Bosnia Erzegovina, il rischio dell’etnocrazia
La Costituzione della Bosnia Erzegovina, il suo sistema elettorale e il censimento da poco conclusosi nel Paese portano al rafforzamento delle divisioni, congelando i confini tra i diversi gruppi religiosi e nazionali. L’analisi di Nenad Stojanović
Si è da poco concluso in Bosnia Erzegovina il censimento generale della popolazione. Ai cittadini è stato richiesto di dichiarare la propria appartenenza nazionale, la religione e lingua materna. Era necessario porre queste domande?
No. Qualsiasi sarà il risultato, questo verrà strumentalizzato dalle élite etno-nazionaliste al potere. La cosa è evidente in particolare per quanto riguarda una delle tre domande, quella sulla lingua, che è la più assurda di tutte. Sappiamo tutti che in Bosnia si parla una stessa lingua.
Sarebbe stato meglio non chiedere?
Certamente. Non è un caso che in Paesi dove esiste una conflittualità latente tra diversi gruppi nazionali o religiosi queste domande vengono evitate. In Belgio ad esempio, a partire almeno dagli anni ’50, non viene posta la domanda sulla lingua, proprio per evitare possibili strumentalizzazioni. In Francia, dove una percentuale importante della popolazione è di origine araba, ma anche dell’Africa subsahariana, è assolutamente vietato porre domande sull’identità etnica delle persone. Anche l’esempio del Libano è interessante, mostra i potenziali rischi di un sistema che invece si basa sulle quote etniche, in quel caso etno-religiose. Le richieste di una rappresentanza maggiore da parte di sunniti e sciiti sono state tra i motivi di tensione che hanno portato all’esplodere della guerra nel ’75.
Quali saranno i possibili effetti del censimento svoltosi in Bosnia Erzegovina?
A prescindere da quelli che saranno i risultati, questi verranno strumentalizzati dalle élite al potere e potrebbero portare a rivendicazioni. Ipotizziamo che i bosniaci musulmani siano più del 50%, mentre i bosniaci croati, i cattolici, solo il 10%. Qualche politico bosniaco musulmano potrebbe richiedere un maggior numero di seggi, rimettere in gioco l’attuale sistema delle quote, con ripercussioni sulla stabilità del Paese e il funzionamento delle istituzioni.
L’esempio dell’Alto Adige ci può insegnare qualcosa?
Anche in Alto Adige questi censimenti erano legati a quote etniche, ed erano ancora più problematici dal punto di vista della democrazia liberale, della libertà del singolo individuo di dichiararsi come voleva. Nei censimenti dell’81, ’91 e 2001 infatti era in vigore il censimento etnico nominale. La dichiarazione di appartenenza etno-linguistica di un cittadino era registrata, esisteva una specie di schedatura etnica. Se ti dichiaravi ad esempio tedesco, per ogni cosa che volevi fare nei 10 anni successivi, cercare lavoro nell’amministrazione, beneficiare di sussidi o anche solo candidarti alle elezioni, dovevi entrare nella quota destinata al tuo gruppo, e potevi far parte solo di quella. Una situazione molto problematica dal punto di vista del rispetto dei diritti individuali. Non a caso è nato il movimento dei cosiddetti obiettori etnici, guidato da Alex Langer, che rifiutavano di dichiarare la propria etnicità.
Quindi oggi in Europa sarebbe meglio non avere più strumenti di discriminazione positiva, come quote fisse, per rappresentare i diversi gruppi etnici, nazionali, linguistici nelle istituzioni?
Penso che sia utile che la diversità della società, linguistica, culturale, etnica, del colore della pelle, di genere, si rifletta nelle istituzioni, più o meno secondo le reali proporzioni dei diversi gruppi presenti all’interno della società stessa. Questo è indice di una società sana, dove tutti hanno la possibilità di accesso e rappresentanza nelle istituzioni.
Per raggiungere questo scopo, però, l’utilizzo di quote rigide, formali, di durata illimitata, non è lo strumento migliore. In primo luogo viola il diritto dei singoli di autodeterminarsi, decidendo se appartenere ad una o ad un’altra categoria o semplicemente di qualificarsi come cittadini di un Paese. In secondo luogo, con il sistema delle quote, i confini tra i gruppi vengono ancora più accentuati, anzi congelati. Prima di arrivare alle quote bisognerebbe provare altri strumenti quali la cooptazione informale o l’approvazione di leggi che in modo indiretto aumentino la probabilità che le istituzioni siano più rappresentative della società, senza che questo sia ancorato a quote formali.
Se proprio le quote dovessero risultare necessarie, ad esempio per aiutare un Paese dopo un conflitto, bisognerebbe affermare da subito che si tratta di quote transitorie. In Bosnia Erzegovina, dopo la guerra, queste quote sono state poste per sempre, e questo non aiuta a superare i conflitti creando una società basata su principi di pari opportunità e uguaglianza.
L’attuale forma costituzionale della Bosnia Erzegovina, creata con i trattati di Dayton, non è più adeguata?
L’attuale assetto costituzionale non è utile alla creazione di una democrazia sana e stabile nel medio e lungo periodo. Si basa su di un modello di consociativismo etnico che di fatto premia i partiti che pretendono di rappresentare un unico gruppo etnico, invece di incoraggiare partiti multietnici o che superano queste divisioni. Il sistema elettorale in particolare, e quello delle quote etniche, fanno sì che anche quei politici che una volta erano moderati dal punto di vista della retorica nazionale siano diventati più radicali, più estremi. L’esempio più emblematico è quello dell’attuale presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik.
Bisognerebbe riformare il sistema elettorale?
Sì, dando incentivi a coloro che vogliono superare le barriere affinché possano creare formazioni multietniche o con più chiare connotazioni politiche tradizionali, quali la destra e la sinistra. Oggi in Bosnia Erzegovina non è chiaro quali partiti siano di destra e quali di sinistra, che è la distinzione principale nella stragrande maggioranza dei Paesi.
Come?
Ci sono sistemi elettorali cosiddetti “preferenziali”, noti in ambito anglosassone come sistemi di “alternative vote”, che permettono al cittadino di scegliere tra due, tre coalizioni che si presentano alle elezioni, elencando i candidati secondo un ordine progressivo. Questo favorirebbe le posizioni moderate e i partiti multietnici, che avrebbero così molte più possibilità di pesare all’interno del processo elettorale. Inoltre le coalizioni sarebbero chiare sin dall’inizio. Quello che avviene oggi in BiH invece è totalmente assurdo, possono passare anche uno o due anni dopo le elezioni prima della formazione del governo. Non a caso lo stesso accade anche in Belgio, Paese che si basa sullo stesso sistema di consociativismo etnico. Il cittadino vota un partito, ma non sa in quale coalizione questo partito finirà. Tutto è poco trasparente, e produce una situazione per cui sempre più elettori si allontanano dalla politica.
Anche le circoscrizioni elettorali andrebbero riviste?
Idealmente, ma è una soluzione poco realistica, non sarebbe accettata dai principali attori politici. Però trovo assolutamente anomalo ad esempio che il rappresentante serbo alla presidenza possa essere eletto solo nella RS. Credo che qualsiasi cittadino della BiH, dovunque risieda, dovrebbe poter eleggere uno dei candidati alla presidenza tripartita. Naturalmente anche qui si potrebbero mettere in atto dei meccanismi di ponderazione del voto, come viene fatto ad esempio in Svizzera per eleggere il rappresentante della minoranza francofona nel cantone di Berna. I votanti della RS potrebbero cioè avere un peso maggiore nell’elezione del candidato domiciliato in quella parte del Paese, ma senza averne la competenza esclusiva, cioè anche gli elettori della Federazione potrebbero votare il candidato della RS se lo volessero. Oggi questo non è possibile.
In Svizzera viene fatto un largo uso dello strumento referendario. In Bosnia Erzegovina i referendum potrebbero avere un ruolo positivo, ad esempio favorendo l’aggregazione di cittadini su tematiche trasversali rispetto a quella nazionale?
Sì, il maggiore ricorso alla democrazia diretta sarebbe una delle riforme possibili, permettendo ai cittadini di avvicinarsi e coalizzarsi oltrepassando gli steccati etnici. Purtroppo anche qui ci scontriamo con notevoli ostacoli. In BiH, quando si parla di referendum, la prima cosa che viene evocata è il referendum sull’indipendenza della Republika Srpska. La possibile obiezione dei serbo bosniaci invece è che la maggioranza sarebbe quella dei musulmani, e sarebbero sempre loro a decidere. Credo però che sarebbe possibile ad esempio escludere da queste votazioni le materie che riguardano il cosiddetto interesse vitale nazionale, e prevedere dei quorum a livello di ogni entità, oltre ad un quorum generale, o maggioranze qualificate. Si potrebbe inoltre cominciare a sperimentare la democrazia diretta non a livello statale, ma a livello locale. A Banja Luka ad esempio, negli scorsi anni, sono state presentate petizioni contro la costruzione di centrali idroelettriche sulla Vrbas, che hanno avuto un grande seguito da parte della cittadinanza ma che sono finite nel nulla perché un vero e proprio diritto al referendum non esiste. Ci sono molti esempi di cittadini che cercano di ribellarsi, ma nel sistema attuale non hanno alcuna voce in capitolo, mentre i politici sono spesso in balia delle lobby economiche.
La Costituzione di Dayton verrà cambiata solo con un intervento dall’esterno?
Non credo che né gli americani né gli europei avranno il coraggio di fare una vera riforma di Dayton, si accontenteranno di fare dei ritocchi minimi che ad esempio accolgano la pronuncia dei giudici di Strasburgo nel caso Sejdić-Finci, e per il resto verranno incontro alle richieste dei politici locali. Non ho molte speranze in un possibile intervento risolutivo della comunità internazionale per superare l’attuale situazione di stallo.
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