Armenia, paura di perdere la pace
Una delegazione del Parlamento europeo si è recata in Armenia per parlare dei nuovi accordi di associazione con l’UE. Ma a Yerevan, il tema numero uno resta sempre il Karabakh. Il racconto di Paolo Bergamaschi, Consigliere per gli Affari esteri del Parlamento europeo
Delle decine di gruppi razziali e comunità etniche che popolano la Georgia, quella armena è una delle più numerose e forse meno tutelate in termini di diritti. Le forze nazionaliste al governo a Tbilisi sono, da anni, intente a cementare un forte spirito ed una identità nazionale a scapito delle minoranze mentre le autorità di Yerevan non hanno alcun interesse a sostenere le rivendicazioni dei propri connazionali con il rischio di creare un focolaio di tensione con uno dei pochi paesi amici o, almeno, non ostili della regione.
A causa della chiusura delle frontiere con Azerbaijan e Turchia la Georgia rappresenta per l’Armenia un corridoio terrestre indispensabile per il commercio estero, in particolare con la Russia, così come il porto di Batumi è il tradizionale punto di accesso al mare per le merci armene esportate via nave. In estate sono decine di migliaia gli armeni che affollano le spiagge dell’Agiaria, sul Mar Nero, con le strutture alberghiere della regione ristrutturate e potenziate per far fronte all’incremento del flusso di turisti.
La strada che da Tbilisi porta a Yerevan è una delle più trafficate del Caucaso. Completamente risistemata sul versante georgiano ha subito importanti aggiustamenti anche su quello armeno, non sufficienti, però, per garantire la scorrevolezza necessaria agli ingombranti e obsoleti autocarri che vi transitano. Anche le postazioni per i controlli doganali hanno subito da entrambi i lati importanti interventi. Noto con piacere al mio passaggio l’informatizzazione delle procedure di verifica dei passaporti rispetto alle precarie pratiche manuali degli anni precedenti quando le guardie di frontiera erano obbligate a trascrivere, nella penombra, i dati personali dei viaggiatori su corposi registri dalle pagine gibbose e sfrangiate. L’attraversamento della catena del Piccolo Caucaso è sempre spettacolare e questa volta lo è ancora di più tra la neve caduta abbondante, con i soliti mezzi in avaria abbandonati chissà da quando sul ciglio della strada. Il soccorso stradale non sembra molto efficiente da queste parti. Dall’ultimo passo lo sguardo si apre a valle fino al lago Sevan, la più importante riserva di acqua dolce dell’Armenia. Da qui a Yerevan, sul falsopiano, la via è breve.
Ottimismo e preoccupazione dal ministro degli Esteri armeno
Il ministro degli Esteri Edward Nalbandian ci attende, nervoso, nel salotto ufficiale per gli ospiti del ministero. Sa che deve farsi perdonare il rifiuto all’autorizzazione dell’attraversamento della linea di contatto. “Non ci sarebbero stati problemi, da parte mia, se foste passati da Stepanakert (il capoluogo dell’Alto Karabakh, ndr) in Azerbaijan; nella direzione opposta non sono in grado di garantire le necessarie condizioni di sicurezza”, sostiene con una certa irritazione, “troppi sono ancora gli incidenti, tra cecchini e campi minati”. “Forse è troppo presto per compiere un’azione di questa portata”, aggiunge, “nonostante l’atmosfera positiva durante l’incontro fra i due presidenti a Sochi nello scorso gennaio”. “So che gli azeri si lamentano criticando la mancanza di progressi del processo di pace ma vorrei sottolineare che sono già stati quindici i vertici fra i due presidenti cui vanno aggiunti almeno quaranta incontri a livello di ministri degli Esteri”, osserva, “ed è sempre la controparte azera che, alla fine, rifiuta di sottoscrivere ulteriori accordi come, per esempio, quello sul meccanismo di prevenzione degli incidenti lungo la linea di contatto”.
Per quanto riguarda le relazioni con l’Unione Europea Nalbandian manifesta il suo ottimismo rimarcando come i negoziati del nuovo accordo bilaterale di associazione procedano a ritmo spedito. Non sfugge, però, nella sua esposizione un malcelato disagio come rappresentante di un governo consapevole di perdere terreno sul piano internazionale mentre il potere di attrazione dell’Azerbaijan è in crescita costante.
Il petrolio tira sempre, il mattone non più. Mentre i proventi degli idrocarburi rendono immune l’Azerbaijan dalle turbolenze finanziarie che stanno scuotendo l’Europa, l’Armenia deve far fronte ad una crisi economica dovuta, in parte, al crollo del settore edilizio protagonista del boom dei primi anni del nuovo secolo. A Baku è tutto un susseguirsi di gru e ponteggi mentre a Yerevan i cantieri edili hanno, in pratica, abbandonato il centro città.
Anche le cospicue rimesse della numerosa diaspora armena nella Federazione Russa sono precipitate provocando una forte contrazione del prodotto interno lordo appena attenuata da una parziale, timida ripresa sostenuta dall’aumento dei prezzi dei minerali esportati, in particolare ferro, rame e pietre preziose.
Intrappolata in un conflitto cristallizzato che non trova sbocco la piccola repubblica caucasica avverte una crescente pressione politica che va di pari passo con quella economica. Il mercato russo perde colpi mentre quello europeo, che rappresenta quasi il 50% dell’export, non si espande a causa dei limiti dell’attuale regime commerciale. Poiché di pace non si vuole parlare si preferisce affondare la testa nella sabbia come gli struzzi pretendendo che l’attuale situazione di stallo possa procrastinarsi in eterno. Secondo le statistiche ufficiali fornite dal governo la popolazione è stabile, attestata attorno ai tre milioni di abitanti. Stime ufficiose, però, parlano di un’inarrestabile emorragia con un flusso costante di persone in cerca di fortuna presso parenti ed amici nelle comunità armene che risiedono in Europa, Stati Uniti e Russia.
Nell’Armenia di oggi non c’è futuro. Tutti lo sanno ma nessuno ha il coraggio di ammetterlo. Anche nella recente campagna elettorale nessun leader politico ha avuto il fegato di rompere il muro dell’omertà confessando in pubblico che senza un compromesso con l’Azerbaijan il paese non ha le risorse per sopravvivere. Si bussa alla porta dei russi per la sicurezza, degli iraniani per i rifornimenti energetici, degli europei per l’assistenza economica. Proprio con l’Unione Europea sono appena iniziati i negoziati per un nuovo accordo commerciale destinato ad integrare l’Armenia nel mercato unico. Rappresenta, probabilmente, l’ultima spiaggia per dare una concreta prospettiva di sviluppo ad un paese impantanato tra le sabbie mobili di una regione che non trova requie.
Lada e Suv
Le vecchie Lada sono ancora di moda a Yerevan. Il tempo, da questo punto di vista, sembra essersi fermato. Contrariamente a Baku dove imperversano Suv dalle carrozzerie ardite e sfavillanti nella capitale armena sono ancora datati modelli di automobili, spesso sgualcite e ammaccate, a farla da padrone. Va osservato che, comunque, sembrano resistere bene alle rigide temperature invernali della capitale. Situata su di un falsopiano a quasi mille metri di altezza Yerevan anche fra i cumuli di neve non mostra particolari problemi di traffico. Muoversi fra i vari ministeri, sebbene ubicati tutti in posizioni centrali, non è così complicato come in altre capitali grazie anche ad un impianto urbano relativamente moderno.
La corruzione fra i poliziotti incaricati di controllare la circolazione, mi dicono, si è ridotta drasticamente in seguito all’installazione di telecamere in corrispondenza delle postazioni abituali. Ai lati delle principali arterie si stagliano, ovunque, oltre a quelli dei leader di partito, i manifesti pubblicitari del rinomato brandy locale la cui produzione negli ultimi anni ha avuto un notevole impulso. Di politica la gente non vuole sentire parlare. Secondo tutti i sondaggi, a questo proposito, la fiducia nei partiti è addirittura più bassa che in Italia. L’attenzione si desta solo quando si parla di Nagorno Karabakh. Allora gli animi si surriscaldano e irrompe l’irrazionalità. Occorrerebbe, forse, una terapia psicoanalitica di massa per reintrodurre nell’agone politico un minimo di analisi logica ma mancano i presupposti oltre che esperienze consolidate in merito.
Sargsyan parla (solo) di Karabakh
Non cambia la litania con Serzh Sargsyan, il Presidente della Repubblica, che dopo un caloroso benvenuto affronta con fermezza i temi del conflitto scagliandosi contro i tentativi dell’Azerbaijan, a suo dire, di cambiare il formato ed i principi del processo di pace. “È assolutamente ridicolo quello che gli azeri dicono della Francia in relazione alla legge sul riconoscimento del genocidio armeno così come la lista di prescrizione in preparazione nella capitale azera nei confronti di coloro che si recano in visita nell’Alto Karabakh”, aggiunge, “se non ci sono stati progressi la colpa è solo di Baku e non della diplomazia internazionale”. Sargsyan, in linea con la strategia adottata dal suo paese, pone l’accento sulla necessità di dare l’ultima parola alla popolazione che risiede nell’enclave montagnosa sottolineando che nulla può essere deciso senza il consenso di questa. E rivolgendosi ad un euro-deputato tedesco della delegazione non manca di osservare come la Germania si trovi nella condizione migliore per capire come ci si possa sentire in un paese diviso.
“L’Armenia ha fatto in Nagorno Karabakh quello che l’Europa ha fatto con il Kosovo”, attacca, “se la Serbia ha perso ogni diritto sul Kosovo lo stesso tocca all’Azerbaijan nei confronti del Nagorno Karabakh”. Tanta è l’enfasi del presidente armeno sulle ragioni del suo paese che tralascia colpevolmente, nel limitato tempo a disposizione, tutte le tematiche che riguardano gli sviluppi nelle relazioni con l’Unione Europea che in origine dovevano rappresentare il fulcro del colloquio. “Siamo disponibili a concessioni ma non ad una capitolazione”, conclude nel congedarsi, visibilmente contrariato dallo scambio di battute con interlocutori che si aspettavano qualche apertura e lasciano trasparire la propria insoddisfazione.
Perdere la pace
Si può vincere la guerra e perdere la pace. Come affermato da Sargsyan nel corso dell’incontro l’Armenia, durante la guerra, avrebbe potuto conquistare ben più del venti per cento del territorio azero tuttora occupato. Allora l’Azerbaijan era allo sbando con strutture statali precarie, un bilancio pre-fallimentare ed un esercito disorganizzato e scarsamente equipaggiato.
I russi dopo avere spalleggiato e rifornito le forze armene si sono riconvertiti in pacificatori mediando l’accordo di cessate-il-fuoco che ha ingessato il conflitto. In vent’anni, però, la situazione si è ribaltata. I vincitori sul campo di battaglia hanno perso terreno sul piano economico e politico mentre i perdenti iniziali hanno monetizzato le ingenti risorse di idrocarburi trasformando l’oro nero in prestigio internazionale ed influenza politica. Con il risultato che l’Armenia è passata da una posizione di forza in cui avrebbe potuto dettare le condizioni del processo di pace ad una di estrema debolezza legata ai capricci di Mosca, grande protettrice e garante, in ultima istanza, dello status quo. Più passa il tempo e più questa situazione si accentua vanificando il vantaggio accumulato dagli armeni ai tempi della guerra. Si comprende, pertanto, il disagio manifestato dal governo di Yerevan ogni qualvolta si affronta la questione dell’Alto Karabakh, come se si stia toccando un nervo scoperto, come se un treno è partito e si è sbagliato stazione. Dall’altra parte, a Baku, crescono, invece, autostima e autorevolezza, nella certezza che il tempo gioca a favore dell’Azerbaijan.
Russia e Unione Europea
“I russi fanno solo il loro gioco”, mi confida Paruyr, un amico armeno, “in passato, ci insegna la storia, si sono spesso rivelati inaffidabili”. Nonostante la tradizionale alleanza con Mosca gli armeni hanno ben presente di essere solo una pedina su uno scacchiere complesso dove sono altri a decidere le mosse. Non basta essere l’ultimo avamposto cristiano di fronte alla marea islamica, come sono solite mettere in evidenza le autorità di Yerevan, per ottenere credito e sostegno in giro per il mondo. Non rimane che l’Unione Europea per dare respiro ad una politica parcheggiata ormai su un binario morto e rianimare un’economia asfittica priva di sbocchi.
“Nessun imprenditore è disponibile ad investire in Armenia”, sottolineano gli osservatori, “se non si ampliano gli orizzonti di mercato”. E l’unico mercato possibile, allo stato attuale delle cose, è quello europeo. Da un paio di anni Bruxelles ha messo a disposizione della repubblica caucasica un programma di assistenza che prevede il distaccamento di un gruppo di consiglieri dell’Unione nei principali ministeri per facilitare il processo delle riforme in campo economico, politico e giudiziario, come previsto da un piano di azione siglato dalle due parti. A loro spetta il compito di traghettare l’Armenia verso l’integrazione europea e, più in particolare, di trasformare l’attuale sistema politico da una democrazia guidata, in cui l’élite al potere rimane sempre al suo posto grazie ad elezioni spesso fraudolente, ad una democrazia piena, in cui l’alternanza è possibile a seguito di consultazioni libere ed aperte. È una sfida difficile considerato il ruolo ingombrante degli oligarchi che ancora monopolizzano e imbalsamano i punti nevralgici dell’economia e della politica armena ma anche una scelta obbligata se si vuole dare una reale opportunità di sviluppo al paese.
L’avvenimento politico più importante nella capitale, in questi giorni, non è tanto la visita di una delegazione del parlamento europeo quanto quella di una delegazione di deputati azeri arrivati per la riunione della Commissione Sociale dell’Assemblea Parlamentare “Euronest” che raggruppa deputati dei sei paesi del “Partenariato Orientale” con quelli dell’euro-camera. Gli occhi della stampa e dell’opinione pubblica sono tutti, ovviamente, puntati su di loro. Decido per l’occasione di aggregarmi all’incontro.
Nelle sale austere del parlamento armeno tutto pare filare liscio. Nessun accenno polemico nei discorsi di apertura da parte delle autorità locali e nessuna parola fuori posto da parte della consistente delegazione azera. Solo un piccolo incidente. Tra i posti assegnati nei banchi ve ne è uno che riporta l’indicazione “Rappresentante della Repubblica del Nagorno Karabakh”. Bastano, però, le proteste informali, dietro alle quinte, degli sherpa della diplomazia di Baku per fare rimuovere il cartello ed evitare che la provocazione degeneri in guerra verbale.
Il regalo
Più tardi nella camera di hotel una nuova sorpresa. È costume da queste parti per gli ospiti ricevere un piccolo dono in occasione di conferenze e riunioni politiche. Anche questa volta trovo riposta sul letto la classica bottiglia di cognac locale appoggiata, però, sopra ad un voluminoso libro sulla presenza dei monumenti armeni nell’Alto Karabakh. Superfluo descrivere i mugugni dei deputati azeri il giorno seguente quando riprendono i lavori. Sono più i piccoli gesti che contano o le azioni spettacolari? Il processo di pace, sulla carta, è partito venti anni fa ma sembra di essere ancora alle fasi preliminari in cui ci si guarda in cagnesco marcando il territorio. Tagliata fuori da ogni ipotesi di sviluppo regionale l’Armenia si aggrappa al passato incapace di scommettere sul futuro. Con un salvagente europeo in balìa della tempesta.
*Consigliere per gli Affari esteri del Parlamento europeo