Vukovar, ventidue anni dopo
Sono passati 22 anni dalla fine della battaglia di Vukovar, 87 giorni di assedio da parte dell’armata federale jugoslava e delle forze paramilitari serbe. Da allora ogni 18 novembre si svolge una marcia commemorativa. Un reportage. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Tutto inizia con la decisione del partito Socialdemocratico, nel corso delle trattative con l’Unione europea per l’ingresso nella comunità della Croazia, di rispettare i diritti delle minoranze e di installare cartelli bilingue là dove sia residente una minoranza serba superiore al 33%. I cartelli sono stati affissi solo pochi mesi fa, davanti a uffici ed edifici pubblici, ma hanno creato immediatamente tensioni fra la cittadinanza. In poco tempo le insegne sono state danneggiate due volte, l’ultima solo pochi giorni fa. In segno di protesta anche il busto di Franjo Tuđman, primo presidente della Croazia fino alla sua morte nel 1999 e uomo immagine dell’unità nazionale, posto nella piazza principale di Vukovar, è stato coperto da un drappo nero.
La commemorazione di quest’anno ha quindi radunato a Vukovar quasi 100.000 persone, molto più del doppio di quelle presenti negli ultimi anni e segue altre precedenti raduni svoltisi a Zagabria negli ultimi mesi, organizzati dai veterani di guerra contro l’introduzione dei cartelli bilingue.
Sono arrivati dalle città più remote della Croazia centinaia di pullman, tutta la Croazia intera sembra essere qui oggi. Ci sono mamme con i passeggini, eleganti rappresentanti dell’apparato statale in giacca e cravatta con una rosa rossa in mano, gruppi di veterani in rigorosa tuta mimetica e giacca militare, reduci in carrozzella, un centinaio di motociclisti che fanno risuonare i motori delle loro Harley in centro città, giovani e adolescenti eccitati dal partecipare al richiamo della patria e che fin dal primo mattino fanno scorrere birra a fiumi sui tavolini dei bar, anziani, soldati e generali dell’esercito croato, suore, bambini. Ovunque vengono sventolate bandiere croate, striscioni, vengono innalzati crocefissi ed esposti rosari e gagliardetti.
Il corteo di commemorazione ripercorre il tragitto percorso da 300 civili croati il 18 novembre 1991 alla fine dell’assedio sulla città, liquidati dall’armata federale jugoslava e dai gruppi paramilitari serbi. Dopo aver deposto le armi gli uomini furono deportati dall’ospedale verso la campagna fuori città, dove vennero uccisi. Lungo tutto il tragitto sono state installate centinaia di candele rosse: sui marciapiedi, sui davanzali e sui gradini delle abitazioni, a forma di torre dell’acquedotto, l’edificio ripetutamente bombardato dai serbi e diventato il simbolo della battaglia di Vukovar.
L’ospite più atteso è certamente Ante Gotovina, colonnello dell’armata croata durante la guerra d’indipendenza. Cammina assieme alla folla sul corso principale di Vukovar, viene accolto dai flash delle macchinette fotografiche e dagli applausi scroscianti, è circondato dalla calca, donne in lacrime si gettano al suo collo prima di volersi fare immortalare con lui, gruppi di ragazzi quindicenni lo indicano da lontano, riconoscendolo come un salvatore della patria. Lui reagisce come un attore consumato dal palcoscenico, parla e sorride poco, getta lo sguardo altrove, sembra quasi irritato dall’attenzione che si crea attorno a lui.
Sono assenti invece i vertici del governo di Zagabria che, come riportato da Reuters, sono stati bloccati all’ingresso in città da alcuni gruppi di ex-soldati. I veterani conservatori si erano opposti fin da febbraio alla decisione del partito Socialdemocratico di installare i cartelli bilingue a Vukovar, nella città simbolo del martirio croato l’ingresso del cirillico è visto come una provocazione e un’offesa per i 1.700 morti, 4.000 feriti e 500 dispersi tra la popolazione croata.
Il corteo arriva così in centro e raggiunge la stazione di polizia dove solo quattro giorni fa è stato divelto a colpi di sassate il cartello bilingue in croato e cirillico posto all’ingresso, da parte di un residente di Vukovar in evidente stato di ebbrezza. La dove la targa era presente resta oggi solo una cornice metallica vuota, accolta dai manifestanti con applausi e sorrisi.
Per modificare la legge costituzionale è stato indetto a Vukovar un referendum, aperto dal 17 novembre fino al primo dicembre e che propone l’uso ufficiale della doppia lingua da parte dell’amministrazione pubblica, delle forze dell’ordine e del sistema giudiziario solo in presenza di minoranze che raggiungano il cinquanta per cento della popolazione. In questo modo il cirillico sarebbe tolto dai pubblici uffici di Vukovar.
Terminati i quattro chilometri che dividono il centro dal “Memoriale delle vittime della guerra patriottica” i quasi 100.000 manifestanti si radunano per seguire la cerimonia di rito cattolico a cui non seguono, a causa della loro assenza, i discorsi dei leader del partito Socialdemocratico, vengono quindi posate le corone di fiori e accese le candele rosse davanti al monumento “La croce del vento”. Non mancano le foto di rito con i militari, i veterani, davanti al monumento o tra le lapidi dedicate ai defunti di guerra, prima di riprendere gli autobus e abbandonare la città.
Il centro storico nel tardo pomeriggio resta dominato da un gruppo di una cinquantina di quattordicenni neofascisti, che davanti a uno dei bar del centro inneggiano: “Ustasha, ustasha”, ricordando il partito fascista che governò nominalmente lo stato indipendente di Croazia durante la Seconda guerra mondiale, e altri canti fascisti accompagnati dal braccio destro teso. Da pochi manifestanti che di ritorno alla stazione degli autobus accendono l’ultima candela ai piedi della statua di Franjo Tuđman. Dal generale senso di vuoto e smarrimento di una città che ogni 18 novembre diventa per un giorno protagonista della società e della politica nazionale, per essere abbandonata nei suoi difficili problemi di disoccupazione e convivenza, nella sua assenza di infrastrutture e opportunità, per tutto il resto dell’anno.
Questa pubblicazione è stata prodotta con il contributo dell’Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea. Vai alla pagina del progetto Racconta l’Europa all’Europa.