UE – Turchia, una questione di visti

Col caso "Demirkar", lo scorso 24 settembre la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha ribadito che i cittadini turchi non hanno il diritto di entrare senza visto nel territorio di uno Stato membro UE per beneficiare di servizi. Una sentenza che rilancia la necessità di riavviare il negoziato Turchia-UE sulla libertà di movimento

29/10/2013, Davide Denti -

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I cittadini turchi non hanno il diritto di entrare senza visto nel territorio di uno Stato membro UE per beneficiare di servizi, ad esempio come turisti: l’ha confermato, il 24 settembre scorso, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (ECJ) nel caso di Leyla Demirkan. Un caso che, inizialmente, aveva lasciato sperare in un passo avanti per l’integrazione della popolazione turca in Europa, e per la riforma della politica europea dei visti verso la Turchia.

Leyla Ecem Demirkan è una ragazza ventenne di Mersin, in Turchia, la cui madre si è risposata con un cittadino tedesco. Nel 2007, Leyla chiedere un visto al consolato tedesco di Ankara per visitare il padre in Germania, ma questo le viene rifiutato. La sua storia non è unica: nel 2012, i consolati dei paesi Schengen hanno rifiutato il visto a più di 30mila cittadini turchi, specialmente se giovani e non sposati, per il rischio che questi restino poi illegalmente all’interno dei confini UE.

Leyla Demirkan fa ricorso; il suo avvocato, Rolf Gutmann di Stoccarda, sostiene che la Germania non abbia diritto a richiedere il visto ai cittadini turchi, in base all’Accordo di associazione tra Comunità Europee (CEE) e Turchia del 1963. Le corti tedesche procedono quindi ad un rinvio pregiudiziale alla Corte UE.

L’accordo di Ankara

A soli cinque anni dalla sua fondazione, nel 1963, la CEE firmava l’Accordo di Ankara, il secondo dopo quello del 1961 con la Grecia. A cinquant’anni dalla firma, l’accordo di associazione con la Turchia resta il più onnicomprensivo che l’Unione abbia firmato: nessuna “special partnership” potrebbe essere più speciale di quelle che sono già oggi le relazioni UE-Turchia. L’unione doganale è entrata in vigore nel 1995, dando grande impeto alla crescita economica turca, mentre dal 2005 la repubblica anatolica è candidata all’adesione. UE e Turchia siedono paritariamente all’interno del Consiglio d’Associazione, incaricato di prendere decisioni all’unanimità per far progredire l’associazione tra le due parti.

Nel 1973 un Protocollo all’accordo stabiliva all’articolo 41 che "le parti contraenti si astengono dall’introdurre tra loro nuove restrizioni alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi", aggiungendo che il Consiglio di associazione avrebbe trovato un accordo su una progressiva abolizione delle restrizioni alla libertà di stabilimento e di fornitura di servizi.

Tale clausola di standstill è oggi al centro del caso Demirkan. Nel 1973, infatti, i cittadini turchi non avevano bisogno di visti. Il regime dei visti viene introdotto da alcuni paesi CEE a seguito del colpo di stato del 1980, per il timore di un massiccio afflusso di rifugiati, e diviene una politica dell’intera UE con lo stabilimento dell’area Schengen negli anni ’90.

In Europa in camion?

Assieme alla politica dei visti, arrivano i primi casi giudiziari: il più importante è il caso Soysal e Savatli del 2009, in cui la Corte di Giustizia dell’UE riconosce che i due ricorrenti, camionisti sulla rotta Germania-Turchia, non sono soggetti all’obbligo di visto in quanto questo costituirebbe una "nuova restrizione" contraria alla clausola di standstill.

"Siamo entrati in Europa col camion!", titolava il giorno successivo il quotidiano Sabah. Tuttavia gli entusiasmi erano forse eccessivi. Da una parte, diversi stati membri UE hanno fatto orecchie da mercante: secondo una ricerca dell’università di Nimega (Paesi Bassi) "la reazione dei governi di Belgio, Francia, Irlanda, Italia, Paesi Bassi e Regno Unito appare simile a quella di uno struzzo".

Dall’altra parte, la Corte chiede di riportare gli obblighi di visto per i cittadini turchi alla situazione in essere al momento dell’entrata in vigore del Protocollo, diverso per ciascuno stato: il 1973 per i nove stati dell’allora CEE, la rispettiva data di adesione per gli altri 19. Ciò ha creato un’incertezza del diritto e reso altrettanto difficile dimostrare, pratiche alla mano, di non aver bisogno di un visto in quanto fornitore di servizi, quanto lo è domandare un visto stesso, con in più il rischio di vedersi comunque rigettato alla frontiera. I casi di eccezione Soysal sono rimasti rari e diminuiti, per la Germania, da 4.021 nel 2010 a 1.357 nel 2011.

Nessun diritto a “prestazione passive”

Ma la questione di Leyla Demirkan andava al di là di quanto riconosciuto a Soysal e Savatli. Leyla Demirkan non chiedeva di entrare in Europa per offrire servizi, bensì per riceverli ("prestazione passiva"). Nel diritto UE, infatti, le qualifiche del prestatore e del beneficiario di un servizio sono equiparate.

Vale la stessa cosa per i cittadini turchi, così come coperti dall’Accordo di associazione? No, secondo la Corte UE: poiché i trattati UE sono accordi separati, rispetto all’accordo di associazione UE-Turchia, e con diversi obiettivi (tra cui la libertà di movimento dei cittadini UE, anziché il solo sviluppo economico della Turchia), i termini dell’accordo vanno interpretati in maniera autonoma.

L’equiparazione tra prestatore e beneficiario di servizi, sviluppo del diritto UE, non è estendibile automaticamente al "diritto dell’associazione" UE-Turchia, dove il Consiglio d’associazione, negli ultimi 40 anni, non ha fatto nulla per ridurre le restrizioni alla libera prestazione dei servizi. Pertanto, la clausola di standstill dell’art. 41 dell’Accordo di associazione non copre anche gli eventuali beneficiari turchi di servizi all’interno dell’UE. I turisti turchi dovranno continuare a chiedere un visto se vogliono entrare nel territorio dell’Unione, l’Accordo di Ankara ha raggiunto il limite dei suoi benefici con l’eccezione Soysal.

In ogni caso, anche se la Corte UE avesse statuito in favore di Leyla Demirkan, la situazione non sarebbe cambiata in maniera sostanziale. I cittadini turchi avrebbero avuto il diritto di entrare senza visto, per ricevere servizi, in 11 stati membri UE, ma l’obbligo di visto sarebbe rimasto per gli altri 17 stati, inclusi diversi stati di transito come Grecia, Bulgaria, Romania, Ungheria ed Austria.

ESI: rilanciare il negoziato sui visti

Secondo l’ESI, il risultato negativo del caso Demirkan dimostra la necessità per la Turchia di avviare un negoziato con l’UE per la liberalizzazione del regime dei visti. La Turchia aveva sempre rifiutato, nella convinzione che i requisiti europei sui visti fossero semplicemente illegali. La sentenza Demirkan dovrebbe aver messo la parola fine a tale linea argomentativa, e il governo turco potrebbe accettare di avviare già entro dicembre un dialogo a partire dalla roadmap verso una liberalizzazione dei visti, presentatagli dalla Commissione europea già nell’estate 2012.

La Turchia dovrà soddisfare alcuni requisiti per qualificarsi per un regime visa-free, inclusa la firma di un accordo di riammissione, accettando di riprendere i migranti irregolari, anche di paesi terzi, in ingresso nell’UE attraverso la Turchia. Secondo l’ESI, la Turchia dovrebbe accettare di firmare tale accordo, pur rinegoziandone alcune condizioni in maniera costruttiva. L’impatto di tali accordi, ad esempio nel caso dell’Ucraina, si è dimostrato molto limitato (solo 108 riammissioni nel 2012).

Dall’altra parte, l’UE e i suoi governi dovrebbero agire in fretta per evitare che la disillusione per il caso Demirkan rafforzi ancora di più la distanza tra UE e Turchia, approfonditasi dopo i fatti di Taksim. Solo pochi giorni fa, il ministro turco per l’Integrazione europea Egemen Bağış dichiarava che "la Turchia probabilmente non diventerà mai uno stato membro UE" a causa dell’opposizione e dei "pregiudizi" dei paesi europei.

Le raccomandazioni dell’ESI per evitare che l’UE diventi il capro espiatorio di un governo Erdoğan sempre più autoritario sono conseguenti. Gli stati UE potrebbero impegnarsi a ridurre i casi di rigetto delle richieste di visto, a concedere più facilmente visti ad entrata multipla validi fino a cinque anni, e a ridurre le incombenze burocratiche quali la presentazione di persona di ogni richiesta di rinnovo del visto. Inoltre, la Commissione e gli stati membri dovrebbero prendere sul serio la sentenza Soysal, facilitando l’accesso senza visto ai prestatori di servizi dalla Turchia.

Infine, come sottolineato dalla stessa Corte UE, è tempo che UE e Turchia siedano insieme, nell’ambito del Consiglio d’associazione (oggi equiparato ai negoziati d’adesione in corso) per soddisfare l’obbligo, a 50 anni dalla firma del trattato d’associazione, di stabilire un programma per l’abolizione progressiva delle restrizioni alla libertà di stabilimento e di prestazione di servizi. Assieme all’apertura di un nuovo capitolo negoziale sulla politica regionale, previsto per il prossimo 5 novembre, questo sarebbe un passo politicamente e simbolicamente importante per rilanciare le relazioni tra Bruxelles e Ankara.

@davidedenti

 

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Questa pubblicazione è stata prodotta con il contributo dell’Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea. Vai alla pagina del progetto Racconta l’Europa all’Europa

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