Kosovo settentrionale: barricata di “no” contro Pristina

Il referendum organizzato dalle municipalità serbe del Nord del Kosovo ha confermato il rifiuto ad accettare le autorità di Pristina. Il voto, dichiarato nullo da governo kosovaro e autorità internazionali, segna però soprattutto un momento di rottura della comunità serba del nord con Belgrado, che temendo ripercussioni sul percorso di integrazione UE ha osteggiato il voto

21/02/2012, Tatjana Lazarević - Mitrovica

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Sulle barricate in Kosovo del nord (foto © Livio Senigalliesi)

Secondo dati ancora preliminari, il 99.74% dei votanti ha detto “no” nel referendum organizzato in quattro municipalità del Nord del Kosovo. Il quesito su cui dovevano esprimersi era così formulato: “accettate le istituzioni della cosiddetta Repubblica del Kosovo?”

Nonostante il maltempo e la contrarietà di Belgrado, l’alta affluenza alle urne è stata evidente, ed ha raggiunto il 75.28% degli aventi diritto. Proprio nel giorno in cui si festeggiavano l’amore e il vino [San Valentino e Sveti Trifun], le strade deserte e da giorni piene di neve, sono state irraggiate dal sole, e la gente è andata a votare di buon mattino.

Tuttavia, i voti dei circa 26.500 cittadini, che senza sorpresa hanno votato “no” alle istituzioni kosovare, sono stati dichiarati nulli sia dalle istituzioni del Kosovo che dai rappresentanti della comunità internazionale, ma anche dal governo serbo. Questi tre soggetti, dalla fine dello scorso anno, quando i leader del nord del Kosovo hanno indetto il referendum per il 14 e 15 febbraio, festa nazionale della Serbia, si sono sempre opposti alla sua organizzazione, dichiarandolo incostituzionale e minimizzandone l’importanza. “Il referendum è nullo”, hanno detto quasi all’unisono i tre soggetti di cui sopra.

Scheda elettorale del referendum nel nord Kosovo

Anche il giorno prima del referendum, i più severi sono stati il presidente Boris Tadić e il governo kosovaro. Ma, nonostante il presidente serbo sia stato deciso nel sottolineare il danno arrecato dal referendum agli interessi nazionali serbi, il governo del Kosovo ha accusato Belgrado di aver organizzato il referendum, dichiarando in un comunicato stampa che “questa presa di posizione indica chiaramente le ambizioni malate e le pretese territoriali della Serbia verso la repubblica del Kosovo”.

Un peso per la Serbia

Dopo il voto, ai rappresentanti internazionali che da anni tramite Belgrado cercano di influire sui serbi del Nord del Kosovo, è oramai chiaro che il nord si è de facto “sottratto” all’influenza politica delle autorità serbe.

“In questo momento la situazione al nord del Kosovo è tale che Belgrado non ha più molti mezzi efficaci per influire sulle decisioni che vengono prese laggiù, anche se ciò non significa che non abbia potuto farlo in passato. Credo che la Serbia non debba essere ostaggio dei serbi del nord Kosovo e che assegnarle lo status di paese candidato sia l’aiuto migliore non solo alla Serbia, ma anche ai paesi vicini, Kosovo compreso, e quindi anche ai serbi che vivono a sud e a nord del fiume Ibar”, ha dichiarato a Radio Free Europe alla vigilia del referendum il rapporteur per la Serbia al Parlamento europeo Jelko Kacin.

Le accuse che i serbi rimasti in Kosovo siano ormai da tempo la zavorra della Serbia nella sua controversa strada verso l’Unione europea sono diventate più frequenti dallo scorso autunno, quando si è surriscaldata la questione relativa all’ottenimento dello status di paese candidato. L’iniziale sostegno emotivo fornito dai funzionari di Belgrado alle barricate serbe nel nord del Kosovo è andato velocemente smorzando, rivelando così falle nella comunicazione tra Belgrado e il nord del Kosovo.

I voti lontano dai riflettori

Il referendum, come un corpo estraneo, si è infilato simbolicamente tra due festività nazionali, rispettivamente della Serbia e del Kosovo: il giorno della Repubblica, 15 febbraio, che si celebra dal 2001 a commemorazione della prima insurrezione serba contro i turchi nel 1804 e la prima costituzione serba del 1835, e il 17 febbraio, quarto anniversario della dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo.

I 26.500 voti di un nord barricato e coperto di neve sono sembrati insignificanti rispetto alla sfilata d’alte uniformi, picchetti d’onore e decoro delle due capitali, che per l’ennesima volta hanno giurato di proteggere il proprio stato e la sua integrità territoriale.

Il referendum si è tenuto anche senza la presenza di osservatori, visto che le organizzazioni internazionali non hanno risposto alla richiesta di monitoraggio del voto, e OSCE e UNMIK avevano già detto che il referendum non è valido, e che non avrà alcuna conseguenza legale.

Dall’ “indesiderato neonato” hanno preso le distanze anche i due funzionari statali che per Belgrado sono i due autentici rappresentanti dei serbi del Kosovo. Il ministro e il segretario di stato per il Kosovo, entrambi originari del nord, hanno ripetutamente suggerito che non ha senso che i cittadini vadano contro il proprio governo. L’alta affluenza, invece, l’hanno spiegata con la paura dei cittadini dei leader locali nel caso non fossero andati a votare.

“La gente si trova davanti ad un enorme dilemma e sotto forti pressioni psicologiche, perché non andare al referendum per i leader locali avrebbe significato automaticamente essere a favore dell’allargamento delle istituzioni di Pristina, ma per quanto ne so io quello è stato un voto a favore o contro il governo della Serbia”, ha precisato all’agenzia Tanjug Oliver Ivanović, segretario di stato per il Kosovo.

Prima del referendum si era parlato di brogli. Alcuni funzionari governativi hanno sperato fino all’ultimo che la percentuale di affluenza non sarebbe stata così alta. Molti serbi del nord, che finanziariamente dipendono da Belgrado, temevano di votare, per paura di perdere il posto di lavoro. Dall’altra parte, fin quasi il giorno del voto, è stata evidente la mancanza di una vera campagna elettorale. Qualche banchetto e manifesto è comparso solo pochi giorni prima del voto. Il cuore della campagna era un fuoristrada che, come nei migliori film locali, percorreva le strade innevate, invitando tutti al voto da un megafono.

Che la situazione sarebbe stata diversa da quello che avevano sperato i funzionari di governo era già evidente dal comportamento della più settentrionale delle municipalità, Leposavić, sotto forte influenza del ministro per il Kosovo Goran Bogdanović, originario di quel comune. Questa volta, però, l’influenza del ministro non è stata sufficiente per far sì che l’amministrazione locale bloccasse il referendum e a Leposavić i risultati non si discostano in percentuale dagli altri comuni.

Chi è andato a votare?

L’alta affluenza indica che l’appartenenza al partito e l’influenza politica dei leader sono state messe da parte. I quattro comuni del nord del Kosovo sono amministrati da sindaci di partiti che a livello nazionale sono sia al governo che all’opposizione. Dalla cosiddetta crisi di luglio, tutte le amministrazioni locali, con a capo i rispettivi leader, sono sempre state unite nelle decisioni, incluse quelle che contrariavano Belgrado. E anche se le segreterie dei partiti del governo centrale hanno esercitato una certa influenza sui rappresentanti locali, quanto meno per rimandare il referendum, molti simpatizzanti e membri di questi partiti si sono recati alle urne.

“Siamo stati costretti a prendere una decisione con questo referendum, per dire ancora una volta all’opinione pubblica internazionale che non permetteremo che ai serbi del nord del Kosovo venga imposta una soluzione”, ha precisato il sindaco del comune di Kosovska Mitrovica, Krstimir Pantić, all’emittente locale KiM radio.

C’erano votanti che non erano sicuri di cosa scegliere. Hanno votato su indicazione della famiglia, oppure hanno votato perché la maggioranza è andata a votare.

“Ho sempre creduto nel mio paese, anche quando Slobo ci ha difeso, e poi sono rimasta senza casa…Ma adesso? Ha ragione Tadić che non dovremmo votare? Non lo so figliola, ma ti dico, ascolto mia nipote, lei mi ha portato a votare”, ha dichiarato a OBC l’anziana Vera P. fuggita dal sud del Kosovo, mostrandomi la fragile e silenziosa ragazza che la sorregge.

La sensazione generale è che i cittadini abbiano votato per paura di vedersi imposta la demolizione del sistema statale serbo e l’introduzione di quello di kosovaro. Per la maggior parte dei serbi questo voto è stato di vitale importanza. Ponendo di contro l’alternativa: chiudere le istituzioni serbe e integrarsi con quelle kosovare.

“Non importa se ci spingeranno a forza nelle istituzioni di Pristina fra sei mesi o un anno o fra cinque. Non vogliamo un sistema che ci è innaturale, che è altrui. Il diritto fondamentale di ogni uomo è difendere il suo sistema e di contrastare più che può l’imposizione di valori e cultura altrui se non riconosciuti come propri”, afferma la diciannovenne Maja V., che per la prima volta è andata a votare.

"Quando la primavera tarda"

Un antico detto serbo dice: “La neve non cade per coprire la collina, ma per svelare le tracce”. I serbi del nord hanno cementato una nuova barricata: il voto popolare del referendum contro l’integrazione nella società kosovara. Molti politici di Belgrado vorrebbero lasciare da parte il fardello kosovaro, sperando che la neve rimanga alta almeno fino a maggio, data delle prossime elezioni politiche in Serbia.   

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