La nostalgia per Cipro

Nel versante ovest di Cipro si trova un piccolo altare del secondo millennio a.C. con scolpite le corna del Minotauro. Da lì parte il viaggio nell’isola di Afrodite, nei suo labirinti antichi e nuovi. La dominazione dei Greci più antichi fino ai Romani, ai Bizantini e i Templari di Riccardo Cuor di Leone e la realtà dei luoghi della Cipro di oggi, anche della sua dimenticata e isolata parte nord, più bella di quella immaginata da ogni nostalgia di parte

30/08/2012, Fabrizio Polacco -

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Il castello di Kantara foto di F.Polacco

Non è facile visitare Cipro nord, ufficialmente non esistono voli né traghetti diretti dall’Europa ma solo dalla Turchia. Dalla parte sud, cioè dalla Repubblica di Cipro che è membro dell’UE, è possibile compiervi escursioni, anche passando semplicemente a piedi dal celebre varco di Lidras Street: il viale che, oltrepassando la Linea Verde (soprannominata ‘linea Attila’) dell’ONU, congiunge le due metà dell’ultima capitale europea ancora divisa da un muro, Nicosia, o Lefkosia o Lefkoşa (rispettivamente nome tradizionale, greco-cipriota e turco cipriota).

E già questa triplice denominazione è il sedimento di un travaglio interminabile fatto di guerre, discordie, contese, invasioni, di una terra che vede marcato dalla geografia il suo destino: troppo piccola per costituirsi stabilmente come indipendente entità politica insulare, e insieme troppo vicina a tre continenti (Asia, Europa e Africa) per sottrarsi agli appetiti e alle mire espansionistiche delle potenze, rivierasche e non.

Va detto subito che, se questa collocazione ha segnato la tragica vicenda di Cipro fino allo stallo attuale (che l’ex Segretario ONU Perez de Cuellar definì ‘…un labirinto senza uscita’), d’altro lato conferisce fascino e bellezze incomparabili all’isola. Tanto che la pur complessa situazione giuridica e politica non scoraggia neppure oggi il turismo stanziale né l’acquisto di case di villeggiatura nel settore nord da parte soprattutto di cittadini britannici: così, i nostalgici esponenti dell’ultima potenza colonizzatrice (dal 1878 al 1960 occuparono Cipro) scendono numerosi ad inizio stagione affollando aerei che, doverosamente, fanno prima scalo a Istanbul, per poi proseguire con le aviolinee interne turche verso l’aeroporto di Ercan nell’auto-proclamata Repubblica Turca di Cipro Nord.

Eppure, la nostalgia di questo piccolo territorio dallo statuto incerto non dovrebbe essere solo quella provata dagli ex padroni britannici; né solo quella dei greci e neppure solo quella dei turchi ‘autoctoni’ (cioè qui almeno a partire dall’occupazione ottomana dell’isola del 1571), diversi da quelli immigrati nell’ultimo quarantennio dalla madrepatria anatolica. Anche ogni buon europeo che abbia un minimo di cultura e di consapevolezza storica dovrebbe essere preso da struggente nostalgia per questo lembo di terra dimenticata, flottante tra il Libano, la Siria, l’Anatolia e gli ultimi scampoli del Dodecanneso.

Dagli antichi greci ai Templari ai Lusignano

Una strana nostalgia, che sconfina con l’amarezza, è il sentimento che ti assale con un groppo alla gola, quando per la prima volta sali sugli immensi bastioni che circondano l’incantevole Famagosta (o Ammokostòs o Gazimağusa) e da lì ammiri il panorama aperto sul mar di Levante. Sopra le case basse e terrazzate, assopite da un sole già intenso anche a primavera, svettano come un miraggio tra i ciuffi di palme le guglie ricamate di una cattedrale gotica, quale potresti trovare a Chartres in Francia o in ben altre latitudini: e che invece è la vecchia San Nicola, fondata dai Lusignano, feudatari franchi che ressero l’isola come un regno dal XIII al XV secolo. Erano arrivati qui a seguito di complicati eventi dinastici, che videro tra l’altro lo sbarco, ai tempi delle Crociate, di Riccardo Cuor di Leone (1191).

Fallito il tentativo di consolidare i regni cristiani in Terra Santa, l’isola era a quel tempo l’avamposto di tutti i campioni delle lotte per la fede: tanto che i Re di Cipro venivano solennemente incoronati, proprio in quella basilica, pomposamente e come se ancora fossero padroni dell’ambita città della Giudea, ‘Re di Gerusalemme’: in un abside vetrato che aveva per sfondo il porto con le vele triangolari dei navigli, le rotte salmastre del Levante e, in prospettiva, i litorali sabbiosi della Palestina e il Santo Sepolcro.

Famagosta ex Cattedrale di S. Nicola oggi Lala Mustafa Pasha Cami

Famagosta ex Cattedrale di S. Nicola oggi Lala Mustafa Pasha Cami – foto F.Polacco

Tutta Famagosta è così: sottilmente decadente e poco popolata, punteggiata di chiese gotiche e bizantine per lo più diroccate, dai costoloni pietrosi e merlettati ormai occupati dagli uccelli marini e dalle felci leggere ondeggianti agli aliti caldi del Mediterraneo; con la polvere sabbiosa – non sapresti se generata dai cantieri edilizi o trascinata sopra il mare dalle raffiche provenienti dall’arida Siria – che fa sfrigolare il cuscinetto della penna a sfera contro la pagina su cui cerchi di prendere qualche rapido appunto, prima di rientrare a Cipro sud; una penna che di tanto in tanto si blocca, costringendoti a ricalcare più volte la stessa parola.

Anche il regno dei Lusignano, come tutte le altre dominazioni sull’isola, era transitorio. Essi l’avevano ricevuto dopo che Cipro era stata affidata per qualche tempo da Riccardo Cuor di Leone ai cavalieri Templari, e dopo che lo stesso Riccardo l’aveva sottratta ad un locale despota bizantino, Isacco Comneno; e i Bizantini erano in fondo qui eredi dei Romani; e i Romani dei sovrani dell’Egitto ellenistico; e costoro di Alessandro il Grande; e Alessandro dei Greci più antichi, che vivevano nell’isola da tempo immemorabile, diremmo da prima della mitica guerra di Troia. E le due chiesette affiancate dei cavalieri Templari e di quelli Ospitalieri di San Giovanni, pur apparentemente integre ma sconsacrate, sembrano piombate qui direttamente da un medioevo che, almeno su quest’isola, sembra non aver ancora finito di scaricare i suoi micidiali effetti.

Se la serie delle dominazioni e delle migrazioni successive dà quasi lo sgomento e la vertigine, un senso di sublime meraviglia afferra chi, seguito il litorale da Famagosta verso il nord, punteggiato anch’esso di chiese abbandonate e diroccate, risale la catena montuosa più settentrionale dell’isola e ascende infine al castello di Kantara. E’ legato sempre alle vicende di Riccardo Cuor di Leone e alla sua conquista dell’isola, e domina quasi tutto il settore turco, dando l’impressione di trovarsi al di sopra di un’immensa mappa geografica in scala naturale. A sud, oltre Famagosta, lo sguardo si spinge fino agli alti edifici spettrali di Varosha, il sobborgo greco e turistico della città che è rimasto abbandonato, disputato e irraggiungibile poiché compreso in parte all’interno della Linea Verde (che più che una linea è in effetti una fascia di territorio di larghezza variabile). A est, invece, il panorama prosegue quasi senza fine, sfiorando un orizzonte ove si intuisce tra la foschia il golfo assiro-anatolico di Alessandretta: si trova laggiù, poco oltre la penisola cipriota di Karpaz (nome dato dai turchi all’antica Carpasia), una sorta di lungo dito di terra montuosa puntato sull’Asia che i traghetti in viaggio verso la Turchia, diretti al porto di Mersin, impiegano ben quattro ore per costeggiare. E’ questa l’unica linea di navigazione che collega Cipro nord al continente anche durante l’inverno.

Puoi ben immaginarteli, i non lunghi inverni di questo territorio soggiogato da un incantesimo malefico, quando le ombre della sera si allungano su Lefkoşa, cuore politico della zona turca, che è molto più povera, silenziosa, quasi priva di luci e di vetrine e di locali aperti dopo il tramonto come invece accade nella parte sud della città, la Lefkosia greca, occidentale, ‘europea’ (quanti pochi metri dividono, qui a Cipro, l’Europa dall’Asia: appena un muretto di cemento invalicabile in fondo ad un vicolo senza uscita e perciò di solito ingombro di panni stesi al sole…). A parte alcune località costiere rinomate come Girne (Kyrenia), affollate dai villeggianti nei mesi caldi, l’intera Cipro nord è infatti relativamente poco turisticizzata, nonostante sia altrettanto suggestiva e ricca di testimonianze storiche della parte sud.

Labirinti vecchi e nuovi e le corna del Minotauro

Vi sono infatti a Cipro resti impressionanti e ben più antichi, è opportuno ricordarlo, di quelli lasciati dai Crociati, dai Bizantini e dai Lusignano. Un concentrato di questa storia plurimillenaria lo si può avere visitando, nella Lefkosia greca, il Museo Archeologico che si erige a pochi passi dalla Linea Verde. Raccoglie reperti di scavo da tutta l’isola, ovviamente risalenti per lo più a prima della divisione in due parti, visto che questa ha creato complicazioni anche alle ricerche archeologiche, soprattutto se di università straniere. Qui sono esposte le epigrafi redatte in un ‘sillabario cipriota’ che è un diretto discendente della prima scrittura europea, quella minoica. E sicuramente, prima degli stessi Micenei dovettero sbarcare a Cipro anche i Minoici. Sì, proprio quei provetti navigatori cretesi che avevano racchiuso il Minotauro nel prototipo di tutti i labirinti, quello di Cnosso: che però, contrariamente a quello in cui si involtola ora la martoriata Cipro, una via d’uscita pure ce l’aveva.

Sull’altro versante della zona turca dell’isola, quello ovest, in una valletta verdeggiante ove, a dire dei locali, non si soffre mai il caldo poiché spira un’arietta fresca e perenne, è sorprendente trovare proprio le ‘corna’ del toro sacro a Minosse. Si tratta di un piccolo altare del secondo millennio a.C. con base quadrangolare, alto due-tre metri, sovrastato dal simbolo per eccellenza del toro scolpito in pietra calcarea lavorata; è in uno spiazzo che delle donne ripuliscono ad ogni inizio di stagione dalle erbacce selvatiche per accogliere degnamente le visite di quei pochissimi turisti che ricordano ancora chi sono e da dove vengono, e che quindi vanno a cercarlo. Non vi è biglietteria, a Pigàdhes, né guida, ma capisci che tutt’intorno vi sono ulteriori rovine; per trovarle, ti può capitare di fare amicizia e una chiacchierata in turco con un vero turco cipriota, uno di quelli nati nell’isola prima della divisione. E mai potresti immaginare la sua gioia – vera, profonda – quando scopre che sai parlare anche il greco: quel greco che lui parlava con i suoi amici, i suoi compaesani fino a quel dannato 1974, e a quella separazione etnica che ha fatto sì che due popoli che vivevano mescolati – pur tra molti contrasti, è vero – nelle varie zone dell’isola si siano poi ritrovati all’interno dei due ‘recinti’ (è brutto, ma mi viene da chiamarli così), quello nord, turco, e quello sud, greco. E così ti chiede, quasi ti implora, di parlarlo, quel greco, tanto è il suo piacere di risentirlo, tanto deve parergli dolce quel suono quasi dimenticato dell’infanzia e dell’adolescenza. Evidentemente gli odi e i conflitti etnici, prima di quell’anno ma anche dopo, hanno le loro brave eccezioni.

Oggi sarebbe impresa quasi angelica riuscire a parlare della situazione cipriota senza incorrere nei rimproveri e dei risentimenti dell’una o dell’altra parte, o magari di tutt’e due: ‘Perché hai omesso di dire questo?! Perché hai scritto quest’altro?! Perché non hai deprecato abbastanza quest’altro ancora?!’ E’ un altro aspetto del labirinto senza uscita, forse quello più disperante e scoraggiante: l’incapacità diffusa, fomentata ad arte dai mestatori di sempre dell’odio e del conflitto interetnico, di intendere l’altro, di fare un passo pur minimo verso l’avversario, fosse anche il nemico, fosse anche il peggior nemico. Un rifiuto aprioristico di dialogare, o al più un dialogare solo pro forma, senza la minima sincera intenzione arrivare a un ragionevole compromesso.

Dialogo, politica, perdono

Eppure, se si vuole tirar fuori questo gioiello del Mediterraneo dallo stallo senza prospettive in cui è sprofondato, occorrerebbe rispolverare quelle tre arti in cui proprio il mondo greco è sempre stato maestro, fin dall’antichità. Mi riferisco al dialogo, alla politica coi suoi inevitabili compromessi, al perdono. I Greci tardo-micenei arrivarono in massa qui, nell’isola sacra ad Afrodite, più o meno al tempo in cui iniziava a circolare la leggenda di Troia, grazie ai versi di Omero. I più non lo ricordano o non lo dicono, ma l’Iliade si conclude non con una vendetta, ma con una scena sublime di perdono, quella tra Achille e il re di Troia Priamo. Ed è interessante trovare proprio qui, a Cipro nord, eccezionali testimonianze materiali di un mondo omerico altrove cancellato dalla storia. Presso Salamina, antica capitale dell’isola, nella zona delle ‘Tombe dei Re’ a due passi da Famagosta, sono state trovate delle sepolture principesche che hanno preservato nei millenni il fasto e gli ornamenti delle corti di Itaca, di Micene, della stessa Troia. Vedi cavalli sacrificati e sepolti durante le esequie, le cui ossa biancheggianti occhieggiano ancora sotto i vetri impolverati lasciati a loro protezione dagli archeologi; carri da guerra principeschi, con gli ornamenti a palmo di mano aperta che dovevano trascorrere, oscillando, tra le piane polverose della Messarià cipriota (la grande ‘piana di mezzo’ dell’isola); e poi troni d’avorio, e gli ‘sgabelli pei piedi’, citati dagli aedi omerici come arredi delle sale del trono.

Ovviamente, chi non ha vissuto in prima persona la tragedia cipriota può essere sempre accusato dalle sue vittime di non poter capire, di non essere sufficientemente coinvolto nei fatti per intendere appieno come la ragione o il torto si troverebbero, a dire di alcuni, tutti da una parte sola.

L’Europa incastonata in Cipro

Famagosta presso l'antico governatorato veneziano

Famagosta presso l’antico governatorato veneziano – foto F.Polacco

Eppure, le cose potrebbero andare anche diversamente. Nelle situazioni di profondo stallo, di immobilismo asfittico, una spinta utile talvolta può e deve venire dall’esterno: ricordando all’Europa e agli europei, ad esempio, che cosa significa per noi Cipro e quanta parte di noi, di quello che siamo, giace come incastonata in quest’isola. Occorrono idee nuove, ideali nuovi: o forse solo nuove generazioni, capaci non certo di dimenticare, ma almeno di iniziare a comprendere. Ma occorre soprattutto una nuova generazione lungimirante di leader europei che non si lasci impastoiare da faziosità ideologiche e pregiudizi inveterati, dal fanatismo oscurantista di chi punta al ‘tanto peggio tanto meglio’ (c’è anche questo, purtroppo). La storia di quest’isola è lo specchio dell’Europa: un continente che può salvarsi e sopravvivere alla spietata concorrenza globale solo se saprà fare della conoscenza del passato non più un pretesto per rimanerne ancora una volta vittima, in una coazione a ripeterne orrori ed errori che non ci porterà da nessuna parte, ma uno strumento per capire dove e come, ogni volta, si è ottusamente e pervicacemente sbagliato, dividendosi e combattendosi senza grande costrutto.

La realtà dei luoghi e dei paesaggi della Cipro di oggi, anche della sua dimenticata e isolata parte nord, è più bella di quella immaginata da ogni nostalgia di parte. Anche noi italiani, in fondo, siamo stati colonizzatori e martiri in quest’isola. Pure noi abbiamo i nostri ‘martiri ciprioti’: si pensi al povero generale veneziano Marcantonio Bragadin scuoiato vivo dal vincitore ottomano, quel Lala Mustafà Pascià cui è oggi dedicata la cattedrale, trasformata in moschea, di Famagosta.

Se l’Europa si è incagliata a Cipro, insomma, ciò è davvero un affare di tutti. Dimenticare Cipro, anche questa sua parte nord perduta, vuol dire dimenticare la rotta verso cui il nostro continente deve muoversi e ripartire, se intende in qualche modo salvarsi.

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