Sarajevo Film Festival, vince la Georgia
Per la prima volta a vincere il rinomato festival del cinema sarajevese è stata la Georgia con “In Bloom” di Nana Ekvtimishvili e Simon Groß. Il croato-bosniaco “A Stranger”, di Bobo Jelcić, ha avuto il premio speciale della giuria e quello di miglior attore a Bogdan Diklić
La Georgia vince per la prima volta al Sarajevo Film Festival . Il premio Heart of Sarajevo è andato a “In Bloom” di Nana Ekvtimishvili e Simon Groß, una delle opere prime più interessanti in circolazione, già rivelazione dell’ultimo Festival di Berlino.
Le due giovanissime protagoniste, Lika Babluani e Mariam Bokeria, hanno ricevuto anche il meritato premio di migliori attrici. La giuria presieduta da Danis Tanović ha compiuto scelte molto nette: dei nove titoli di un concorso non esaltante, ha deciso di premiarne solo due.
L’altro è “A Stranger” di Bobo Jelcić, che ha avuto premio speciale della giuria e quello di miglior attore a Bogdan Diklić. Un palmarès asciutto e condivisibile, che ha lasciato fuori il romeno Corneliu Porumboiu, il più noto dei registi in gara, il cui “When Evening Falls On Bucharest Or Metabolism” era già stato ignorato dalla giuria di Locarno. Fuori dai premi anche l’unico bosniaco (“A Stranger” è una coproduzione Croazia – Bosnia), il buon “Sa mamom – With Mom” di con Marija Pikić, Mira Furlan, Branko Đurić e Sanja Vejnović.
Tra i cortometraggi premio al romeno “O umbra de nor – Shadow of a Cloud” di Radu Jude.
I documentari
Nella bella sezione documentari ha vinto la produzione austriaco-russa “Sickfuckpeople” di Juri Rechinsky. Un film molto duro diviso in tre parti, seguendo la vita di alcuni ragazzi di strada a Odessa. Nella prima hanno 10-14 anni e vivono nascosti, divisi per gruppi, dentro sotterranei umidi, rubando e drogandosi. Rechinsky, che in questo progetto ha sviluppato un cortometraggio del 2011, sta con loro e li filma in tutto, compresa la lunga scena della crisi epilettica di uno di loro. Due anni dopo un ragazzo del gruppo si reca al villaggio natale alla ricerca della madre che si prostituisce ma nessuno lo vuole aiutare a rintracciarla. Nel capitolo finale una coppia s’è sposata e aspetta un figlio che, a causa delle precarie condizioni di entrambi, i medici vorrebbero fare abortire fuori termine, ma il bambino nascerà. Un piccolo segno di speranza.
La menzione è andata a “Yugoslavia, How Ideology Moved Our Collective Body” della serba Marta Popivoda, il premio speciale “The Cleaners” del greco Konstantinos Georgousis e il premio Human Rights a “Married to the Swiss Franc” del croato Arsen Obremović.
Da notare i due Honorary Heart al grande regista ungherese Bela Tarr e Roberto Olla di Eurimages. Mentre al regista romeno Cristi Puiu il festival ha dedicato un bell’omaggio con tutti i suoi film, compreso il più recente “Trois excercises d’interpretation”, girato in Francia.
Storie familiari
Tra le poche novità interessanti, di film non ancora presentati in festival più grandi, c’è il bosniaco “Sa mamom – With mum” di Faruk Loncarević con Marija Pikić (“Buon anno Sarajevo”), Mira Furlan (“Cirkus Columbia”) e Branko Đurić. Il regista, al secondo film dopo “Mum and Dad”, riprende i temi familiari ma fa un passo avanti in un cinema molto attento ai dettagli. La poco più che ventenne Berina, artista incerta, vive con i genitori e la sorella piccola nella zona centrale di Sarajevo. Sua madre Jasna, dottoressa dalla forte personalità sta morendo di tumore e accusa di marito ingegnere, Mladen, di tradirla. Berina quasi non parla, ascolta le conversazioni altrui, incontra gli uomini che non la amano, prova a creare quadri che poi distrugge, procura certificati e cure per la malata. È l’unica a cercare una soluzione, a sperare, anche rivolgendosi a una sorta di maga che fa strani riti per guarire Jasna. Forse nella scomparsa della madre Berina trova la spinta per trovare la propria strada.
È la madre, Mariana, a volere a tutti i costi la sopravvivenza della figlia “Carmen” nel film del romeno Doru Nitescu. La donna e la bambina di 10 anni vanno dal paesino di campagna a Bucarest per una visita in ospedale: la piccola parla pochissimo, non sorride, non ricorda le cose e ha problemi neurologici. Il dottor Sitaru pensa sia necessario operarla, l’altro medico del reparto è contrario all’intervento: i due si scontrano e litigano sotto gli occhi della bambina e della madre. Mariana e il marito Puiu chiedono inutilmente al padre di lui i soldi per l’intervento. Intanto in tutti gli uffici, nella ricerca di un lavoro o per una visita medica, è necessario fare regali costosi per essere considerati. Un meccanismo di piccola corruzione nel quale i cittadini non hanno diritti, ma li devono continuamente comprare o ottenere sotto banco.
La crisi greca
È in bianco e nero il greco “Runaway Day“ di Dimitris Bavellas, che si apre su filmati propagandistici anni ‘60 che pronosticano brillante futuro e Grecia centro dell’Europa. Seguono sui titoli di testa immagini delle recenti manifestazioni di piazza. Come spiega il nome, è il racconto di una giornata in cui scappano tutti, facile metafora di una città e un paese dal quale non si può che fuggire. Si incrociano diverse storie: una ragazzina ricciola che vaga da sola: una donna bionda che incontra un tipo in un edificio vuoto, mentre il marito esita a dare l’allarme; un mezzobusto tv (lo stesso protagonista di “The Eternal Return of Antonis Paraskevas” di Elina Psykou) cerca di raccontare le scomparse ma poi decide di fuggire e la tv si spegne; un uomo che scappa dai debiti; un agente della riscossione delle tasse. Questi ultimi, le cui vicende sono legate, si incontrano nel prefinale in una delle poche scene sviluppate e con dialoghi. Con un sistema ingegnoso, che somiglia a quello delle cartolarizzazioni ma al rovescio, l’esattore è riuscito a ridurre a pochi euro la somma dovuta dal debitore. Uno scambio di battute che prova a spiegare come si è sviluppata la crisi e il debito è cresciuto a dismisura. Il resto è un sovrapporre con poco senso fughe di massa verso non si sa dove e sparizioni di singoli anche per motivi loro.Un’idea buona per un bel corto dal quale il regista non sa bene dove andare a parare e nel finale cerca di suscitare emozioni del tutto assenti nel resto del film.
Deludente anche l’atteso “Lupu – Wolf” del romeno Bogdan Mustata. Lupu è il soprannome di un adolescente introverso, che si diverte solo a giocare a basket e quando prepara i dolci per i bambini del condominio. È innamorato della vicina Clara (Ada Condeescu) che però incontra altri uomini più grandi, mentre i suoi genitori separati. Un film che si stacca nettamente dal realismo della scuola romena, solo che si capisce molto poco di cosa sia vero e cosa non sia reale e i rapporti tra personaggi non sono ben definiti. Ne risulta un esercizio di stile un po’ pasticciato e fine a se stesso.
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