Albania: la vendetta esiste
Le istituzioni troppo spesso ne negano l’esistenza, ma sono centinaia in Albania le famiglie che soffrono per il fenomeno della vendetta di sangue. E una piccola associazione italiana cerca di dare loro voce. Un’intervista a Giulia Zurlini Panza, volontaria di Operazione Colomba
Da alcuni anni ormai l’Operazione Colomba si occupa del fenomeno della vendetta in Albania, perché questa scelta?
L’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII da più di 12 anni è presente in Albania con diverse strutture di accoglienza: 3 case-famiglia, una pronta accoglienza per senza fissa dimora e da poco anche una comunità terapeutica per persone con problemi di tossicodipendenza.
Da 7 anni a questa parte alcuni dei responsabili delle case-famiglia, che seguivano un progetto sull’assistenza, sono entrati in contatto con gli strati sociali più poveri del nord d’Albania, in particolare nell’area di Scutari. In questo modo hanno avuto la possibilità di conoscere anche famiglie le cui difficoltà economiche o sociali erano causate dal problema della vendetta, la cosiddetta gjakmarrje.
La vendetta di sangue riguarda casi di conflitti interfamigliari che vengono gestiti attraverso l’uso della violenza e il fenomeno è ancora ben radicato. Per questo i responsabili della Comunità Papa Giovanni XXIII in Albania hanno richiesto la presenza in loco dell’Operazione Colomba, il Corpo Nonviolento di Pace dell’Associazione, che da più di 20 anni realizza interventi nonviolenti in zone di conflitto armato.
L’Operazione Colomba, dopo una serie di viaggi esplorativi intrapresi nell’area tra il 2007 e il 2009, ha aperto la presenza a Scutari nel 2010 non appena è riuscita ad avere le risorse per farlo. Da marzo del 2010 noi volontari siamo impegnati nella lotta al fenomeno della vendetta in particolare nella zona di Scutari e in quella montuosa di Tropoja.
Ci può dire in poche parole cosa si intende per gjakmarrje?
Il fenomeno della gjakmarrje è una realtà ancora forte nel nord dell’Albania e deriva da un antico codice medievale di origine cristiana, il Kanun di Lek Dukagjini, che attraverso delle norme regolava la vita sociale e culturale (in particolare: la famiglia, il matrimonio, la proprietà privata, il lavoro, il giuramento, il risarcimento dei danni, i privilegi, il codice giudiziario degli anziani, l’onore, la vendetta di sangue, il perdono) della popolazione albanese delle montagne sottoposta al dominio ottomano nel medioevo.
Nella cultura albanese, l’onore veniva considerato il fattore costitutivo della relazione tra singoli e collettività e qualsiasi azione disonorevole era giudicata alla stregua di un crimine. Secondo il Kanun, il disonore si poteva riscattare solo con spargimento di sangue o con il perdono celebrato attraverso un rito di riconciliazione.
Attualmente il Kanun non è più ufficialmente in vigore, ma la tradizione che lo caratterizza continua ad esistere e a definire le basi morali della società albanese. Nel tempo le norme del Kanun sono state sempre più stravolte a seconda dei sistemi socio-politici che si sono succeduti. Per rispondere alle lacune dello Stato relative all’esercizio delle sue funzioni pubbliche si è sviluppata nella società una visione distorta del Kanun.
Le disposizioni del Kanun sono infatti oggigiorno sopravvissute in forma degenerata e in pratica si traducono nell’uso della giustizia privata. Un conflitto interpersonale causato dalle più diverse motivazioni (es. confini di proprietà, incidenti stradali, ecc…) può esasperarsi fino al punto di spingere le parti coinvolte a ricorrere all’omicidio. La conseguente gjakmarrje, che letteralmente significa “presa del sangue”, implica l’insorgere di cicli di vendette che mettono a rischio la vita di praticamente tutti i membri delle famiglie di coloro il cui onore è stato offeso.
Inoltre il fenomeno ha provocato lo sviluppo di una mentalità secondo cui l’uomo coraggioso è colui che vendica l’onore offeso con spargimento di sangue. Questa visione ha in buona parte sostituito anche quella che, rifacendosi alla tradizione locale, considera il perdono come un atto ancora più valoroso della vendetta.
Le conseguenze negative del fenomeno della vendetta di sangue sono evidenti sia per le famiglie che aspettano di subire la vendetta sia per coloro che devono scegliere se emettere vendetta o meno. E comprendono la mancanza di libertà di movimento che spinge i membri delle famiglie coinvolte ad autorecludersi in casa per paura di subire la vendetta; i danni economici dovuti alla disoccupazione; i danni fisici causati dal mancato accesso alle strutture mediche; i danni psicologici generati dal contesto di chiusura, paura, morte e violenza in cui gli individui coinvolti sono immersi; l’incremento del tasso di analfabetismo; i danni collaterali dovuti al fatto che spesso le armi usate coinvolgono “per []e” anche chi non ha nulla a che fare con il conflitto interfamigliare in corso.
Siete sul campo, al fianco della famiglie in un percorso di risoluzione del conflitto dal basso. Ma avete anche redatto un documento d’analisi sul fenomeno della sottoposta ai parlamentari albanesi. Perché quest’esigenza?
Nasce in buona parte dallo stile di intervento che ha l’Operazione Colomba. Siamo entrati nelle faide interfamigliari albanesi per dare voce a chi non ce l’ha. In questo caso sono le famiglie in vendetta a non avercela. Attraverso un’azione in rete con gli enti locali sensibili, stiamo facendo da ponte tra la collettività e le istituzioni nazionali e internazionali in modo che la voce di chi subisce per primo gli effetti negativi del fenomeno (ovvero le famiglie coinvolte) e di chi sente il problema come destabilizzante (ovvero la società civile) possa essere ascoltata da chi ha la responsabilità di impegnarsi ad attuare misure che garantiscono il rispetto dei diritti umani (ovvero le istituzioni nazionali e internazionali).
Il nostro scopo infatti non è quello di risolvere da esterni il conflitto, ma di facilitare la strada per superare il problema mettendo il popolo albanese, le sue istituzioni e i suoi enti nelle condizioni di risolverlo. In questo caso il documento d’analisi sul fenomeno che abbiamo prodotto è stato sottoposto alle istituzioni e ai parlamentari albanesi per sensibilizzarli sul fenomeno nonché per spingerli a riconoscere l’entità del fenomeno e a intraprendere un intervento strutturato per fermarlo.
La vendetta di sangue è spesso descritta, all’estero come del resto anche in Albania, come elemento esotico, retaggio del passato, tipico di zone isolate. Eppure voi lo collegate fortemente a processi del tutto contemporanei della società albanese. In che termini?
La stessa società albanese con cui noi ci confrontiamo quotidianamente parla ancora di “transizione democratica” per definire il momento storico in cui si trova il loro paese. Quindi possiamo dire che l’Albania è un paese in transizione democratica dalla caduta del comunismo. In questa fase di transizione democratica si è delineato un contesto che con fatica sta rispondendo alle esigenze della popolazione uscita da un periodo in cui per oltre 40 anni lo stato era caratterizzato da un isolazionismo e una repressione via via sempre più ferrei.
Ma l’Albania è ancora caratterizzata da un sistema di corruzione a bassi e alti livelli che coinvolge alcuni settori della società; dalla mancanza, l’insufficienza e la bassa qualità di servizi primari come quello educativo e quello sanitario; da un alto tasso di disoccupazione; dalla mancanza di infrastrutture che costringono all’isolamento diverse zone abitate. Tutto ciò concorre in buona parte ad alimentare nell’opinione pubblica una forte sfiducia nello stato e una resistenza a quanto di positivo lo stato si propone di attuare. E’ in queste risacche che la popolazione trova conforto nel rispolverare le norme dell’antico codice del Kanun deformandole a seconda del contesto in cui si trova e facendole passare per “tradizione”.
Quali i numeri sul fenomeno?
A fine 2012 per la prima volta sono state pubblicate sulle principali testate giornalistiche albanesi le stime ufficiali sul fenomeno della vendetta rilasciate dal ministero degli Interni. I dati parlano di: 225 omicidi per gjakmarrje avvenuti in 12 anni; di 67 famiglie autorecluse in tutta l’Albania; di 33 bambini che non frequentano la scuola di cui 23 solo nel distretto di Scutari.
Secondo le informazioni raccolte dall’Operazione Colomba, le famiglie vittime di gjakmarrje sono 45 nell’area di Scutari, Lezhë, Malësi e Madhe, Tirana di cui la maggior parte vivono sotto vendetta e diverse dovrebbero scegliere se emettere vendetta o perdonare il sangue. La maggioranza di esse risiede nel distretto di Scutari. I clan famigliari coinvolti sono 32.
Nell’area montuosa di Tropoja, le famiglie coinvolte nel fenomeno e conosciute dallo staff di Operazione Colomba sono 20. I clan famigliari a cui appartengono queste 20 famiglie sono 12.
I dati forniti dal Corpo Nonviolento di Pace della Comunità Papa Giovanni XXIII denunciano il coinvolgimento di almeno 500 persone nel fenomeno nell’area di Scutari, Lezhë, Tirana, Tropoja.
C’è chi contesta i numeri forniti dalle autorità, accusando queste ultime di sminuire quanto sta accadendo. Quale il suo commento?
Una difficoltà oggettiva da parte delle autorità nello stabilire la distribuzione numerica e geografica reale del fenomeno consiste nella fatica di stare sul campo per avere un contatto diretto col problema. Altre difficoltà derivano dal fatto che la vendetta si consuma spesso in zone isolate dove la stampa non arriva e dove la popolazione non denuncia nemmeno quanto accade alle istituzioni.
Vivendo sul campo e documentandoci giornalmente attraverso i mass media locali, noi volontari abbiamo potuto constatare che le vittime della gjakmarrje e della sua mentalità continuano ad esistere e a moltiplicarsi. Tutto ciò manifesta quanto ancora il fenomeno sia forte e difficile da sradicare.
A partire da questo il mio commento da operatrice di pace in Albania è quello di chiedere alle istituzioni e alle associazioni locali di non perdere troppo tempo a stabilire la reale dimensione del fenomeno, ma di riconoscerne l’esistenza e la resistenza per poi adottare un atteggiamento propositivo nell’affrontarlo senza timore e per unire gli sforzi necessari a combatterlo.
E i tribunali, come reagiscono?
Purtroppo non abbiamo ancora le risorse sufficienti per fare un’analisi adeguata delle sentenze giudiziarie. Le informazioni di cui disponiamo derivano per la maggior parte da quanto ci viene raccontato, spesso in via confidenziale, dalle famiglie vittime del fenomeno. Nonostante ciò, sulla base di un’analisi incrociata di dati e testimonianze, abbiamo motivo di credere che non venga garantita la certezza della pena.
Ma questa distorsione del Kanun si è imposta perché lo stato non è in grado di fare giustizia?
Per rispondere a questa domanda mi rifaccio a quanto riportato sopra. Inoltre ritengo che la distorsione in senso negativo del Kanun sia frutto di una commistione di cause. Oltre alle lacune dello stato, la popolazione risente della mancanza di nuovi strumenti culturali per interpretare il passaggio dalla caduta del comunismo alla transizione democratica e per incanalare le proprie frustrazioni in modo costruttivo.
Nel settembre 2012 in tutte le chiese cattoliche del distretto di Scutari è stata letta una lettera contro il fenomeno della gjakmarrje. Quale il dibattito in seno alla chiesa cattolica su questa questione? E che impatto hanno avuto le prese di posizione ecclesiastiche sulle autorità albanesi?
Nel settembre 2012 i vescovi delle aree di Scutari, Lezhë e Tropoja hanno fatto leggere durante la messa una lettera pastorale contro la gjakmarrje. I vescovi hanno espresso forte preoccupazione rispetto al netto aumento della violenza che si è manifestata in atti di vendetta e di soprusi dentro e fuori le pareti domestiche.
Il vescovo di Scutari ha poi sottolineato come tali atti barbarici vengano giustificati tirando in ballo la tradizione secolare. La lettera ha previsto la scomunica di chi uccide per vendetta: gli assassini non possono accedere alle funzioni religiose (confessione, comunione, sepoltura in cimiteri della chiesa) e soltanto coloro che si pentono per gli atti di violenza commessi potranno essere reintegrati.
Il principale dibattito che si sta svolgendo in seno alla chiesa sulla questione gjakmarrje verte su come affrontare il fenomeno soprattutto dal punto di vista della giustizia e della pena prevista per chi compie la vendetta. La discussione non riguarda solo i provvedimenti che la chiesa dovrebbe prendere in merito ma anche quelli che dovrebbe prendere lo stato. La posizione ufficiale e pubblica che ha preso la chiesa attraverso la lettura della lettera pastorale ha spinto le più alte cariche dello stato a riconoscere il fenomeno della gjakmarrje quando invece prima era stata messa in dubbio persino la sua esistenza.
Non vi siete limitati nel documento inviato ai parlamentari albanesi a descrivere il fenomeno ma avete indicato anche strade da percorrere per risolverlo. Quali?
In sintesi: occorre innanzitutto accettare l’esistenza e l’entità del fenomeno della gjakmarrje; garantire la costruzione di uno stato sociale che vada ad affrontare i fattori strutturali (povertà economica, ignoranza, corruzione, alcolismo, isolamento geografico, mancanza di strutture adeguate per muoversi o per curarsi, ecc…) che permettono al fenomeno di esistere e che contribuisca allo sviluppo della collettività; attuare delle campagne di sensibilizzazione nei confronti della collettività introducendo un’educazione basata sulla nonviolenza nelle scuole, negli ambienti di lavoro e nei principali centri di ritrovo; affrontare la questione “giustizia statale” attraverso una riforma della giustizia retributiva che garantisca il risanamento dei principali organi che la rappresentano; istituire percorsi basati sulla creazione di un tipo di giustizia restaurativa; creare un servizio o una sorta di prefetto ad hoc o di pronto intervento per i casi di hakmarrje o gjakmarrje; adottare alcuni provvedimenti atti a garantire la sicurezza dei cittadini vittime del fenomeno e a favorire il loro accesso ai servizi di base.
Come Operazione Colomba avete recentemente chiuso una raccolta di 5000 firme contro la vendetta di sangue. Quali le azioni che prevedete per il futuro?
L’iniziativa della campagna di raccolta firme ha avuto fondamentalmente un duplice scopo: da un lato, quello di sensibilizzare e di non lasciare sola la società civile albanese di fronte al fenomeno della vendetta; dall’altro, quello di sensibilizzare e spingere le istituzioni ad impegnarsi concretamente nella lotta per il superamento del fenomeno della vendetta.
Durante la campagna la partecipazione dell’opinione pubblica ha superato i risultati attesi. L’obiettivo era quello di raccogliere 5000 firme in 6 mesi, come desunto dal titolo dell’evento “5000 firme per la vita”, ma ne abbiamo raccolte quasi 6000. Durante la raccolta firme, la società civile ha più volte espresso preoccupazione nei confronti del fenomeno che va a minare la sicurezza della vita dei cittadini e il risultato finale della campagna lo dimostra.
Ci siamo fatti portavoce di questo disagio comunicando alle istituzioni e ai mass-media gli obiettivi e gli esiti dell’iniziativa. Attualmente le risposte stanno già arrivando dalle più alte cariche nazionali e internazionali e per il momento il feedback è positivo tanto che in alcuni casi ci è stato richiesta una collaborazione nella lotta al fenomeno. L’intento è quindi di proseguire una collaborazione dal basso e dall’alto. La collaborazione con le istituzioni ha lo scopo di costruire una strategia congiunta nel superamento del fenomeno.
Invece la prossima azione di sensibilizzazione dal basso a cui stiamo pensando prevede la realizzazione di una marcia per la pace che coinvolga la popolazione albanese dal nord al sud dell’Albania. Inoltre, come ogni mese, le manifestazioni contro la gjakmarrje continuano e sulla scia della campagna di raccolta firme, stiamo chiedendo alla popolazione di Scutari di lasciare un messaggio con cui possano esprimere il loro punto di vista sulla gjakmarrje. E la partecipazione è incoraggiante.