Sochi: il peso della storia

Fatima Tlisova è una giornalista circassa, ricercatrice ed esperta della regione del Caucaso settentrionale. L’abbiamo intervistata in merito ai casi di azioni t[]istiche cecene e ai possibili rischi per le prossime Olimpiadi di Sochi

17/01/2014, Maria Elena Murdaca -

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Flickr - shoothead

La Cecenia oggi è in qualche modo legata anche a Sochi?

Se intende le concrete misure di sicurezza per l’organizzazione dei Giochi Olimpici Invernali, queste sono legate a due nomi: Ramzan Kadyrov e Dokka Umarov. Di questi nomi si è sentito parlare anche in passato. Il padre di Ramzan Kadyrov è stato ucciso in un’esplosione dalle circostanze particolari: la bomba era stata collocata durante i lavori per la costruzione dello stadio Sultan Bilimkhanov di Groznyj. All’interno del muro dove, proprio un anno dopo, si sarebbe seduto Achmad Kadži Kadyrov. Molte persone sono morte nell’attentato, incluso Kadyrov padre stesso. Si è trattato di un progetto a lungo termine, pianificato nei minimi dettagli. Un progetto che implicava l’accesso ai costruttori, agli operai, ai materiali e il coinvolgimento di più di una persona. L’esecuzione di un piano del genere richiede la coordinazione di un gruppo di persone, risorse consistenti, e una pianificazione meticolosa.

Molti reportage testimoniano del caos di Sochi durante i lavori di costruzione delle infrastrutture. Si ritiene che i servizi di sicurezza russi congiuntamente a quelli internazionali possano impedire l’accesso dei t[]isti a Sochi durante il periodo delle Olimpiadi, e durante la preparazione ai Giochi. Sicuramente ci saranno delle misure di sicurezza rafforzate e il dispiegamento di enormi forze. Ma che cosa sappiamo di quello che si è verificato durante la costruzione? Sappiamo per esempio che è stata impiegata molta forza lavoro proveniente da paesi arabi. Ne hanno parlato le organizzazioni internazionali per i diritti umani. Sappiamo che per molto tempo gli operai non sono stati pagati, il che significa che potrebbero essere “inclini” ad accettare denaro da una terza parte interessata, per così dire.

Come mai gli esperti non parlano della possibilità della ripetizione di quanto successo allo stadio di Groznyj il primo maggio 2004? Io personalmente la considero un’eventualità assolutamente concreta. Non lo dico perché sono in possesso di chissà quali informazioni, mi baso sull’analisi di quanto successo a Groznyj e a Sochi. Dokka Umarov è molto esperto, ed è specializzato in questo tipo di operazioni. Va tenuto presente, inoltre, che, nel corso degli ultimi due anni, si è sentito parlare di lui molto poco. Non si sa dove si trovi, ci sono state solamente informazioni contraddittorie: “è in Inguscezia”,  “è in Daghestan”, “è in Georgia”.

Non abbiamo dati certi sui suoi movimenti degli ultimi due anni. Non si può escludere un’operazione complessa, multistrato, accuratamente pianificata. Mi è difficile  considerare Sochi un posto sicuro. Ramzan Kadyrov può anche credere di essere in grado di  controllare e trattenere i gruppi di guerriglieri che si trovano in Cecenia. Attraverso i valichi, certo, è possibile, e soprattutto, il tragitto è breve. Ma se ci sono stati degli spostamenti ci sono stati d’estate, perché d’inverno è impossibile transitare, i valichi sono chiusi dalla neve. Eventuali spostamenti di guerriglieri si sono verificati in estate, fra maggio e settembre. Le misure di sicurezza introdotte a  Sochi da novembre in avanti, sono state introdotte troppo tardi. 

Non è la prima volta che un paese che ha avuto un conflitto con la popolazione indigena organizza i Giochi Olimpici. È successo a Vancouver, e prima ancora a Sidney. Canada e Australia hanno visto in quest’evento l’opportunità di una riconciliazione nazionale. La Russia no…

La sua domanda è sulla questione circassa, vero? Io etnicamente sono circassa. Sono tanti i circassi che parlano di boicottaggio , un boicottaggio sostenuto a livello internazionale, dove il rifiuto alla partecipazione viene in primis dai paesi stessi. Quest’alternativa non è la mia preferita. Io vorrei piuttosto che gli atleti, gli imprenditori, tutti coloro che sono implicati in quest’Olimpiade, facessero una scelta sul piano etico, e decidessero che è immorale partecipare ai Giochi di Sochi. Vorrei che fosse la scelta individuale di ciascuno. Per gli atleti, certo, sarebbe una grande rinuncia. 

La mia famiglia ha personalmente sofferto durante quei lunghi anni di guerra. Sono cresciuta ascoltando i racconti della mia bisnonna, racconti che atterrivano. La mia bisnonna raccontava che il fiume del suo villaggio era saturo di cadaveri. Ragazzini, donne, bambini… nemmeno i cani si avvicinavano per berne l’acqua. Quando i russi si avvicinavano al villaggio, di solito all’alba, verso le quattro di mattina, la gente capiva che stavano per arrivare perché gli animali iniziavano a strepitare: i cani abbaiavano, le mucche muggivano, i cavalli nitrivano, le oche starnazzavano.

Le truppe scortavano i carri con le teste dei circassi decapitati, inviate come “esemplari” alla Kunstkamera di San Pietroburgo. E gli animali ne avvertivano l’odore. Questo racconto io l’ho sentito dalla mia bisnonna, per noi non si tratta di una storia remota. E che Krasnaja Poljana (la montagna dove si svolgeranno le competizioni olimpiche) sia un luogo intriso di sangue, lo testimoniano anche gli appunti e i rapporti dei generali che hanno partecipato a queste ultime battaglie. Una canzone circassa narra che, fino all’ultimo grido, tutti coloro che potevano tenere in mano dei bastoni – dei bastoni, non delle armi – donne, e bambini, tutti uscirono incontro ai russi, e tutti morirono. 

Ho visitato la diaspora circassa in tutti i paesi. Ho parlato con gli anziani, perché ho scoperto che i giovani non conoscono la nostra storia. Ho chiesto agli anziani perché non gliel’hanno raccontata. Mi hanno risposto che è una storia talmente orripilante e dolorosa che hanno paura di spingere i ragazzi alla vendetta. E non vogliono metterne a rischio la vita, sono già morti in troppi. Così hanno spiegato la loro decisione di spezzare questo circolo di morte. I circassi della diaspora, ma anche quelli in Russia, cercano di protestare con mezzi assolutamente pacifici e democratici. Attendono una risposta dal governo russo alle moltissime dichiarazioni. Alla fin fine, tutto quello che si chiede è che il governo russo riconosca che si è trattato di un omicidio di massa su base etnica.

Oggi il riconoscimento del genocidio è percepito come un argomento politico, regolato dalle normative internazionali… allora non dite che è un genocidio. A me sembra che Vladimir Putin e la sua squadra al Cremlino non rappresentino il vero popolo russo. Ci sono, fra i russi, persone meravigliose, che hanno un approccio profondamente spirituale, non solo riguardo la questione circassa, ma anche nei confronti delle altre etnie. Persone che portano il peso della colpa di fronte agli altri popoli e che lo tramandano di generazione in generazione, il senso di colpa di fronte a coloro che il loro governo ha schiacciato e annientato nel corso dei secoli fino ad oggi.

Fino a quando queste persone, il germe spirituale del popolo russo, non si pentiranno davanti alle vittime del loro governo, in Russia nulla cambierà mai. Il pentimento è la cosa principale, è il primo passo. Dovranno farlo. E prima o poi succederà. Lo credo fermamente. 

Ma per il Canada e l’Australia non è stato un problema insormontabile riconoscere lo sterminio dei popoli indigeni, in Russia sembra che manchi la volontà.

mappa Caucaso

mappa Caucaso – elaborazione OBC

Non è solo questione di volontà. Se parliamo delle masse, sono vittime della propaganda. Una propaganda con pericoli, minacce, nemici. Può essere che, a livello di subconscio, ben conoscendo tutto ciò che i popoli del Caucaso del Nord hanno patito da parte dei russi, non si attendano altro che odio, e per questo ci percepiscano come una minaccia. Ci dev’essere una parte della memoria storica, della memoria genetica, che blocca la possibilità di un processo di riconoscimento. Ma prima o poi si verificherà.

Sette anni fa, se aveste fatto una ricerca su Google col termine “circassi”, avreste avuto un centinaio di risultati. Se la fate oggi, ne avete invece migliaia. Ormai non si tratta più solo di un problema interno russo. La diaspora è presente in molti paesi, ed è numerosa. Non ci sarà più la possibilità di negare l’esistenza stessa della questione. La costruzione delle infrastrutture di Sochi è stata una vera e propria opera di negazionismo e dissimulazione. Siamo stati privati per sempre della possibilità di avere, un giorno, delle esequie di massa, seppellire i nostri morti e costruire un memoriale. Tutto è stato sommerso dal cemento. Sono state ritrovate centinaia di ossa.

Uno degli operai si è licenziato, perché mentre manovrava il bulldozer per scavare le fondamenta, ha scoperto quella che, di fatto, era una fossa comune. Corpi umani, ossa, adulti, bambini. Era sotto shock, tremava, mentre me ne parlava. Non abbiamo evidenze documentarie della continuazione contemporanea di questa guerra, sì, è la continuazione, è una profanazione! Sono passati sul mio popolo con il bulldozer per la seconda volta. L’operaio si è licenziato. Ha detto: “Non me la sento più di lavorare lì”.

Molti antropologi occidentali definiscono questo processo come “storia nascosta”, perché in Russia fanno di tutto per dimenticare e far dimenticare. Conoscete la storia dell’Imam Šamil’ e della sua resistenza, vero? Šamil’ figura in tutti i manuali di storia russa, perché è un nemico fiero che si è arreso e ha riconosciuto la grandezza dell’Impero Russo, rendendo così la sua vittoria una vittoria significativa. Di Šamil’ è stato fatto un uso propagandistico, dagli storici e dai politici russi, dal momento che si presta ad essere usato come la testimonianza di ciò che i Russi hanno portato in Caucaso, come dicono i loro materiali: storia, istruzione, cultura. Ma con i circassi: artigianato, agricoltura, cultura, tradizioni, storia, tutto quello di cui si legge nelle varie pubblicazioni nazionali e internazionali, è stato annientato fino alle radici. Come andarne fieri? Come scriverne nei manuali di storia, posto che manca la volontà di riconoscerlo e di scusarsene? Ovviamente non è ammissibile. Per questo è definito un genocidio nascosto. Che, purtroppo, tale rimane. 

Lei ha seguito da vicino il caso dell’attentato di Boston  e dei fratelli Carnaev. Ha intervistato i parenti dei ragazzi. Qual è stata la sua impressione?

Prima di tutto è stata una tragedia terribile. Sono morte delle persone, delle vite sono state mutilate. Una tragedia per tutti, ma anche la tragedia di una famiglia. Ho incontrato persone della diaspora, gente che conosce la famiglia Carnaev da molti anni, ho parlato con i giornalisti che li hanno incontrati. Quello che emerge è il quadro di una tragedia familiare, una tragedia da rifugiati, nata dal conflitto fra il tentativo di conservare le proprie tradizioni e quello di adattarsi. Sicuramente questo conflitto ha avuto un ruolo in quanto successo a Boston. È la storia del fallimento di un processo di adattamento ad una nuova vita e ad altre condizioni. Alla base del dramma familiare ho trovato aspettative troppo alte che sono state deluse, figli che non hanno giustificato le speranze dei genitori, ma anche genitori che non si sono rivelati all’altezza delle aspettative dei figli.

Riferiscono che la madre all’inizio era una donna molto allegra e vivace, che adorava i suoi figli, anche nell’abbigliamento, portava il berretto con la visiera al contrario, come nelle foto di Džokar che sono state diffuse, indossava pantaloncini corti. Poi con il tempo, inizia a osservare i figli che crescono, ma non come lei si aspetta. Attraverso la religione tenta di attirarli a sé e tornare insieme alle loro radici. Contemporaneamente il rapporto col marito naufraga, lui comincia a bere, si verifica una rissa in seguito alla quale, per evitare un procedimento penale, lui rientra in Russia, in Daghestan, e lei lo raggiunge poco dopo. Apparentemente, rientra poco dopo aver ricevuto il passaporto americano. Džokar si ritrova così in totale solitudine, senza più una casa, la sua casa diventa lo studentato dove vive, che però non sarà mai una vera casa. In apparenza, la scuola, le materie che aveva scelto gli piacevano, così i nuovi amici, ma col senno di poi, sembra ovvio che, in realtà, tutto è rimasto in superficie.

Gli ultimi mesi per i due ragazzi sono stati molto duri, anche da un punto di vista economico, di fatto erano pronti già a farsi esplodere. La religione è diventata, allora, una via di fuga. Qualcuno mi ha raccontato che la moglie di Tamerlan ha gettato via le pubblicazioni a cui il marito era abbonato: molti giornali sulle varie teorie della cospirazione. Era stato abbonato regolarmente per anni a questo genere di riviste. Probabilmente tali letture hanno avuto un qualche effetto su di lui. È stato un insieme di fattori, inclusa l’idea romantica ed epica che avevano del presente e del passato del loro popolo… è una storia lunga, si potrebbe aggiungere molto altro… ad esempio mi ha molto meravigliato il comportamento di Džokar durante la prima udienza. Ha parlato con un accento russo molto marcato. Tutte le persone che ho intervistato e che lo hanno conosciuto hanno sempre descritto il suo inglese come se fosse di madrelingua, mentre tutti i rapporti dei giornalisti hanno sempre riferito di un accento russo molto marcato. Che cosa abbia voluto mostrare o dimostrare con questo atteggiamento non saprei, ma di certo l’ha fatto con uno scopo preciso. In qualche modo, anche lui è una vittima, come le sue vittime.

Di cosa scriveva, prima di essere costretta ad abbandonare la Russia? 

Di varie cose. Di quello che succedeva. Quando in Caucaso compare lo spiraglio di un’informazione obiettiva, la gente si precipita. Mi chiamavano, mi dicevano: “Venite da noi”, e io andavo. Ho scritto, per esempio del caso di una scuola in Karačaevo-Circassia. La scuola era inagibile, e le classi sono state trasferite temporaneamente in un laboratorio abbandonato, dove in passato si lavoravano materiali radioattivi. Alcuni bambini si sono ammalati di leucemia. Tutte le autorità hanno recisamente negato il legame diretto fra i casi di leucemia e il laboratorio. E’ successo tanto tempo fa…

Uno degli articoli che ha fatto infuriare le autorità di una repubblica, per esempio, era dedicato ai malati di diabete che morivano perché il ministero della Sanità rubava sui fondi per l’insulina. Dai documenti ufficiali risultava che distribuivano la quantità di insulina necessaria, di fatto davano dosi insufficienti, e la gente moriva, perché non aveva i soldi per comprarla al mercato nero. E questa è una tortura, e una presa in giro di gente malata. I fondi erano ripartiti fra il ministero delle Politiche Sociali e il ministero della Sanità. Ho ottenuto i documenti veri e li ho pubblicati. Dimostravano che entrambi i ministeri rubavano. Scrivevo di quello che accadeva. E accadevano cose terribili.

La Kabardino-Balkaria, è stata in fermento ultimamente per diverse ragioni, tra cui anche le richieste, presso la Corte europea dei diritti dell’uomo, di risarcimento del danno morale per le deportazioni subite.

Questa è una questione molto complicata, che affonda le sue radici nelle deportazioni staliniane, come molti dei problemi interetnici nel Caucaso del Nord. Di questa pagina nera della storia del Caucaso esistono differenti interpretazioni. Secondo quella ufficiale, alcuni popoli sono stati deportati a causa del collaborazionismo con i tedeschi. Tuttavia, è anche vero che molti russi hanno collaborato con i nazisti e non sono stati deportati. La maggior parte dei popoli del Caucaso vede nella deportazione la continuazione della passata repressione collettiva.

Per noi circassi esiste ancora un’altra interpretazione. Prendete una cartina e considerate quali popoli sono stati deportati: scoprirete che sono quelli che erano stanziati lungo il confine. I territori Karačaj sono stati completamente ripuliti, e sono stati ripopolati dagli Svani, trasferiti lì. In Kabardino-Balkaria è avvenuta la stessa cosa. Ed è stato l’unico caso in cui le donne, le donne cabardine, si sdraiavano davanti ai camion che portavano via i balcari. Molte famiglie hanno accolto bambini balcari per salvarli dalla deportazione. Quello che sta succedendo adesso in Kabardino-Balkaria, da una parte è estremamente complesso. Dall’altra parte, si basa sul principio: Divide et impera. Per qualcuno è necessario che ci sia sempre un conflitto, che sia la questione agraria, o qualsiasi altro pretesto. L’importante è mettere due popoli l’uno contro l’altro. Si creano ad arte problemi che non sono mai esistiti prima. Si tratta di un triangolo che ha alla base due popoli e al vertice una terza forza che, creando conflitti, manovra agevolmente gli uni e gli altri secondo i propri interessi. 

Tra il 1944 e il 1945 i popoli caucasici caraciai, ingusci, ceceni e balkari, accusati di collaborazionismo con l’esercito tedesco furono deportati verso la Siberia e l’Asia Centrale. Contributo video

Il Caucaso del Nord attira l’attenzione per molti tipi di progetti…

Penso che lei si riferisca a Chloponin . Quando lavoravo ancora in Kabardino-Balkaria, 2006, Chloponin aveva un vivo interesse per il sottosuolo. In particolare, avrebbe voluto acquisire un impianto minerario di arricchimento. In quell’area ci sono problemi ecologici gravissimi, enormi quantità di rifiuti radioattivi a cielo aperto, che lentamente contaminano il fiume Boksan, e avvelenano quanti ne bevono l’acqua. Ma allo stesso tempo sono terreni ricchi di risorse minerarie: enormi depositi di tungsteno e molibdeno, secondo alcune stime le riserve più ingenti al mondo. L’allora presidente della Kabardino-Balkaria, Arsen Kanokov, rifiutò di vendere. Chloponin era enormemente attratto anche da Priel’brus’ie. All’epoca Chloponin era un uomo d’affari, oggi è il Rappresentante del Presidente del Distretto Federale del Caucaso del Nord. C’è altro da aggiungere?

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