Kosovo. Viaggi nel sangue e nel miele

Rompere lo stereotipo del Kosovo come perenne teatro di guerra, e uscire dagli schemi usurati della "letteratura da internazionale nei Balcani". Un compito difficile, ma che sembra essere riuscito ad Elizabeth Gowing, autrice di Travels in blood and honey. Becoming a beekeeper in Kosovo. Un libro dalla prosa poetica e commovente, fatto di molto miele e poco sangue. Dialogo con l’autrice

17/11/2011, Zoe Salander - Pristina

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Travels in blood and honey - copertina

“Il cielo sopra Pristina è pieno di corvi, che creano vorticose volumetrie in volo, cagando allegramente, nel momento in cui il sole inizia a tramontare. I loro istinti sono sintonizzati sugli stessi richiami che mandano gli hoxha delle moschee pristinesi attraverso i loro altoparlanti, per richiamare i fedeli alla preghiera. Ma ho osservato i corvi attentamente: prendono il volo prima che gli hoxha inizino il loro canto, non gli obbediscono. Non credo che questi uccelli siano musulmani.” (incipit, E. Gowing, 2011)

Si può rompere la continuità dello stereotipo del Kosovo come perenne teatro di guerra o come soggetto politico sottomesso al controllo internazionale? Questo libro di Elizabeth Gowing, Travels in blood and honey. Becoming a beekeeper in Kosovo, sembra proprio averlo fatto, sorprendendo per primi i membri della nutrita comunità internazionale residente a Pristina e dintorni. Con una prosa poetica e commovente, l’autrice dischiude ai lettori la sua esperienza in questo paese unico, descritta in forma autobiografica come un diario di bordo. Si dice che i turchi fossero i primi ad aver captato la duplice anima dei Balcani al punto da coniarne il nome: secondo una teoria romantica e molto diffusa, la parola Balkan deriverebbe dalle parole tuche bal “miele” e kan “sangue”. Si narra anche che i turchi si fossero innamorati di queste campagne generose di miele ma che presto abbiano realizzato quanto sangue fosse necessario versare per impadronirsene.

Questa storia inizia con una notifica improvvisa che cambia radicalmente il corso delle cose. Lei è un’insegnante di Londra e scrive poesie. Il suo compagno, un diplomatico inglese, sarà destinato ad affiancare come consigliere politico il primo ministro del Kosovo, Agim Çeku. Senza grandi esitazioni, e senza il tempo di prendere lezioni di albanese, sale su un aereo e sbarca a Pristina per iniziare una nuova vita. È il 2006 e il Kosovo è ancora amministrato dalle Nazioni Unite ma molte cose stanno cambiando, una nuova identità nazionale viene forgiata cogliendo a volte a fatica il portato culturale più profondo. Trovare un nuovo equilibrio e familiarizzare con la nuova realtà è un processo lungo e non semplice.

Così Elizabeth decide di dedicarsi all’apprendimento della lingua albanese e di sostenere la ricerca sulle tradizioni, le arti, l’architettura e l’eredità culturale delle diverse regioni kosovare, promuovendo il Museo Etnografico di Pristina. Nonostante tutto è difficile riuscire a colmare completamente la mancanza delle cose familiari, come il miele naturale che ama sciogliere nel tè. Così, per il suo primo compleanno celebrato nella sua nuova città riceve in dono un alveare, custodito da una famiglia di contadini in un villaggio a circa un’ora dalla capitale. L’apicultura diventa un terreno comune su cui costruire relazioni autentiche con le persone che incontra, offrendo un ritratto inedito e naturalistico del Kosovo rurale, senza limitazioni ideologiche o facili idealizzazioni. Le donne hanno una posizione di riguardo nello sguardo dell’autrice, che cerca di accoglierne la sapienza e l’esperienza vissuta, sperimentando e riportando fedelmente molte tra le più gustose ricette tradizionali a chiusura di numerosi capitoli: dalla flia alla baklava, dall’hajvar alla degustazione di almeno 100 diversi tipi di miele locale.

L’aspetto più poetico e penetrante riferito all’immagine delle api e alla produzione del miele raffigura metaforicamente l’immagine della collettività sociale, impegnata a perseguire obiettivi comuni e a costruire un benessere sostenibile che riecheggia un ideale di cooperazione rispettosa dei tempi e dello scambio reciproco e onesto, molto diverso dalle prescrizioni e dai mandati delle organizzazioni internazionali. Elizabeth Gowing è nota nel paese per il proprio impegno concreto e appassionato svolto con l’organizzazione non governativa di volontariato, che ha fondato con altri, The Ideas Partnership, attiva in diversi settori, ad esempio nell’ecologia e nell’educazione ambientale, fino all’integrazione delle minoranze RAE (comunità di Rom, Askali ed Egiziani) nel sistema educativo e lavorativo. In un dialogo qui riportato, l’autrice ha risposto ad alcune domande critiche.

Dopo la lettura del tuo libro mi è sembrato che nel tuo vissuto il Kosovo sia un luogo bucolico, una rappresentazione molto diversa da quella offerta da altri internazionali che vi hanno vissuto o l’hanno visitato. Consideri che la tua esperienza sia unica o che invece potrebbe essere ripetuta anche da altri?

Certamente. Non c’è nulla di speciale in me, quello che mi ha fatto sentire speciale è stata la gente che mi ha accolto qui in Kosovo. Sono certa che parte dell’entusiasmo che abbiamo ricevuto dagli albanesi kosovari sia dovuto al fatto di essere britannici ed al ruolo del nostro paese nel recente intervento militare in Kosovo. Ma credo che chiunque giunga in Kosovo con curiosità e sia interessato a comunicare con le persone che vi abitano troverebbe un interesse reciproco, e verrebbe trattato secondo la leggendaria ospitalità dei kosovari.

Perché hai deciso di abbracciare una prospettiva prevalentemente orientata verso i kosovari albanesi?

Ho semplicemente scritto delle esperienze che io ho avuto in Kosovo. Se fossi venuta a lavorare con una delle agenzie basate nel nord del paese allora la mia prospettiva sarebbe stata dominata dai kosovari serbi ma, soprattutto all’inizio, la nostra esperienza si è basata a Pristina, che è prevalentemente albanese, e dal lavoro del mio compagno – la ragione per cui siamo venuti in Kosovo – con il governo kosovaro che è prevalentemente albanese. Ad ogni modo, il mio lavoro con un’ONG internazionale che stava costituendo degli asili bilingue serbo-albanesi, bosniaco-albanesi e turco-albanesi mi ha messo in contatto con molti kosovari non-albanesi ed ho iniziato a imparare formalmente il serbo, come descrivo nel libro. Qualcuno ha detto che la mia esperienza era ben rappresentativa perché per circa il 90% è albanese ed il 90% del Kosovo è albanese.  È un approccio bizzarro per analizzare che amicizie fai, ma sono molto contenta che la mia esperienza del Kosovo non sia stata albanese al 100% perché non avrei conosciuto tante belle persone e mi sarebbero mancati alcuni insights molto importanti.

Nel libro hai scelto di focalizzarti su molti aspetti positivi del Kosovo, a scapito delle sue ombre…

Credo di poter rispondere a questa domanda come ho già risposto alla precedente: ho solo scritto delle esperienze che ho avuto, e sono state notevolmente positive. Tutti ci creiamo delle narrative quotidiane di là delle esperienze reali e scegliamo alcuni dettagli come particolarmente rappresentativi mentre altri riguardano aspetti minori. Penso allora di aver ignorato alcune cose che sembravano essere meno rilevanti e non rientravano nella narrativa principale centrata sul miele e non sul sangue (ma il libro non è polliannesco, specialmente quando si sofferma sulla tratta degli esseri umani, sulla condizione femminile o sul portato della guerra ad esempio). Sono stati scritti e si è parlato in abbondanza del sangue del Kosovo e mi ha ispirato orientarmi verso la parte più dolce. Penso che il Kosovo possa crescere e svilupparsi sia psicologicamente sia economicamente solo se anche gli aspetti positivi della vita in Kosovo saranno enfatizzati più di quanto lo siano adesso. Rimestare nei problemi fa gioco ai cattivi leader, disincanta gli elettori, rende peggiore l’economia e disastroso il turismo, cinici gli amici internazionali e deprimente la vita di ogni giorno. Il Kosovo ha bisogno di capi ispirati, di un elettorato responsabile, di investimenti significativi e di migliaia di visitatori e amici internazionali.

Quale rapporto c’è tra il tuo lavoro con The Ideas Partnership e la scrittura?

Sono le due cose che possono tirarmi fuori dal letto la mattina. E siccome la mia scrittura (sia in Viaggi nel sangue e nel miele sia in altre pubblicazioni) è realistica, le esperienze e le persone con cui sono venuta in contatto sono direttamente legate alle narrative (che avvenga attraverso The Ideas Partnership o in altro modo). Sono ispirata dal raccontare la storia di chi ho incontrato perché sono persone grandiose e mi hanno offerto delle esperienze che voglio condividere con gli altri. Allo stesso tempo ho realizzato che la scrittura può sostenere il lavoro di The Ideas Partnership: è un processo reciproco. È quello che è successo quando abbiamo lavorato per cambiare le politiche del Ministero dell’Educazione e per iscrivere a scuola 56 bambini appartenenti alla comunità RAE, e di cui ho scritto, proprio mentre lo stavamo facendo, sul blog (GettingGjelaneToSchool.wordpress.com) letto nel suo massimo picco da 400 persone al giorno. Queste persone hanno dato un grande sostegno al nostro lavoro, tanto morale quanto in termini di donazioni e di tempo speso come volontari. E hanno creato una pressione pubblica rilevante perché la policy fosse cambiata: in quel caso la mia scrittura ha rappresentato molto del lavoro svolto con l’ONG. 

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