La cravatta di zio Stipo

Il 27 gennaio la giornata della memoria. Pubblichiamo il ricordo della scomparsa degli ebrei sarajevesi attraverso le pagine del racconto di Ivo Andrić, Buffet Titanik

25/01/2013, Božidar Stanišić -

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Sarajevo, la torre dell'orologio (Shutterstock )

Zio Stipo era un amico sarajevese di mio padre. Ogni volta che veniva a Visoko a trovare sua sorella, passava anche da noi. Io, che allora ero molto piccolo, trovavo molto interessante la sua cravatta a farfalla, inconsueta in quella piccola località, e soprattutto il modo, per me molto buffo, in cui talvolta digrignava la sua dentiera. Quei denti producevano uno strano suono, come uno stridio… Morì in tarda età, alla fine degli anni ottanta, al tempo in cui si annunciava la disgregazione della Jugoslavia e le nuvole tempestose della storia si accumulavano sopra la Bosnia.

Mi trovavo per caso in visita ai miei proprio il giorno in cui mio padre era tornato dal funerale di Stipo. E così, mi ricordai anche del suo farfallino e dello stridio della sua dentiera. Le informazioni di mio padre furono brevi. Stipo era stato un idraulico; cantava in un coro di Sarajevo. La cravatta a farfalla gli piaceva, così come gli abiti scuri da cerimonia e le camicie bianche, perfettamente stirate. Era rimasto senza denti in un giorno di prima estate del 1941, nell’ingresso dell’edificio di Marijin Dvor, a Sarajevo, dove abitava allora. Lo bastonarono gli ustascia che, proprio mentre lui entrava nel palazzo, stavano portando fuori il loro bottino, tutti i beni razziati negli appartamenti di ebrei e di serbi.

Croato e cattolico, ma non come voi

Alle sue proteste, gli ustascia rimasero allibiti. Ancora di più quando, alla loro domanda se fosse croato e cattolico, lui rispose di sì, ma non come loro. Lo picchiarono a sangue, lo calpestarono con i loro stivaloni e lo colpirono con i calci dei fucili, tanto che rimase senza un solo dente. Sfuggì alla morte per miracolo, fu salvato da sua sorella che si era buttata disperatamente sopra il suo corpo martoriato.

In quello stesso cruento 1941, durante il quale migliaia di sefarditi e ashkenaziti sarajevesi, assieme a serbi, rom e comunisti furono vittime dei pogrom nel nuovo Stato Indipendente di Croazia, satellite del Terzo Reich, inizia il racconto di Ivo Andrić Buffet Titanik1, la storia di Mento Papo, un misero oste sefardita, e di Stjepan Ković, il suo assassino.

Buffet Titanik ha tutte le caratteristiche dello stile di Andrić e della sua infallibile percezione della realtà. Tuttavia, sembra qui che il peso della dimensione semantica spinga in secondo piano tutto ciò che costituisce la pura componente narrativa. Dall’immagine introduttiva di questo racconto, con una lingua vicina alla testimonianza documentaria su un periodo buio, Andrić ci indirizza verso una delle zone periferiche della Sarajevo di allora. E qui si esprime la sua innata tendenza ai toponimi fortemente denotati e alla precisa situazione dell’azione.

Arriviamo così a un piccolo buffet dal nome curioso, in un ambiente degradato della periferia urbana, e a Mento Papo, il suo proprietario, più noto con il nomignolo di Hercika che, come il narratore ci dimostra, è ben lontano da ogni personaggio reale o letterario della comunità sefardita sarajevese.

Hercika

Dedito all’alcol e al gioco fin da giovane, Hercika viene rifiutato dalla sua comunità, per la quale è un uomo perduto e, come lo scrittore sottolinea, una pecora rognosa, che vive la sua vita fra piccole canaglie di periferia e con la sua compagna Agata, con la quale è costantemente in lite. Quando, nella primavera del 1941, viene proclamato lo Stato Indipendente di Croazia e inizia l’ascesa scellerata degli ustascia, l’unica proprietà di Hercika rimane la sua miserabile bettola. Lui non ha né oro, né soldi, né i preziosi vagheggiati dagli ustascia. Estraniato dalla sua comunità per il suo modo di vivere, è lontano sia dai suoi confratelli che da ogni stereotipo che i nazisti e i loro fiancheggiatori in Europa hanno sugli ebrei.

Prima che alla porta del Titanik bussi il futuro assassino del proprietario di quella squallida osteria, Andrić ci guida nei labirinti del t[]e di Hercika, provocato anche dal presagio di quel sabato nero che, nelle insulse frecciate di certi avventori, Hitler aveva progettato per i jehudije (giudei). Del Führer lui sa poco, anzi nulla, tranne una confusa idea del male che, messo in moto dalla volontà del pretendente al dominio sul mondo intero, sta per travolgere anche lui. Si difende dalle maligne battute in osteria dicendo che lui è il capitano del grande trans-at-lant-ico Titanic.

Nel viaggio attraverso il labirinto del t[]e e dell’angoscia di Hercika di fronte a quel male grande e inimmaginabile, Andrić isola il suo personaggio inserendo nel racconto la viva storia, e riproducendo dettagliatamente l’atmosfera che in quei mesi primaverili si creò anche nella periferia di Sarajevo.

Hercika viene dapprima abbandonato da Agata, poi da tutti gli altri. Al Titanik passerà solo il facchino Nail, uno dei regolari avventori musulmani, atterriti dalla violenza del male che si sta avvicinando anche al miserabile oste della via Mutevelića. Il balbettio di Nail, che cerca le parole giuste, trova una sola espressione compiuta, in quel momento la più vicina a quel piccolo uomo: tremenda politica2 – dice Nail mentre beve il suo ultimo bicchierino di grappa al Titanik.

Nei giorni di lavoro forzato, quei tempi difficili riuniranno anche ciò che fino allora era stato inconciliabile – Hercika, la pecora rognosa, e la comunità che lo aveva bandito. Ma è solo una riunione apparente nel dramma della comune sciagura, durante il lavoro di sgombero delle macerie causate dai bombardamenti: lo scambio di qualche saluto, il desiderio di Hercika che qualcuno gli spieghi che cosa sta succedendo, il silenzio3 degli altri – e questo è tutto. Anche in quella circostanza lui rimane un altro, fra altri che sono separati e diversi.

L’odio di Stjepan

Prima di quel bussare alla porta del Titanik, abbiamo nel racconto un altro labirinto, parallelo a quello di Hercika e inserito nella storia della vita di Stjepan Ković. A ogni episodio di quella vita Andrić conferisce una particolare risonanza e ciascuno di essi, sembra, ci guida verso la questione su dove nasca veramente il male e se questo, in assoluto, esista al di fuori dell’uomo.

Andrić, come nel caso dei personaggi più sconvolgenti delle sue opere con questo tema, non separa le radici del male nella psiche dalle manifestazioni della realtà nella quale essa si forma. Così Stjepan Ković, che ha vissuto tutte le sue maschere come fuga e rifugio da sé e dagli altri, vive allo stesso modo anche l’ultima maschera, quella di ustascia. E in quest’ultima cerca di avvicinarsi al suo vero volto, che non era in grado di rassegnarsi a un modo di vivere modesto e mediocre. Avendo trascorso la sua vita insicuro di tutto, tranne che della sua brama di diventare un giorno qualcuno e di far in modo che gli altri riconoscessero la sua esistenza, quell’uomo tormentato e tormentoso fin dall’infanzia, quando si rende conto che a tanti individui, fino a poco prima anonimi, l’uniforme ustascia conferisce un’importanza che prima non avevano, decide di indossarla anche lui. In conformità con il nuovo abito, Stjepan Ković si sforza di trovare dei motivi propri per l’odio verso gli ebrei. Alla fine richiama alla memoria il racconto della madre che andava a frustare Barabba4, l’immaginario ebreo maledetto colpevole per la morte di Gesù Cristo in quella costruzione clerical populistica. Una forza strana, dice Andrić, gli spalanca davanti lontani orizzonti dimenticati… E così ricorda anche la storia della zia sul disonesto commerciante ebreo. E questo è tutto. Ma non riesce comunque a foggiare la maschera dell’odio e a indossarla mentre si avvicina al Titanik. Lo tormenta di più la maschera della risolutezza, della spietatezza e del potere, che non si incolla assolutamente al suo viso.

Hercika, l’ebreo senza oro e senza preziosi, vittima predestinata in un invisibile gioco d’azzardo con l’attimo della storia in movimento, nella semplicità della sua scelta pare non aver avuto il tempo di approntare una maschera per sé, per potere, sotto la sua protezione, tentare di difendersi dal male almeno per quel giorno. Quando quel sabato nero si avvera (è sabato, per ironia della sorte, e lui non è neppure un ebreo praticante), l’unica sua arma di difesa diventa la lingua di cui si serve e il liquore che offre a Ković nel tentativo di rimandare la fine ineluttabile. In quel momento il suo eloquio, messo in moto dalla paura, si trasforma in un gioco con l’assassino e con la morte stessa. Ma il gioco e il ricamo di parole non saranno d’aiuto per il proprietario del Titanik.

La scomparsa di una comunità

Nella metafora della scomparsa dell’intera comunità ebraica di una città, per l’Hercika di Andrić non ci sarà un altro mattino. Non ci sarà neppure l’oro per il suo uccisore, indotto all’assassinio proprio dal delirio della rabbia per non aver realizzato se stesso. In quel momento finalmente si risveglia l’odio verso Hercika, ma solo come verso un essere che non è in grado di aiutarlo a sentirsi davvero qualcuno e qualcosa. Lo sparo nell’angolo dove il miserabile ebreo agita le mani, saltella e ballonzola, come se corresse a zig zag fra le saette, non rappresenta un punto fermo per tutti i paradossi di questo incontro nell’ambiente claustrofobico del Titanik. Da quel punto, infatti, germoglia e cresce un enorme interrogativo. Sul male, sulle radici e i percorsi dello sviluppo della mostruosità nell’essere umano, sulle ragioni della brama di potere delle quali nessuna, in effetti, è al di fuori della realtà e della storia di qualsiasi epoca, e neppure di questa, al centro dell’interesse di Andrić.

Danilo Kiš riteneva che fosse impossibile immaginare sei milioni di ebrei vittime dell’Olocausto. Ma è possibile immaginarne uno, colui che si chiamava Eduard Kiš, suo padre, nelle sue opere chiamato Eduard Sam. Anche Andrić, a suo modo, implicitamente sottintende la stessa cosa in Buffet Titanik che, nel contesto delle osservazioni di Kiš sulla vita, la letteratura e la storia, potrebbe essere il racconto che libera un avvenimento dall’anonimità e gli conferisce una dimensione universale. Come sarebbe possibile rappresentare la morte di più di novemila ebrei sarajevesi5? La scelta di Andrić è il povero Hercika. Il nome di questa vittima di Stjepan Ković, il nome reale, che ci è ignoto, è inciso sul Monumento alle vittime del fascismo di Vrace6.

L’altro, quello immaginario, è inciso per sempre in questo racconto. L’autore, nel periodo del suo ultimo incarico diplomatico a Berlino7, ebbe occasione di incontrare il maestro del male, Adolf Hitler, così come nei primi anni venti, all’inizio della sua carriera diplomatica, presso la Santa Sede, era stato testimone a Roma della nascita del fascismo. Su questo lasciò degli scritti che lo annoverano fra i rari intellettuali che in Europa, fin dall’inizio, non solo intuirono, ma anche stabilirono la vera natura di quella peste umana.

 



 1 Dopo le dimissioni dalla carica di ambasciatore del Regno di Jugoslavia a Berlino e il suo ritorno nella Belgrado occupata, dalla primavera del 1941 fino alla liberazione, Andrić si ritirò completamente dalla vita pubblica e culturale. In un piccolo appartamento lavorò ai suoi tre romanzi: Il ponte sulla Drina, La cronaca di Travnik e La signorina. Tuttavia, seguì attentamente le manifestazioni della vita in città e nel resto del paese smembrato da parte dei satelliti del Terzo Reich. Ne sono testimonianza alcuni suoi racconti, fra i quali per intensità narrativa si distinguono Buffet Titanik e Zeko, nonché diversi scritti su scrittori e intellettuali ebrei e sulle sofferenze dei sefarditi e degli ashkenaziti in Bosnia durante la guerra



 2 Sorprese loro stesse all’inizio dalla violenza del male che colpiva gli ebrei, i serbi, i rom e i comunisti di tutte le etnie, le comunità islamiche delle maggiori città della Bosnia Erzegovina (Sarajevo, Mostar, Tuzla, Prijedor, Bijeljina…) nel 1941 attraverso i loro capi pubblicarono proteste scritte contro la politica assassina e predatoria dello Stato Indipendente Croato e condannarono la partecipazione di parte della popolazione musulmana al movimento ustascia, per il quale non diedero altra definizione che ‘canaglie e delinquenti’. Pavelić e gli altri criminali del regime ustascia considerarono tali risoluzioni ‘una coltellata alla schiena’



 3 Quel silenzio manca nell’ottimo film TV del 1979 del regista Emir Kusturica (1954), basato su questo racconto di Andrić (premio per la miglior regia al Festival nazionale della Televisione, Portoroz 1980). Nell’interpretazione di Jan Beran e Emir Kusturica, sceneggiatori di questo film, Hercika dialoga con un rabbino di Sarajevo, e alla fine l’oste di Andrić rimane senza una risposta chiara sul male nel mondo e nell’individuo. Non è l’unica libertà che gli sceneggiatori hanno preso nell’interpretazione di questo racconto. Ce ne sono anche alcune che contribuiscono alla coesione dell’azione del film. Così, per esempio, l’ambiente di Banja Luka in cui è cresciuto Stjepan Ković è sostituito da quello di Sarajevo e Agata, la compagna di Hercika, diventa l’amante anche del futuro ustascia



 4 Con questo breve frammento Andrić ci indirizza anche verso la problematica del millenario rapporto dei cristiani cattolici (ma anche di quelli ortodossi nel mosaico balcanico di popoli e fedi) e della loro Chiesa nei confronti degli ebrei, in Bosnia e in tutta l’Europa. In Andrić non ci sono dettagli cosiddetti secondari, e così anche questo frammento stimola il lettore all’analisi di tutta la lunga storia del trattamento degli ebrei da parte dei cristiani. Anche in Bosnia, come in tutto il mondo cattolico, fino all’avvento di papa Giovanni XXIII e alle risoluzioni dell’ultimo Concilio, le parole Oremus et pro perfidis Judaeis erano parte integrante della preghiera del Venerdì Santo



 5 Nel 1941, uno ogni quattro abitanti del nucleo urbano di Sarajevo era ebreo. In maggioranza erano sefarditi, insediatisi in città da alcuni secoli, avendo trovato rifugio sotto la protezione dell’Impero Ottomano dopo la cacciata dalla penisola iberica alla fine del XV secolo. Gli ashkenaziti arrivarono in Bosnia dopo l’occupazione austroungarica nel 1878.



 6 Un quartiere di Sarajevo che, durante l’assedio serbo 1992-95 alla città, soffrì in modo particolare. Il Monumento fu danneggiato, come l’antico cimitero ebraico, sul quale Andrić lasciò un’eccezionale testimonianza letteraria.



 7 Andrić, nuovo ambasciatore del Regno di Jugoslavia, arrivò a Berlino nella primavera del 1939, ossia alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Fu ricevuto ufficialmente da Hitler il 19 aprile 1939. Nel corso del suo relativamente breve servizio nella capitale del Terzo Reich, Andrić ebbe modo di verificare la mostruosità dell’attuazione nazista del nuovo ordine europeo. Nell’autunno 1939 investì tutti i suoi sforzi diplomatici e umani per consentire la liberazione di 183 docenti dell’Università Jagellonica di Cracovia, che la Gestapo aveva arrestato con l’intenzione di annientare l’élite intellettuale polacca. In quell’impresa ebbe il sostegno dell’ambasciatore italiano e di quello turco. Il tentativo ebbe un successo limitato: nel febbraio1940 i nazisti liberarono i docenti con più di quarant’anni, in tutto 101, e deportarono gli altri nei campi di concentramento.

 

Questa pubblicazione è stata prodotta con il contributo dell’Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea. Vai alla pagina del progetto Racconta l’Europa all’Europa

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