penso alle due vecchiette, una cattolica e l’altra musulmana che si capiscono e condividono la stessa sorte, penso a Boris, il serbo che canta con me, agli applausi nel centro di Belgrado a favore di Sarajevo, all’amicizia nata a Spalato. Mi chiedo: “Ma chi ha fatto la guerra? E perché?”

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