Bekim Fehmiu: le piume e il sangue
In questi giorni a Firenze una mostra dedicata all’Ulisse venuto dai Balcani: Bekim Fehmiu. Pubblichiamo il discorso tenuto all’inaugurazione da Dejan Atanackovic, docente e artista che si divide tra Firenze e Belgrado
Non ho meritato l’invito per dare un mio contributo all’inaugurazione di una mostra dedicata a Bekim Fehmiu per la conoscenza del suo lavoro. Al contrario, per me la sua è un’immagine un po’ leggendaria, un volto d’infanzia, un simbolo “pop” della mia adolescenza. E in effetti, di lui si sapeva poco.
Si sapeva che era da qualche parte nel mondo a fare una carriera internazionale e si circondava, come in un sogno, di grandi nomi come John Huston, Ava Gardner, Dirk Bogard… Un ricordo che in molti condividiamo dai tempi in cui la TV era lenta, e anche molto più seria, e si parlava di cinema facendo vedere interi cicli di un regista o di un attore e spesso molti spezzoni di film più o meno noti. Spesso i film si conoscevano prima dagli spezzoni (non dai trailer pubblicitari, come oggi) e solo poi si vedevano interi.
Una scena che ricordo di aver visto molte volte in TV, e molto prima di vedere il film per intero, è stata una scena tratta da “Skupljači perja” [Ho visto anche degli zingari felici, N.d.R.], di Saša Petrović. In quella scena un tragico, sofferente Bekim Fehmiu si abbandona a una tristezza infinita sbattendo le mani e la fronte contro il vetro di bicchieri rotti, rimanendo così ferito e sanguinante, e tutto il film poi gioca sull’immagine del sangue, fortemente contrastata da quella delle piume. Due materie: una di un peso immenso, l’altra di una leggerezza onirica.
Le piume macchiate di sangue sono una contraddizione per eccellenza, una contraddizione che in tutta la natura non si conferma con tale accuratezza come nella natura umana, nelle sue assurde e pericolose variazioni. Perché l’uomo è solo in parte un essere naturale, il suo è ormai un destino di strisciare nei soffocanti labirinti delle sue costruzioni, dei suoi prodotti e delle sue numerose sagome. L’uomo è un prodotto, e da quel uomo-prodotto, forse, in un momento della sua vita, Bekim Fehmiu aveva deciso di allontanarsi.
Mi ricordo il suo sguardo, più che altro, uno sguardo forte e triste, che a noi di quei tempi toglieva qualunque senso di una distinzione nazionale o etnica. Era lui, insieme ad altri grandi – Rade Šerbedžija, Ljuba Tadić, Radko Polič, Relja Bašić – a recitare sulla scena di un teatro che chiamavamo Jugoslavia, che facilmente si adattava dall’eroico all’erotico, dall’ideologico al comico. Era chiaro, lo dicevano tutti, che prima o poi sarebbe toccato alla tragedia.
In casa mia si diceva sempre che la guerra ci sarebbe stata. Ma per me erano queste figure, gli attori, i musicisti jugoslavi, la cultura “alta” e il “pop” degli anni ‘80 che davano il senso di una assoluta irrealizzabilità di una tale profezia. E pure la guerra c’è stata. Diceva Fehmiu nei suoi scritti: “Qui non si conclude la vita senza almeno due o tre guerre." Non so se quelle degli anni ‘90 saranno sufficienti per la mia vita. Sono state di fila, una dopo l’altra: Slovenia, Croazia, Bosnia, Kosovo, e l’unica cosa che avevano di buono è che noi le abbiamo perse tutte. Non so come avrei sopportato una vittoria.
Alla fine degli anni novanta, chissà, avrei anche potuto incontrare Bekim Fehmiu, per caso. Ho sentito che abitava in una zona vicino a casa mia. Mi aggiravo negli spazi del Centro per la decontaminazione culturale, con il quale so che aveva contatti, uno di quei posti dove alcuni belgradesi andavano per non impazzire, oppure per impazzire insieme. Ma non l’ho mai incontrato.
In realtà, come allora potei osservare, anche nelle guerre gli intellettuali e gli artisti jugoslavi hanno mantenuto i contatti: esisteva una rete, forse fin troppo sottile, di normalità. La normalità – quella parola chiave, all’improvviso diventata preziosa. Ma non era sufficiente per viverla essere un cosiddetto intellettuale, né un artista. Quanti di loro, ridotti alle piccolezze e agli interessi privati si sono macchiati di sangue e di merda.
Anche oggi, la mappa della normalità esiste, un intreccio fra le città della Jugoslavia di una volta, ma rimane sempre poco visibile, e poco comprensibile al cittadino comune.
Nella Belgrado degli anni ’90 sono cambiati i linguaggi, i volti, gli sguardi, persino i corpi. Non si poteva più, e così se ne andavano via uno scrittore, un attore, un musicista, un amico, uno sconosciuto. Un po’ alla volta, quella Belgrado ci è stata rubata. Un provincialismo ambizioso con denti affilati, una periferia che invade la città, e la città stessa, infine, diventa periferia, un’enorme estensione delle abusività, della mancanza di regole.
La normalità poi è sembrata ritornare con la caduta di Milošević. All’improvviso, in quella TV nel frattempo diventata molto veloce e molto idiota, ora apparivano volti conosciuti, amici, persone che dicevano cose che avevano senso. Ma è durata poco.
Forse Fehmiu ha riconosciuto quell’anno, il 2001 come l’anno di un nuovo inizio, e per quella ragione aveva deciso di pubblicare la sua, scritta da tempo, autobiografia. Quando glielo chiesero: Perché ora? Rispose che nessuno effettivamente sa perché nasce, o perché nasce in quel preciso luogo. Si nasce e basta.
Non parlava con molti giornalisti, e quando parlava recitava spesso la poesia di Dušan Vasiljev, “L’uomo canta dopo la guerra”. Un testo amaro che un bravo attore pronuncia abbandonato alla vergogna, all’impotenza, a un autentico stupore di sé, della propria insopportabile caduta. Vasiljev aveva appena 24 anni quando è morto. I suoi anni accompagnavano i primi 24 anni del XX secolo, del quale Fehmiu, e noi con lui, abbiamo osservato l’assurda fine. Un secolo di sangue e di piume.
In quel suo libro, dal titolo “Lo splendente e l’orribile”, Fehmiu ha parlato anche di un passato jugoslavo, poco rose e fiori alla fine dei conti, giusto per togliere qualunque illusione sul fatto che ci fosse mai stato un tempo privo di pregiudizi. Non lo era neppure quel tempo prima del disastro che pare sempre il più esemplare e meno criticato.
Si ricordava amaramente, malgrado il successo e la popolarità, delle pressioni politiche che gli tolsero i premi più prestigiosi. Eppure lui ha vissuto da jugoslavo, credo da jugoslavo piuttosto convinto, sapendo che ogni teatro ha il suo retroscena, e davanti al pubblico incantato si svolgono sempre almeno due spettacoli, di cui solo uno è visibile. I due spettacoli, alla fine possono variare molto di qualità, ma la cosa che alla fine rimane importante è recitare sempre in quello migliore. Sono quelli della scena migliore che ci fanno ricordare la Jugoslavia.
Infine, già che ci sono, vorrei dire anche questo. Non bisogna credervi quando si sente dire che le guerre della Jugoslavia le hanno fatte i popoli, le etnie, tanto meno le religioni o ideologie. Non era così. E non bisogna nemmeno mistificare quei conflitti collegando il tutto con gli interessi o disinteressi delle potenze mondiali. Non era quello, è tutto molto più – banalmente più – semplice. Era una vendetta delle persone senza talento. Di quelli del retroscena. Di quelli che non sapevano fare altro tranne nascondersi. Che vedevano davanti a sé una città, una Sarajevo, una Dubrovnik, una Vukovar, una Mostar, e quelle città islamiche, austro-ungariche, veneziane, erano per loro la prova terribile che il mondo, nella sua profonda sottigliezza e fragilità, sarebbe rimasto loro incomprensibile per sempre. E ascoltavano dal buio delle quinte l’applauso smorzato dedicato agli altri, con l’odio nel sangue.
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