Armenia, Azerbaijan, Georgia | | Diritti
Gendercide in Caucaso del sud
Nei Paesi del Caucaso del sud, i bambini maschi sono oltre il 10% in più delle bambine alla nascita. Gli esperti non hanno dubbi: la pratica dell’aborto selettivo, di cui si è molto parlato nei casi di Cina e India, è alla base di questo fenomeno. Una realtà che espone impietosamente quanto le discriminazioni di genere continuino a essere diffuse nella regione. Un’analisi
Nei Paesi del Caucaso meridionale nascono molti più bambini che bambine: 112 maschi per ogni 100 femmine in Armenia e Azerbaijan, 111 in Georgia, secondo un recente report del Consiglio d’Europa. Una leggera disparità a favore dei maschi (105-106 a 100) è normale in natura ed è probabilmente legata al fatto che i maschi sono più deboli nella fase prenatale e nei primi anni di vita. Nella quasi totalità dei Paesi europei gli uffici statistici registrano regolarmente anno dopo anno un coefficiente m/f alla nascita stabile che poco si discosta dalla norma. Le eccezioni più rilevanti in Europa sono appunto le tre repubbliche del Caucaso del sud e l’Albania (112). A livello mondiale, questo fenomeno è stato denunciato ampiamente per quanto riguarda i casi di Cina e India dove le dimensioni del fenomeno in termini numerici sono certamente più impressionanti. Si è iniziato allora a parlare di gendercide, in riferimento ai milioni di bambine che non hanno mai visto la luce in seguito alla pratica di aborti selettivi. Nei casi asiatici, si è ampiamente collegato il fenomeno al divieto di avere più di un figlio in Cina, ai costi proibitivi di garantire la dote a una figlia in India, e più in generale a un contesto discriminatorio in cui la donna non è ritenuta pari all’uomo dal punto di vista economico e sociale.
Sembra invece più difficile interpretare quest’anomalia in Caucaso del sud. Secondo i dati ufficiali infatti, il coefficiente m/f alla nascita è rimasto vicino alla norma in epoca sovietica ed ha iniziato a discostarvisi solo a partire da metà degli anni Novanta raggiungendo ben presto misure preoccupanti e superando la soglia di 115 in tutti e tre i Paesi nel 2000. Niente di simile si è registrato nei Paesi confinanti (Turchia, Russia, Iran), né nelle repubbliche post-sovietiche dell’Asia centrale. Da una parte, è quindi difficile imputare questo fenomeno esclusivamente a una cultura maschilista che non è certo caratteristica solo dei Paesi del Caucaso del sud, o come fenomeno condiviso dai Paesi ex-Urss. Dall’altra, sembra difficile spiegare come questi dati abbiano avuto sviluppi del tutto comparabili in tre Paesi che certo hanno molte caratteristiche comuni, ma anche differenze significative dal punto di vista culturale e religioso (in Armenia e Georgia domina la Chiesa ortodossa, mentre in Azerbaijan l’Islam sciita).
Un problema reale
Il problema è stato poco riconosciuto e per niente dibattuto nei Paesi in questione. Alcuni ricercatori che si erano occupati del tema avevano minimizzato imputando tutto a incompletezza nella registrazione dei dati in un periodo in cui in seguito al crollo dell’Unione sovietica le strutture statuali erano poco efficienti. Ma alcuni studi accademici hanno confermato la realtà del problema ed hanno analizzato meticolosamente i dati disponibili attraverso uffici statistici e indagini nazionali sulla fertilità. Uno studio realizzato su dati relativi al periodo 1997-1999 in Georgia ha mostrato evidentemente la preferenza per figli maschi analizzando l’ordine di nascita. Per il primogenito, il rapporto tra maschi e femmine era in linea con il rapporto “normale” di 105. Per il secondo nato, il rapporto si alzava a 108. Per il terzogenito, il rapporto saltava a 140, e si registrava come donne che avessero avuto due figlie femmine e partorito un terzo figlio maschio avessero in media alle spalle un maggior numero di aborti. Inoltre, se i primi due figli erano femmina, nel 42% dei casi si sarebbe avuto un terzo figlio. Se almeno uno dei primi due figli era maschio, questa percentuale si dimezzava. Tutti fattori che indicano chiaramente una spiccata preferenza per figli maschi. Anche le indagini dei servizi demografici e di salute condotte in Armenia, Azerbaijan e Georgia nel 2005-2006 confermano questa tendenza preoccupante, in particolare per quanto riguarda il terzo nato. Per i terzogeniti, infatti, in tutti e tre i Paesi il rapporto stava sopra i 150 figli maschi per ogni 100 femmine.
Benché alcuni di questi valori siano variati con il tempo e vi siano delle differenze tra questi Paesi, la dimensione del fenomeno non lascia adito a dubbi riguardo alla realtà del problema. La questione è stata recentemente denunciata anche da un rapporto presentato all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa da Doris Stump. Nel rapporto si fa esplicito riferimento ai casi di Albania, Armenia, Azerbaijan e Georgia e si invitano i governi di questi Paesi ad intervenire per misurare il fenomeno e ad aumentare la consapevolezza del problema tra gli operatori sanitari e la popolazione più in generale. “La selezione prenatale del sesso del nascituro deve essere condannata in quanto fenomeno che trova le sue radici nell’ineguaglianza di genere e rinforza un clima di violenza contro le donne,” scrive Doris Stump nel suo report datato 16 settembre 2011. “Ha conseguenza dannose, incluse sproporzioni nella popolazione, aumento della criminalità, disagio sociale e un aumento del rischio di violazioni dei diritti umani, quali il trafficking a scopo di matrimonio o sfruttamento sessuale.”
Il fatto che tanti genitori dimostrino una spiccata preferenza per i figli maschi è un evidente quanto preoccupante indicatore della disuguaglianza tra uomini e donne in una società. Ma come evidenzia la Stump, e come dimostrato dall’esperienza dei Paesi asiatici in cui questo fenomeno è presente da più tempo, il problema ha ripercussioni dirette molto concrete: una società in cui i giovani adulti uomini sono oltre il 10% in più delle coetanee di sesso femminile (situazione che sarà inevitabilmente realtà tra pochi anni nella regione) può creare gravi scompensi sociali.
“Voglio un maschio, e così sarà”
Secondo Nino Modebadze, capo-redattrice del portale Ginsc.net , portale di informazione su questioni di genere in Caucaso del sud, questo fenomeno sarebbe conseguenza della forte disuguaglianza sociale tra uomini e donne. “In Georgia si sono fatti dei passi avanti in questi ultimi anni ed è stata approvata una legge per le pari opportunità,” ha raccontato a Osservatorio nel suo ufficio a Tbilisi, ”Ma nella nostra società la donna continua ad essere ritenuta una figura di secondo piano… sono differenti le possibilità di carriera, gli stipendi.”
Se la rappresentanza politica può fungere da metro di paragone, il caso georgiano non lascio adito a dubbi: con 9 parlamentari donne su 138 (il 6,5%) la Georgia è ultima tra i Paesi Osce per rappresentanza di donne nei parlamenti nazionali. “Se chiedi a un uomo georgiano se desidera un bambino o una bambina, ti dirà senza dubbio ‘Naturalmente un bambino! Voglio un maschio, e così sarà’”, racconta ancora Nino Modebadze, “Ma è un problema così radicato nella società che non vi è il desiderio di parlarne, non vi è consapevolezza, nei media non se ne parla affatto.”
E infatti, rari sono gli esempi di giornalisti che hanno dedicato la dovuta attenzione al problema. Tra questi, vi è Tiko Tsomaia che ne aveva scritto sulla rivista georgiana Liberali già nel 2009. “All’inizio vi era un rifiuto totale di accettare i dati per quello che erano,” racconta la giornalista a Osservatorio, “Anche ora è un tema su cui non si vuole discutere. Un po’ alla volta si inizia a parlarne… ad esempio rappresentanti della Chiesa ortodossa hanno riconosciuto il problema e hanno preso posizione. Ma c’è ancora molto da fare.”
Il quesito rimane quindi come intervenire su un problema complesso che non si presta a facili interpretazioni. In una raccomandazione ufficiale , il Consiglio d’Europa ha chiesto alle autorità di Albania, Armenia, Azerbaijan e Georgia di investigare le cause del fenomeno, incrementare gli sforzi a favore delle pari opportunità, organizzare e sostenere campagne per aumentare la consapevolezza sul fenomeno, predisporre formazione specifica sulla selezione prenatale basata sul sesso per il personale medico.
Perché in Caucaso del sud
Non sorprende che la prima raccomandazione del Consiglio sia quella di indagare a fondo le cause di questo fenomeno. I (pochi) ricercatori che si sono occupati della questione per quanto riguarda il Caucaso del sud hanno descritto il fenomeno, hanno argomentato in modo convincente grazie ad un’approfondita analisi dei dati disponibili che l’accentuata sproporzione tra maschi e femmine alla nascita è riconducibile alla pratica dell’aborto selettivo, ma non hanno individuato chiaramente quali sono gli elementi che portano questi Paesi ad avere il dubbio onore di essere in cima alla classifica mondiale che misura il coefficiente maschio/femmina alla nascita .
È diffusa la convinzione che pratiche di questo tipo siano particolarmente diffuse nelle zone di campagna, o, nel caso georgiano, nelle zone abitate prevalentemente da rappresentanti di minoranze etniche. I dati disponibili, non sembrano però confermare questa ipotesi. In Azerbaijan, ad esempio, il coefficiente m/f alla nascita è significativamente più alto a Baku che non nelle zone al confine con il Daghestan a nord o con l’Iran a sud.
Neppure un generico richiamo a valori “tradizionali” (un’etichetta utilizzata e abusata colpevolmente per dare una parvenza di legittimità a stereotipi e posizioni discriminatorie nei confronti delle donne o rappresentanti della comunità Lgbt) di per sé è sufficiente a spiegare la diffusione del fenomeno della selezione prenatale basata sul genere: purtroppo, sono molte le regioni al mondo dove le discriminazioni delle donne sono endemiche, come e più che in Caucaso del sud. La diffusione di tecnologie che permettono di identificare il sesso del nascituro a costi ridotti si sono diffuse a partire dagli anni Novanta, ma certo non solo in questa regione.
I motivi sembrano quindi essere altri. La pratica diffusa in Urss di utilizzare l’aborto come metodo contraccettivo di riferimento ha lasciato in eredità un frequente ricorso alla terminazione volontaria di gravidanza. Secondo alcune stime Armenia, Azerbaijan e Georgia sarebbero attualmente tra i Paesi al mondo dove il ricorso all’aborto è più frequente. Se l’attuale tendenza continua, le donne di questi Paesi avranno all’incirca tre aborti a testa nel corso della loro vita. La significativa differenza tra i dati raccolti attraverso indagini e quelli ufficiali suggerisce che buona parte degli aborti avvengono in modo “non ufficiale” e quindi spesso in situazione di maggiore rischio per la salute delle donne.
Un altro elemento fondamentale è la diminuzione del numero dei figli per donna. Se i figli sono molti, è naturalmente più probabile che spontaneamente nasca un figlio maschio. A metà anni Sessanta, ogni donna in Georgia aveva in media tre figli, in Armenia quattro, in Azerbaijan cinque. Ora invece il numero di figli per donna è calato drasticamente: in Armenia e Georgia è sotto 1,5, in Azerbaijan è ora a due. Nel contesto attuale, un genitore che vuole un figlio maschio sa di non poter permettersi di “sbagliare”, e frequentemente sceglie di ricorrere all’aborto se il sesso del nascituro non è quello desiderato.
Questi dati dimostrano che una parte molto significativa della popolazione dei Paesi del Caucaso del sud è disposta a ricorrere all’aborto non appena scoprono che il nascituro sarà una femmina. “Se è maschio sì, se è femmina no”. Il fatto che una scelta tra le più importanti nella vita di un individuo, quella di mettere al mondo un figlio, sia condizionata a tal punto da questo fattore espone impietosamente quanto la discriminazione tra uomo e donna pervada queste società. Una piena presa di coscienza del problema e un dibattito pubblico aperto ed informato rappresenterebbero un primo passo importante per affrontare un problema, quello delle discriminazioni su base di genere, che certo non riguarda solo il Caucaso del sud.