Processo Mladić, tra giustizia e dolore

Le madri di Srebrenica, una miriade di giornalisti, gli avvocati e l’accusa. Giustizia, dolore e informazione. Parte così il processo contro il generale serbo-bosniaco Ratko Mladić, accusato di genocidio e crimini contro l’umanità, presso il Tribunale penale dell’Aja. Un racconto da chi ha seguito l’intera giornata

17/05/2012, Giulia Magnani - L'Aja

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Ratko Mladić  (foto @ICTYnews)

Nel giorno d’avvio del processo a Ratko Mladić l’ingresso del Tribunale è riservato alle vittime, alle rappresentanze diplomatiche e ai giornalisti accreditati: lo staff usa l’entrata sul retro. Piccoli dettagli che confermano come sia grande l’attesa per la prima udienza all’ex generale serbo-bosniaco. 

Le madri di Srebrenica

L’udienza è prevista alle nove, ma prima delle otto in molti attendono già fuori dai cancelli. Lo striscione con le foto di alcune vittime del massacro di Srebrenica si distingue da lontano: le donne dell’Associazione Madri di Srebrenica e Žepa lo sorreggono nel vento dell’Aja. Sono in sette, ma bastano a fatica. Nura, in cappotto bianco e foulard rosso, risponde alle domande di una giornalista francese grazie all’aiuto di un’altra vittima che si presta come traduttrice. Nura ha perso 23 membri della sua famiglia e tutti gli amici più cari. “Cosa pensa di Mladić?” Replica fiera nel suo dolore: “Non è umano”.

Davanti alla stessa domanda, Hatida si rivolge diretta alla giornalista: “Come chiamerebbe qualcuno che ha potuto decidere della vita e della morte di un popolo, se non mostro? Cosa penserebbe come madre?” Questa volta è chi regge il microfono a rimanere senza risposte.

Tra il pubblico della galleria non ci sono solo vittime: Jehanne è olandese e per arrivare all’Aja in tempo per l’udienza si è svegliata alle cinque. Treccia bionda, abito di jeans e curiosi calzettoni a righe, ma sotto l’apparenza naïve non c’è più una ventenne. Jehanne si sente responsabile per quello che è successo: “I Caschi Blu olandesi erano lì anche in nome mio. Non si può restare immobili davanti alle immagini trasmesse dalla tv, per questo cerco di dare voce a queste vittime”. Così ogni anno, l’11 luglio, parte per Potočari e partecipa alle celebrazioni in memoria della strage di Srebrenica: “Se ci vai, non puoi restare indifferente”.

I mass media

Mladić si presenta in cravatta blu a pois gialli e sembra stare meglio rispetto alla sua prima comparsa in Tribunale. Incrociando lo sguardo di alcune vittime, si passa il pollice sotto il mento da sinistra verso destra: il cenno di tagliare la gola. Seppur il suo aspetto sia cambiato rispetto ai tempi della guerra, il suo spirito sembra lo stesso di quando si beffava della comunità internazionale davanti alle tv.

Proprio i media sembrano giocare un ruolo decisivo nel processo, dato che i servizi dei corrispondenti in Bosnia durante la guerra si rivelano spesso prove d’accusa schiaccianti. A tal riguardo Dermot Groome, capo dell’accusa, si avvale di un filmato di quattro minuti per mostrare la vita a Sarajevo durante l’assedio: fra i giornalisti presenti qualcuno forse riconosce un proprio servizio.

I diari di Mladić

Per l’accusa la strategia dei serbo-bosniaci applicata in Bosnia è ormai chiara: attraverso un costante coordinamento politico e militare, le truppe di Mladić hanno tentato di realizzare uno stato serbo-bosniaco autonomo conquistando buona parte della Bosnia (fino al 70% al termine dell’estate del 1992) e rimuovendo la presenza croata e musulmana da questi territori. Obiettivi formulati per tempo e strutturati in un programma sistematico di intimidazioni, espulsioni, violenze, massacri e campi di concentramento. Pulizia etnica, insomma. 

Tra i documenti utilizzati dall’accusa spiccano i diari di Mladić, in cui il generale serbo-bosniaco ha descritto gli anni del conflitto dal 30 settembre 1992 al 28 novembre 1996. Ordinati e a tratti schematici, riportano le note degli incontri politici e militari e solo di rado le sue impressioni personali: un totale di 18 volumi, 4.000 pagine, ritrovate in soffitta in casa della moglie. Tuttavia la difesa si è pronunciata critica sull’attendibilità di queste pagine e, sebbene non abbia messa in dubbio la loro autenticità, pensa che possano aver subito delle manipolazioni. I giudici del Tribunale devono ancora pronunciarsi al riguardo. Soddisfatto davanti alle telecamere, Branko Lukić commenta: “Niente è troppo forte per questa difesa”.

L’accusa continuerà oggi a presentare i principali crimini di cui è accusato il generale serbo-bosniaco. La prima testimonianza, prevista per il 29 maggio, potrebbe invece subire un notevole ritardo (fino a un massimo di sei mesi). I giudici hanno infatti rilevato che l’accusa ha commesso “[]i significativi” nel fornire per tempo ai legali della difesa le prove a carico dell’imputato.

Qualcuno commenta: “Era dai tempi di Milošević che non vedevo così tanti giornalisti in tribunale”. La lobby in effetti è piena di portatili e cineprese, di mani impegnate a reggere microfoni, caffè e cellulari che squillano di continuo. Allora sorge un dubbio: come si può raccontare questo processo rispettando i tempi dell’informazione senza ritrovarsi indifferenti – perché presi dalla foga della notizia – davanti al dolore di queste storie? Come rivolgersi a una vittima senza violare la sua memoria solo per ottenere il dettaglio di un’altra violenza? È forse la differenza tra una notizia e una storia: tra il giornalista che sgomita per farsi spazio e quello che sa riconoscere il volto delle madri che ha intervistato.

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