I giorni freddi di Novi Sad
Esce in italiano, per i tipi di ADV Publishing House, Novi Sad: i giorni freddi, con estratti da Il libro di Blam di Aleksandar Tišma e le pagine inedite di Salmo 44, di Danilo Kiš . Il racconto della strage degli ebrei della Vojvodina, la riflessione su Europa, nazionalismi e identità. Questa sera il libro verrà presentato a Rovereto presso la locale sede della Fondazione Caritro
La ragione di questo libro, sta nelle pagine di letteratura che contiene. Danilo Kiš scrive a 25 anni Psalm 44 (Salmo 44) e le pagine – inedite in italiano – pubblicate ne I giorni freddi di Novi Sad, da quel testo sono tratte. La scrittura procede secondo una tecnica filmica, un montaggio per flash-back e sovrapposizioni temporali. La pagina è costruita con un andamento a singhiozzo, a empiti emotivi sino a portare il lettore sul teatro d’inverno di una città danubiana – Novi Sad – dove è in atto una strage, sulle rive del grande fiume, sullo Strand, la spiaggia fluviale delle ferie d’agosto degli abitanti.
Strutture della balneazione estiva – cabine, trampolini – terra degli argini, neve e ghiacci, acque gelide che affiorano tra i lastroni, si mescolano a membra umane, cumuli di stracci, montagne di vestiti come in una installazione di Boltanski (“poi fu la volta della veste azzurro chiara di popeline, quindi sullo stesso mucchio si posarono lievemente le calze…”), cadaveri fatti a pezzi che tutto maculano di resti e sangue.
Salmo 44
Le pagine di Salmo 44, prima di arrivare al gennaio 1942, ai ‘giorni freddi’, ospitano il racconto della bambina Marija – alter ego dello scrittore – in cui si mette a fuoco il percorso di menzogne e persecuzioni consumate sulle comunità ebraiche, preambolo dei pogrom, delle deportazioni e del genocidio. Il padre di Kiš, Eduard, ispettore capo delle ferrovie statali, è ebreo ungherese originario di Kerkabarabaš. La bimbetta (ungherese, cattolica) Ilona accusa il padre e gli avi di Marija di «avere crocifisso il Cristo o almeno di avere porto i chiodi». Il tram è für juden verboten. «Durante la guerra in Ungheria, quando ero bambino, ho vissuto nell’ossessione del peccato perché ero perseguitato da altri bambini e da quelli che mi circondavano. Vivevo nell’incubo e nella paura […] Non capivo perché succedesse tutto ciò e il mondo mi diceva perché sono ebreo. Vivevo tutto come una specie di punizione, specialmente perché all’epoca a scuola seguivo le lezioni di catechismo e proprio per questo ero allora pronto ad accettare l’idea della colpa e del peccato originario» (Kiš, post-fazione a Mansarda).
Il libro di Blam
Tanto densa è la pagina in Kiš, tanto in Tišma la scrittura è nitida. Le sue pagine su Novi Sad sono tratte da Knijga o Blamu (Libro di Blam) – quasi trasparente. Entrambi i narratori vengono partoriti dalle madri sulle linee contese del confine ungherese – l’uno nasce a Subotica nel 1935, l’altro a dieci chilometri, nel villaggio di Horgoš, nel 1924. Sono a Novi Sad, nei giorni della razzia, testimoni del rastrellamento e del genocidio.
Kiš, bambino, vede il padre lasciare la casa tra i gendarmi – «sui fucili brillano le baionette…il fucile pronto in posizione di sparo. Il padre mostra al gendarme i documenti, il gendarme li restituisce, il padre prende dall’attaccapanni il cappotto e il cappello ed esce con loro». L’ispettore Eduard che esce dalla scena kantoriana, questa volta tornerà. Non tornerà due anni dopo, quando lui e gran parte della famiglia Kiš, arrestati a Kerkabarabaš dove pensava di avere trovato rifugio, vengono deportati ad Auschwitz.
Tišma, ha 17 anni, è nella fila dei razziati: «Tenevo, insieme a mio padre e mia madre, le mani in alto davanti a una pattuglia di soldati ungheresi che ci urlavano in faccia che nascondevamo dei fucili in casa».
Dissidente, senza patria
L’uno figlio di padre ebreo-ungherese, l’altro di madre ebrea-ungherese. Ebrei, dunque? Protagonisti di una letteratura ebraica? Danilo Kiš risponde: «Sono uno scrittore bastardo arrivato dal nulla…Sono jugoslavo…Forse uno scrittore dell’Europa centrale se ciò significa mai qualche cosa. Ovunque ero un dissidente e un senza patria. Sono ebreo nella misura tale in cui gli altri mi considerano. Sono vissuto in una famiglia in cui la religione ebraica praticamente non esisteva…».«Ciò che io descrivo è un mondo scomparso: sono scomparsi gli ebrei dell’Europa centrale, così come è scomparso mio padre. Anche il paesaggio in cui vivevano i contadini ungheresi e il loro stile di vita sono ugualmente scomparsi sotto i colpi del socialismo reale». [Danilo Kiš: l’enigma della letteratura, di Anita Vuco, università degli Studi ‘La Sapienza’, Roma, dicembre 2006].
Tišma, incontrato dopo il 1999, davanti ai ponti distrutti dagli aerei Nato sul Danubio, nonostante la catastrofe jugoslava, si definisce “jugoslavo” e: «Mia madre era sì una ebrea ungherese, ma mio padre era serbo della frontiera militare con l’impero turco. Sono ebreo, ma anche serbo e infine ungherese. Poi non sono niente di tutto questo, perché la mia origine mista, il fatto di essere meticcio, mi impedisce di sentirmi parte – senza riserve e senza sospetti – di una comunità…La Novi Sad che ho descritto nelle mie opere, è la Novi Sad di metà secolo, della mia giovinezza. C’era una popolazione mista: serbi, ungheresi, tedeschi, slovacchi, rumeni, ruteni, ebrei, armeni, e tutti lanciavano sguardi languidi e nostalgici verso i diversi luoghi di origine ai quali sentivano di appartenere, senza veramente appartenere a nessuno d’essi».
Due scrittori che rigettano il sigillo comunitario e, in modi affatto diversi, scrivono e abitano una letteratura liberata.
Solo questa letteratura liberata dà, nello stesso tempo, le pagine alte di un’area culturale, per quanto informale. Solo questa letteratura liberata e antinazionalista – «il nazionalismo è un pugnale puntato alla schiena del popolo», Danilo Kiš – aiuta a capire, scoprire e ripercorrere le vie, gli itinerari, i percorsi simultanei e intrecciati delle vite reali, la consistenza profonda di quel coacervo di vicende che chiamiamo Storia.
Dentro al fascismo
«Dobbiamo odiare della nostra storia ciò che deve essere odiato. L’Ungheria non diventerà mai un paese veramente progredito e civile, fino a che non si renderà consapevole delle contraddizioni della storia ungherese e non sentirà ripugnanza per ciò che in essa è detestabile. Esiste, infatti, una concezione errata, che non è rappresentata solo da alcuni burocrati, ma anche da buoni scrittori, i quali ritengono che l’Ungheria sia finita nel fascismo come Pilato nel Credo. Ma le cose non stanno così» (Lukács, in Cultura e potere).
Nessun paese è scivolato nel fascismo. Quando in Germania, Italia e Spagna, si stabilizzano i regimi nazionalfascisti, l’opzione di uscita dalla crisi attraverso il progetto politico e sociale del nazifascismo è, in Europa, generale. Non c’è paese che non sia attraversato dal ‘sogno nazionale corporativo’. Quando le truppe tedesche entrano in Zagabria nell’aprile del 1941, una popolazione festante le accoglie. Subito insediato il governo ustaša (lo Stato Croato Indipendente, ‘Nezavisna Država Hrvatska’, di Ante Pavelić) apre la caccia agli ebrei. Belgrado viene, nell’aprile, bombardata. L’adesione all’Asse, che la dinastia dei Karađorđević voleva firmare, viene bloccata e respinta dall’esercito e dalle manifestazioni di piazza (“Bolje rat, nego pakt”) e comincia la resistenza. Il governo di Miklós Horthy in Ungheria, di Ante Pavelić in Croazia o la repubblica di Vichy di Henri-Philippe Pétain, come il processo di Anschluss per l’Austria, non sono finzioni giuridiche, ma concreti passaggi, consapevoli scelte di progetto, maturate nella crisi. Dalla crisi si esce, in Europa, con un progetto elitario e piramidale. Al vertice della piramide il gruppo sociale e proprietario che gestisce una macchina di dominio, impostata su una ingegneria sociale per fasce contrapposte di subordinati. L’invenzione e la creatività del capitale ‘nel secolo breve’ è formidabile, tanto semplice quanto efficace. Si contrappongano gli sfruttati per dispositivi interni. Questi dispositivi si basano sulle diversità culturali, di costume, di grafia nella comunicazione, di chiesa e religione. Le mitologie dell’inimicizia vengono aggiornate e messe in campo, calate sui volti le maschere della menzogna ‘etnica’. Niente è più immateriale e infondato, e niente è più efficace. Nella crisi, nella lunga penuria di massa entre deux guerres, le maglie delle solidarietà e dei vincoli associativi degli sfruttati vengono infrante con vari sistemi. Repressione, crumiri, uso di squadre paramilitari, carcere, tribunali di guerra. Ma l’arma di gran lunga più insidiosa – quella che si ripresenta ancora oggi – è quella dell’inimicizia culturale, della costruzione per ellissi di una società degli oppressi, a parabole contrapposte, a sezioni piramidali sovrapposte, geometria alla fine della quale, nell’ultimo girone ci sono – ne erano convinti il Vaticano, le plebi devote, i contadini e i servi della gleba delle campagne polacche, i cristiani d’Europa – gli ebrei d’Europa. Una piccola borghesia mercantile, il frammentato piccolo artigianato, piccole comunità culturali musicanti dello shtetl, un proletariato diffuso. La grande pianura del Danubio è stata spogliata della presenza e della cultura ebraica. Nella bella Subotica, splendente di jugendstil mittleuropeo, la grande Sinagoga con le decorazioni in cotto ha i gradini d’entrata nascosti dall’erba alta che vi è cresciuta. Sinagoghe d’antan oggi vuote. Nei prati intorno, le pietre-memoriali dell’Olocausto, poche brevi annotazioni per migliaia di abitanti di cultura ebraica deportati e eliminati nei campi di lavoro-sterminio. Si è davvero soli, allora – rottame e monade – sulla curva della Terra.
La deportazione è sì il viaggio verso il Grande Buco Nero che cresce – fine della Storia, fine del rapporto con dio – ma, nello stesso tempo, è il viaggio verso la fabbrica perfetta, la nuda produzione di valore. Il lager è il luogo perfetto del lavoro subordinato, disciplinati gli oppressi, ottimale il rapporto tra costo della riproduzione della forza lavoro e produttività. Non vi è nessuna ironia nel Verbo d’entrata “Arbeit macht frei”. È ciò che ripete il capitale oggi nella crisi: lavorare di più, a meno. Là l’abbondanza senza limiti di una forza lavoro razziata, ridotta in schiavitù, a costi di rigenerazione vicini allo zero, rendeva lecito e ragionevole il suo sterminio. La camera a gas è il luogo terminale, l’ultima stazione, della parabola di quella forza-lavoro.
A Novi Sad, nel gennaio del 1942, la strage è per tutti: serbi, ebrei, slovacchi, croati e prima di tutto resistenti. È una strage che si scatena a funzione repressiva per alcuni episodi di resistenza. Gli ordini di Budapest sono formulati così:«Pulizia etnica e politica, ripulire Novi Sad da rifiuti e spazzatura». Le motivazioni degli occupanti sono elitarie e di primazia razziale. Il rovesciamento dell’inimicizia intercomunitaria è il lavoro politico e culturale ampio, articolato, felice, del pensiero e delle pratiche dell’Avnoj, fronte della resistenza che va dai cattolici ai socialdemocratici, dai comunisti jugoslavi ai bolscevichi internazionalisti. Nella fondazione a Jaice della Federazione Jugoslava – la carta costitutiva viene approvata il 29 novembre 1943 – si afferma la piena uguaglianza dei popoli della penisola balcanica, patria di tutti.