Sarajevo, attentato all’ambasciata USA

Venerdì 28 ottobre Sarajevo si trova di fronte a un brutto déjà-vu. Un uomo armato di kalashnikov ha attaccato l’ambasciata americana, ferendo due persone. L’identikit dell’attentatore, la ricostruzione del fatto e le testimonianze dei presenti nella cronaca del nostro corrispondente

31/10/2011, Massimo Moratti - Sarajevo

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Immagine tv dell'attentatore Mevlid Jašarević

È stata una mezz’ora ad altissima tensione quella di venerdì pomeriggio a Sarajevo. Un uomo armato di kalashnikov ha attaccato l’ambasciata americana, ferendo in modo serio un addetto alla sicurezza dell’ambasciata e un poliziotto bosniaco, prima di essere neutralizzato da un cecchino della SIPA, l’FBI bosniaco, che lo ha ferito ad una gamba permettendo così alle forze speciali di intervenire e disarmarlo. Nessuno dei feriti è in pericolo di vita.

L’uomo, Mevlid Jašarević, è un ventitreenne, originario di Novi Pazar in Serbia. Dalle immagini è facilmente identificabile come un appartenente al gruppo dei wahabiti, in bosniaco i “vehabija”. Il t[]e è durato una ventina di minuti, durante i quali, secondo i tanti filmati amatoriali presto caricati in rete, si vede l’attentatore sparare numerosi colpi d’arma da fuoco all’indirizzo dell’ambasciata, mentre la popolazione fuggiva in preda al panico. Attimi interminabili, in cui l’attentatore passeggia avanti e indietro, all’incrocio dell’ambasciata. Nel frattempo però le forze dell’ordine prendevano posizione. Dopo alcuni minuti, si è udito uno sparo e Jašarević si è accasciato, colpito da un cecchino della SIPA. Prontamente sopraffatto, l’uomo è stato poi traportato in ospedale. Dopo la perquisizione, sembra che gli siano state trovate addosso anche due bombe a mano.

Non è ancora chiaro se Jašarević abbia agito da solo o sia stato coadiuvato da complici. Subito dopo la sparatoria, la polizia ha fermato due persone che però sono state subito rilasciate dopo aver stabilito che non erano collegate con l’attentato.

Nei giorni successivi vi sono state delle massicce perquisizioni di polizia nel villaggio di Gornja Maoča vicino a Brčko, dove vive una numerosa comunità wahabita, e a Vojničko Naselje, un quartiere di Sarajevo anch’esso occupato dai wahabiti: due persone sono state arrestate e si sta indagando sul loro coinvolgimento nell’episodio. Nel week end la polizia serba, in un’operazione coordinata, ha perquisito l’abitazione della famiglia di Jašarević a Novi Pazar, perquisizione che ha portato all’arresto di 17 persone, in qualche modo collegate all’attentato all’ambasciata americana.

Testimoni oculari

Osservatorio Balcani e Caucaso ha raccolto la testimonianza di una persona che era in un edificio nelle vicinanze dell’attacco ed ha assistito all’intero dramma:

“Ero nella palestra del centro Importanne, al secondo piano e stavo allenandomi con la macchina del cross country. Per alleviare la monotonia le macchine sono posizionate vicine a delle finestre che guardano alla Ambasciata statunitense. Alle 15.37 sento quelli che credevo fossero fuochi di artificio, poi vedo automobili che scappano a destra e a manca. Un autobus che fa retromarcia e apre le porte. I passeggeri schizzano via, si accovacciano. Un uomo con un fucile si agita, ci sono persone a terra, dopo nemmeno un minuto le sirene della polizia impazzano. Tra l’altro la stazione della polizia è praticamente di fronte.  È tutto un déjà-vu. La gente si accosta alla vetrata, piange, riviviamo la Sniper Alley [viale dei cecchini, ndr] della guerra. Io l’avevo vista solo nei filmati, alcuni di quelli che mi stanno accanto no. Gente che urla, si dispera, ci dicono di non accostarci ai vetri perché non si sa mai… 

I cellulari impazzano, io scappo dal retro prima che chiudano il centro commerciale per andare a prendere i bambini all’asilo… Scene che non si scorderanno facilmente e pensare che questo era il pane quotidiano dei sarajevesi durante il lunghissimo assedio…”

La sparatoria di fronte all’ambasciata, sul viale che era tristemente famoso come “Sniper Alley”, il viale dei cecchini, ha risvegliato paure e timori nei cittadini sarajevesi, come se stessero rivivendo quei momenti che sono ancora nella memoria di tutti e che rappresentano un trauma collettivo. Allo stesso tempo però è ritornato fuori anche l’eroismo della gente comune, di quei cittadini che, sfidando il pericolo, si sono avvicinati a Jašarević e hanno prestato soccorso al poliziotto ferito riuscendo a portarlo in salvo.

L’attentatore

Col passare del tempo si sono apprese maggiori informazioni sull’attentatore. In passato, l’uomo aveva vissuto a Vienna dove, all’età di 17 anni,  aveva scontato una condanna a tre anni per una rapina da 100mila euro. Una volta scontata la pena era stato espulso dall’Austria ed era ritornato nei Balcani. Spesso era stato visto a Gornja Maoča, villaggio nel distretto di Brčko che un anno e mezzo fa era stato teatro di una massiccia operazione congiunta delle forze di polizia della Federazione BiH e della Republika Srpska, operazione che però aveva dato ben pochi risultati, forse perché i wahabiti erano stati avvertiti in anticipo.

In seguito, nella sua città natale di Novi Pazar, Jašarević era stato trattenuto dalla polizia perché, assieme ad un complice, si sospettava stesse progettando di attaccare, armato di un coltello, un gruppo di ambasciatori che allora stavano visitando Novi Pazar.

Secondo le prime informazioni raccolte dalle forze dell’ordine Jašarević era entrato in Bosnia dalla Serbia il giorno stesso in cui ha condotto l’attacco e si era recato a Maoča, dove sono stati ritrovati i suoi documenti.

Le reazioni

Le reazioni non sono mancate e senza distinzioni tutti i leader politici bosniaci e la comunità internazionale hanno prontamente condannato l’episodio che è stato immediatamente definito come un atto di t[]ismo.

La Presidenza collegiale si è riunita in una sessione straordinaria la sera stessa e ha condannato l’episodio. Komšić, il presidente di turno, ha sottolineato come l’attacco sia avvenuto lo stesso giorno in cui in Bosnia Erzegovina si trovavano le delegazioni palestinesi ed israeliane.

L’ambasciatore americano ha precisato che le relazioni tra la BiH e gli USA non sono state danneggiate, ma ci si aspetta che le inchieste portino presto a dei risultati. Ad ogni modo, l’ambasciatore ha sottolineato che episodi del genere possono accadere in tutti gli stati.

I precedenti

È questo il secondo atto t[]istico di matrice wahabita in Bosnia Erzegovina. In precedenza, nell’estate del 2010, un gruppo wahabita a Bugojno aveva messo una bomba contro una stazione di polizia, la cui esplosione aveva causato la morte di un poliziotto e il ferimento di altri. In quel caso, la polizia arrestò prontamente i colpevoli, un gruppo wahabita locale, che adesso sono sotto processo.

Nel 2008, durante il “Queer festival” a Sarajevo, le violenze dei wahabiti avevano portato al ferimento di alcuni partecipanti e alla cancellazione del festival.

Nel 2005 due wahabiti bosniaci, che avevano vissuto in Danimarca e Svezia, erano stati scoperti mentre tentavano di organizzare attentati con tanto di cinture esplosive. In quel caso le forze dell’ordine riuscirono ad anticipare i possibili attentatori e ad assicurarli alla giustizia, alla fine furono condannati a pene detentive dai 4 agli 8 anni per atti di t[]ismo.

Ma quali erano gli scopi dell’attacco?

Guardando i filmati amatoriali pubblicati su YouTube, non si riesce però a capire quale fossero gli scopi dell’attentatore: per lunghi e interminabili minuti, Jašarević, in mezzo ad un incrocio stradale, ha camminato su e giù di fronte all’ambasciata sparando raffiche in direzione dell’edificio, che comunque non si trova a ridosso della strada. Non è nemmeno chiaro se l’uomo facesse parte di un gruppo organizzato. Le ambasciate americane al giorno d’oggi sono dei veri e propri fortini, pronte a resistere ad attacchi ben più seri di una raffica di colpi di kalashnikov. L’ambasciata di Sarajevo, la più grande nell’ex Jugoslavia, non fa eccezione, essendo stata completata appena un anno fa.

Nusret Imamović uno leader della locale comunità wahabita ha condannato la violenza gratuita e ha precisato che la comunità wahabita non incoraggia i suoi adepti a spargere sangue senza alcuno scopo né invita alla violenza. Inoltre ha ribadito che tale comportamento non può essere giustificato né dagli uomini né da Allah.

Le inchieste e il processo che si aprirà presto nei confronti di Jašarević e dei possibili complici chiariranno i moventi e le intenzioni di questo gesto che ha riportato Sarajevo sulle pagine di cronaca nera internazionale.

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