Il record mancato della Bosnia Erzegovina

Note a margine dell’accordo che ha consentito la formazione di un nuovo governo in Bosnia. Il ruolo dell’Alto Rappresentante, la posizione del partito socialdemocratico e le vere linee di divisione che attraversano la società bosniaca

13/01/2012, Massimo Moratti -

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Walking over Sarajevo (Foto Nicolò Paternoster, Flickr )

I cittadini della Bosnia Erzegovina possono, per una volta, essere contenti per non aver battuto un record negativo, quello del più lungo periodo di tempo durante il quale un Paese è rimasto senza un governo dopo le elezioni. Per questa volta il primato del Belgio non verrà intaccato. Con la nomina di Vjekoslav Bevanda a presidente del Consiglio dei Ministri, si conclude una lunga paralisi istituzionale che stava logorando le forze politiche ed esasperando i cittadini bosniaci. Ma il percorso che ha portato alla nomina di Bevanda è stato contraddistinto da una serie desolante di fallimenti ed []i, come quello dell’Alto Rappresentante della comunità internazionale in Bosnia che, a marzo 2011, intervenne pesantemente nella diatriba tra SDA [Partito di Azione Democratica] e SDP [Partito Socialdemocratico] da un lato e HDZ 1990 e HDZ BIH [Unione Democratica Croata 1990 e della BiH] dall’altro, imponendo una decisione molto controversa che ha gettato benzina sul fuoco del contendere politico, allontanando così le possibilità di un accordo.

Party estivi in Italia

Dopo un’estate contraddistinta da alcuni tentativi falliti, lo sconforto si era impadronito dell’opinione pubblica: in occasione dell’ennesima tornata di negoziati dei leader politici bosniaci tenutasi in una lussuosa villa a Cadenabbio in provincia di Como, ed organizzata da un’organizzazione non governativa in cerca di gloria, i portali bosniaci non avevano esitato ad annunciare il fallimento dell’incontro, prima ancora che l’incontro iniziasse! Fallimento che puntualmente avvenne, ma che fu preceduto da un party memorabile dove i leader politici bosniaci, senza distinzioni etniche, festeggiarono allegramente tra di loro, salvo poi riassumere le consuete posizioni oltranziste il giorno dopo quando i riflettori della stampa si sono riaccesi su di loro.

Il passo indietro della comunità internazionale

Dopo questa serie di insuccessi, l’accordo ottenuto lo scorso dicembre assume ancora più importanza. Evidentemente i partiti politici si sono resi conto che la crisi stava rapidamente erodendo i loro consensi, e che le scadenze di bilancio non consentivano loro ulteriori spazi di manovra. Da più parti si erano sentite voci che auspicavano elezioni anticipate, possibilità però che non è contemplata dalla costituzione bosniaca e che avrebbe reso necessario l’intervento dell’Alto Rappresentante.

Intervento che però non c’è stato, e questo è senz’altro il messaggio più incoraggiante che deriva dalla conclusione della crisi: i bosniaci devono esser capaci di creare il clima necessario per raggiungere il consenso tra di loro senza aiuti esterni, senza spintarelle nell’una o nell’altra direzione che facciano ripartire il motore della politica.

Oltre a Inzko, anche il rappresentante speciale dell’Unione Europea, Sørensen, si è astenuto dall’entrare nel calderone della politica bosniaca, lasciando che gli eventi facessero il loro corso e che a poco a poco il legame tra elettori ed eletti venisse ricreato, dopo anni di semi-amministrazione internazionale che ha creato una sindrome da dipendenza decisionale nei politici bosniaci. Quello che avverrà ora è tutto da vedersi, ma i segnali sono incoraggianti.

Una questione di poltrone… e di principi

A dir il vero, come è emerso a poco a poco, le ragioni dei dissidi tra politici bosniaci non vertevano su questioni strategiche cruciali, come il cammino euroatlantico del Paese, ma in modo molto più banale vertevano sulla distribuzione di seggi e poltrone secondo la proporzionale etnica che contraddistingue tutti gli accordi per la spartizione del potere in Bosnia Erzegovina.

All’origine di tale dissidio, una questione fondamentale nella rappresentanza etnica: chi può considerarsi come legittimo rappresentante del suo popolo? Colui che semplicemente appartiene a tale popolo, oppure colui che rappresenta anche gli elettori di tale popolo?

Komšić, membro croato della presidenza, viene considerato un rappresentante illegittimo dei croato bosniaci dai membri dell’HDZ perché la sua elezione è stata resa possibile dagli elettori dell’SDP, che sono a maggioranza bosgnacchi. La lunga controversia tra HDZ e SDP è stata su chi ha il diritto di rappresentare i croati di Bosnia, numericamente il minore dei popoli costituenti. E da qui la questione sollevata dall’HDZ: può un popolo considerarsi adeguatamente rappresentato se il suo rappresentante istituzionale viene eletto con i voti di un altro popolo? In questo senso, la multietnicità dell’SDP viene vista dai principali partiti croati come un espediente per far prevalere il principio, tanto caro a Silajdžić, del "un uomo un voto", e quindi relegare i croati della Bosnia, e soprattutto dell’Erzegovina, in posizione subalterna dominati elettoralmente dai bosgnacchi.

Lo scontro durante tutti questi mesi è stato proprio su queste tematiche dato che l’HDZ contestava energicamente il fatto che l’SDP potesse nominare i suoi rappresentanti a posizioni che appartenevano alla quota "croata". Che piaccia o no, questa è la prassi che si è finora sviluppata, e cercare di cambiarla senza un accordo tra tutti i partiti è come mettere la benzina in un motore diesel: la macchina non parte e si rimane a piedi.

I dilemmi dell’SDP

In realtà va detto che l’SDP è senz’altro il partito che meno si appoggia all’identità etnica e che più di ogni altro si ispira ad una visione secolare della società, ispirandosi direttamente alla tradizione socialista jugoslava e proponendosi come leader nella battaglia contro le moderne forme di fascismo. Ma ciò non basta a vincere voti nella Bosnia di oggi. Le linee di frattura della società bosniaca sono solo apparentemente etniche.

Al giorno d’oggi la società bosniaca è ancora divisa dal conflitto del 1992: si guarda soprattutto da che parte si stava durante la guerra. Questo è il motivo per cui Komšić, croato sarajevese e decorato come combattente dell’Armija della Repubblica della Bosnia ed Erzegovina, non ha sostegno popolare nelle zone dell’Erzegovina a maggioranza croata, dove l’esercito croato bosniaco (HVO) aveva combattuto contro l’Armija. Lo stesso vale per i serbi del’SDP, che sono in gran parte serbi che decisero di rimanere leali al governo di Sarajevo e di non unirsi ai secessionisti di Pale.

I successi dell’SDP nella Republika Srpska e nelle zone a maggioranza croata sono stati limitati proprio perché l’SDP è stato sempre associato con una delle parti del conflitto. Viene da credere che tale percezione continuerà ad esistere fino a quando l’SDP continuerà ad annoverare nella sua leadership personaggi che ebbero ruoli rilevanti durante la guerra, come è il caso, oltre a Komšić, del leader Lagumdžija, che allora era vicepresidente del governo. Oppure fino a quando l’SDP non farà dei passi concreti per dimostrare, a chi stava dall’altra parte durante il conflitto, che rappresenterà e proteggerà i diritti di tutti.

Il fatto di andare al governo è ora un’occasione da non perdere, ma bisognerà vedere se l’SDP riuscirà a proporsi come partito di tutti i bosniaci, senza distinzioni di parti, oppure se continuerà a strizzare l’occhio e cooperare con i nazionalisti bosgnacchi da un lato e ad usare la bandiera della multietnicità come strumento di marketing dall’altro, ottima credenziale per assicurarsi il sostegno delle ambasciate straniere operanti in Bosnia, in primis quella americana. Va detto che la sbandierata multietnicità dell’SDP ha comunque fruttato un notevole supporto al partito almeno fino a quando la comunità internazionale aveva un ruolo preminente in Bosnia.

Chi è davvero multietnico?

Posta in questi termini, la questione della multietnicità assume un’altra dimensione nel contesto politico bosniaco. In realtà, sarebbe molto più utile guardare a quei partiti che cercano di stringere alleanze in tutte e due le entità, superando l’immaginaria linea del fronte che ancora esiste nelle menti delle persone, senza cercare di cambiare l’assetto istituzionale e senza guardare da che parte si stava durante il conflitto.

Dato l’attuale sistema politico, è molto difficile che nuovi partiti possano affermarsi a breve: il sistema politico è bloccato, i partiti maggiori gestiscono le risorse principali e il quadro legislativo non sembra incoraggiare nuovi soggetti. Per fare un esempio, le principali fonti di finanziamento dei partiti sono date da fondi pubblici, ma tali finanziamenti vanno solo ai partiti che sono già rappresentati in parlamento.

Un partito emergente deve quindi fare ricorso ad ingenti risorse private, come per il caso di Fahrudin Radončić, il Berlusconi bosniaco, oppure ricorrere ad ingenti campagne di finanziamento popolare, ma vista la situazione economica bosniaca, non c’è da farsi molte illusioni in merito.

Fino a che questo quadro istituzionale non cambierà non ci si può aspettare un mutamento radicale del discorso politico bosniaco, e bisognerà quindi sperare che il sistema evolva e maturi lentamente al suo interno.

In questo senso l’accordo sul nuovo Consiglio dei Ministri fa ben sperare, che pian piano la politica riprenda il suo cammino.

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