La Bosnia indipendente, venti anni dopo

Nel marzo di 20 anni fa, dopo la vittoria del sì in un referendum disertato dalla maggioranza dei serbo bosniaci, la Bosnia Erzegovina dichiarò la propria indipendenza. Un mese dopo iniziò la guerra. Le riflessioni di Jovan Divjak sul ventennale

09/03/2012, Michele Biava - Sarajevo

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Sarajevo, 1 marzo 2012: i presidenti Komšić e Izetbegović depongono una corona di fiori presso il monumento dedicato ai bambini sarajevesi uccisi durante l’assedio (foto Michele Biava)

Il 29 febbraio e il 1 marzo 1992 i cittadini della Bosnia Erzegovina furono chiamati a votare per il referendum sull’indipendenza del Paese. Quale ricordo ha di quei giorni?

Oggi guardo in modo molto diverso a ciò che accadde allora. Allora votai con entusiasmo per l’indipendenza della Bosnia Erzegovina, perché le politiche messe in atto sul territorio dell’ex Jugoslavia erano tali da obbligare la repubblica di Bosnia Erzegovina a richiedere la propria indipendenza, così come avevano fatto Slovenia e Croazia. Quello che allora mi sembrava assolutamente accettabile era il fatto che l’Europa ci avesse dato il compito di utilizzare lo strumento del referendum e di decidere.

I risultati sono noti, e naturalmente non voglio discutere su questo, ma ci tengo a precisare un dettaglio: quando dall’altra parte si oppongono e rifiutano di celebrare il primo marzo come giornata dell’indipendenza della BiH, dico che tra il 10 e il 15% dei serbi (di Bosnia Erzegovina) nelle grandi città come Sarajevo, Tuzla, Zenica, Bihać hanno dato il loro voto, quindi anche i serbi, non soltanto i bosgnacchi e i croati.

Jovan Divjak (foto Michele Biava)

Jovan Divjak (foto Michele Biava)

Altro è che allora non si entrò sufficientemente in profondità nella questione ma, ad esempio, la mostra di fotografie di Milomir Kovačević Strašni (“Željeli smo samo mirDesideravamo solo la pace, esposte alla Galleria d’arte di Sarajevo fino al 25 marzo) racconta in modo eccellente l’entusiasmo delle persone che volevano esistesse la Bosnia Erzegovina, non di un solo popolo, ma di tutti i popoli costituenti perché questo era semplicemente una prosecuzione del 1943.

In che atmosfera si svolse il referendum? Oltre all’entusiasmo c’era anche paura? Che influenza ebbero la guerra in Croazia, le minacce da parte dell’SDS e gli scontri che erano già avvenuti sul territorio della BiH?

Rispondo per me, non su come altri possano aver vissuto quei giorni, ci tengo a precisarlo, io non avevo paura, ma magari altri ne avevano. Io mi sono comportato come in occasione delle elezioni, sono andato a votare tra i primi perché questo è un mio diritto, un mio dovere di cittadino, altri non vanno a votare né ai referendum né alle elezioni. Per me è stato utile e credo, con il mio voto, di aver dato quella briciola di contributo all’indipendenza della Bosnia Erzegovina. Per me allora è stata un’occasione un po’ solenne; alcuni si sono vestiti eleganti, hanno messo la cravatta… Io sono andato ad esprimere la mia posizione secondo cui la Bosnia Erzegovina ha diritto alla sua sovranità. A maggior ragione considerando i venti che nel frattempo arrivavano da Belgrado e da quelle zone dove i serbi erano maggioritari. Una delle ragioni di paura fu la minaccia di Karadžić, nell’autunno ’91, “se avrete il vostro Stato ci sarà la guerra e verrà meno un popolo”. Per me a quel tempo fu un motivo in più per reagire. Occorre ricordare che già nel ‘91 i nazionalisti serbi avevano proclamato territori autonomi, i cosiddetti “territori serbi autonomi”. Alla fine loro hanno operato una secessione. Il 9 gennaio di quest’anno sono stati festeggiati i 20 anni della Republika Srpska. Questa fu una secessione. La proclamazione della Republika Srpska era contro il senso della Bosnia Erzegovina che allora era una repubblica, legale, dentro l’insieme della Federazione jugoslava. Questo è stato un motivo in più per andare a votare per l’indipendenza.

Pensavate allora che esistesse un’alternativa all’indipendenza?

Allora non ci ragionai abbastanza. Ero più occupato dai miei problemi di membro della Difesa Territoriale. Ero nella Difesa Territoriale (DT) dal 1984 e nel settembre del 1991 diedi l’ordine che una parte degli equipaggiamenti e delle armi della DT del territorio di Kiseljak fosse consegnato alla polizia locale. Per questo finii in tribunale e fui condannato. Ero allora molto occupato da questa vicenda perciò non ebbi modo di andare particolarmente in profondità rispetto a quello che stava accadendo. Però so di alcuni avvenimenti. Dopo, ho sentito spesso parlare di come Filipović e Zulfirkarpašić, d’accordo con Alija Izetbegović, andarono a Belgrado per parlare con Milošević di un’eventuale soluzione alternativa. Ho seguito gli incontri dei sei rappresentanti delle repubbliche, i loro dibattiti su come si potesse dividere la Jugoslavia, naturalmente sapevo dell’idea che avevano i defunti presidenti della Macedonia e della BiH di una sorta di confederazione di stati, comunque indipendenti, e so di una voce, che ho sentito dopo, che ci fu un primo accordo con Slobodan Milošević in questo senso, e che il presidente Izetbegović prima accettò e poi cambiò idea, ma gli storici dovranno dimostrare o smentire. Riguardo a questa rinuncia, si dice che se avessimo accettato saremmo stati schiavi di Milošević. La mia opinione è che magari sarebbe stato come per la Cecoslovacchia e ci saremmo separati in modo pacifico. Inoltre credo sia stata scorretta l’analisi degli uomini che hanno preso in considerazione questa possibilità insieme ad Alija Izetbegović, secondo cui avrebbero avuto un grande appoggio da parte dei paesi arabi e musulmani. Purtroppo questo non è avvenuto, perciò non abbiamo nulla che sia neanche vicino a ciò in cui abbiamo sperato il 29 febbraio e il 1 marzo.

Come cittadino di Sarajevo, intellettuale, ma anche come membro della Difesa Territoriale, cosa si aspettava dopo il referendum, quale possibile scenario?

Io non pensavo assolutamente che si sarebbe arrivati alla guerra. Adesso gli esperti e gli intellettuali dicono che si sapeva, io non lo sapevo, forse ero ingenuo in quel momento, ma non pensavo lontanamente che si sarebbe arrivati alla guerra. Quello che era avvenuto in Slovenia e Croazia, ad esempio, per noi era lontano. Dubrovnik, Vukovar, anche quello che era accaduto a Bijeljina, era tutto in qualche modo lontano. Anche se ad alcuni giornalisti avevo detto che sarebbe potuta scoppiare una guerra, ero convinto che mai avrebbe investito Sarajevo. Assolutamente in quei giorni non pensavo a questo, fino a che i corpi speciali dell’SDS dal tetto dell’Holiday Inn non hanno aperto il fuoco sui manifestanti per la pace il 5 aprile, finché non sono state uccise Olga e Suada, finché non sono iniziati i primi bombardamenti.

Attraverso il referendum la maggioranza dei votanti si espresse per “una Bosnia Erzegovina sovrana e indipendente, stato di cittadini titolari di uguali diritti, dei popoli della Bosnia Erzegovina, musulmani, serbi, croati e appartenenti agli altri popoli che in essa vivono”. Quali punti del quesito sono stati realizzati?

Purtroppo neanche uno, perché una parte dei cittadini, un popolo della Bosnia Erzegovina, non l’ha accettato. Si utilizza l’espressione “Stato di Bosnia Erzegovina”, ma di fatto questo non esiste, esiste come concetto geografico, ma nella politica, nella cultura, nell’istruzione, nella realtà non trova riscontro. Lei sa che il treno Sarajevo-Beograd ha tre vagoni? Uno della Federazione, uno della Republika Srpska e uno della Repubblica di Serbia, e i passeggeri comprano il biglietto per il “proprio” vagone, poi strada facendo si cambiano i locomotori. Questo è folle, è un’immagine chiara di questo Paese.

La Bosnia Erzegovina di oggi è uno Stato di cittadini o di appartenenti a gruppi nazionali?

Purtroppo la seconda, solo la seconda. I diritti ci sono solo per chi su quella determinata porzione di territorio appartiene al gruppo nazionale maggioritario. Il bosgnacco e il croato in Republika Srpska di fatto non godono degli stessi diritti di cui gode la maggioranza della popolazione; croati e serbi a Sarajevo non hanno le stesse opportunità dei bosgnacchi, così come nei territori a maggioranza croata c’è discriminazione nei confronti degli altri. Questa la chiamerei assimilazione, segregazione, nelle scuole così come in ogni aspetto della vita. Parliamo tanto dei casi di “due scuole sotto lo stesso tetto” [quando nello stesso edificio coabitano due diverse istituzioni scolastiche che seguono due programmi di studio differenti a seconda della nazionalità degli studenti, ndr], dimentichiamo sempre che, nella maggior parte dei luoghi dove un gruppo nazionale è nettamente maggioritario, gli appartenenti agli altri gruppi sono spesso obbligati a seguire il programma principale, salvo poi essere separati nell’ora di religione. Quindi su tutto il territorio si assiste a processi di assimilazione e segregazione. Al di là dei programmi scolastici vogliamo prendere in considerazione la scelta dei manuali? Facciamo finta che lei sia croato e abbia scritto un libro di matematica. Il suo libro non sarà utilizzato nelle scuole “bosgnacche”. Io come bosgnacco scrivo un libro di inglese? Sicuramente non sarà scelto il mio in una scuola in RS. Anche se la storia recente non c’è nei manuali, si sono trovati altri modi per differenziare l’istruzione su base nazionale. Parliamo di Šantić? Non credo che in una scuola in RS trattando Šantić si consideri Emina. Si sceglierà sicuramente qualche altro tema. Se Tadić, presidente della Serbia viene a Pale, in Republika Srpska, e inaugura una scuola che si chiama Serbia, cosa può voler dire? Oggi le nuove generazioni sono allevate nell’odio. Molto più che nel ’95.

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