Sochi e i mercenari islamici
Nel Nord-Caucaso, alla vigilia dei Giochi, protetti da un imponente servizio di sicurezza, sembra regnare un’atmosfera di attesa piena di allarme. A preoccupare anche il fenomeno dei giovani russi convertiti al radicalismo islamico. La storia di Pavel Pečonkin morto suicida a Volgograd
Stanno ormai per aprirsi nella città russa di Sochi le Olimpiadi invernali del 2014. Dopo i sanguinosi attentati del dicembre scorso a Volgograd e di gennaio a Makhachkala si sente il peso delle minacce perchè sappiamo che i „Giochi” sono nel mirino degli estremisti islamici, wahhabiti o salafiti, deobandi, khilafatisti, qaedisti o shariatisti che siano.
La questione circassa
Ma il fanatismo religioso ha anche un risvolto etnico, giustificato dal fatto che i luoghi oggi delegati ad ospitare le Olimpiadi, sono anche i luoghi che nel XIX sec. videro i massacri delle popolazioni locali, ad opera della Russia zarista, nel corso della lunghissima Guerra caucasica (1817-1864). Sochi fu la capitale dei circassi (čerkesy, adyghè, kabardini) un popolo che i russi combatterono e poi espulsero in massa dal Nord-Caucaso verso l’Impero Ottomano nel corso e dopo la fine di quella guerra. Un’operazione che lasciò dietro di sé centinaia di migliaia di morti.
Krasnaja Poljana, che in febbraio sarà il centro di molte attività olimpiche, si chiamava allora Kbaada, e fu la “fossa comune” del “genocidio” circasso. Chi andrà a sciare sulle piste di Krasnaja Poljana, lo farà letteralmente sulle ossa delle vittime di uno sterminio. Nel fissare la data dei Giochi invernali, gli organizzatori russi hanno ignorato, vuoi per insipienza, trascuratezza o deliberato desiderio di offendere i loro nemici di due secoli fa (ma riteniamo più probabili le prime due ipotesi) la circostanza che il 2014 è esattamente il 150° anniversario della sconfitta e della resa dei circassi nel 1864 e quindi della fine ingloriosa della Guerra caucasica.
Oggi, alla vigilia dei Giochi, protetti da un imponente servizio di sicurezza, sembra regnare nel Nord-Caucaso un’atmosfera di attesa piena di allarme. Se ne preoccupa il Dipartimento di Stato americano che, in un pro-memoria pubblicato sul suo sito, ricorda una dichiarazione di Doku Umarov, capo del virtuale Imarat Kavkaz, del luglio 2013 in cui esorta i guerriglieri a far saltare le Olimpiadi e a ritirare la moratoria da lui precedentemente proclamata, sugli attentati fuori dal Nord-Caucaso.
La storia di Pavel Pečonkin, il russo convertito all’islam
Intanto sono apparse informazioni più precise sul possibile šahid (“martire” nel ductus islamico, cioè t[]ista suicida) che il 29 dicembre si fece esplodere nella stazione ferroviaria di Volgograd provocando la morte di 17 persone. Si tratterebbe di un personaggio dal nome inequivocabilmente russo, Pavel Pečonkin, dalla primavera del 2012 membro del “gruppo di fuoco” di Bujnaksk (Daghestan), ma originario di Volžsk nella repubblica settentrionale russa di Marij El. L’attività di Pečonkin solleva il problema delle ragioni che spingono alcuni russi a identificarsi con il radicalismo islamico, a convertirsi e a partecipare alle azioni anche più cruente dei guerriglieri.
Il caso più famoso è senza dubbio quello di Abu Saad Said al-Buriyati, noto semplicemente anche come Said Burjatskij, il cui nome originario era però Aleksandr Tichomirov. Era nato nel 1982 a Ulan Udè nella Repubblica mongola di Burjatija e fu ucciso nel 2010 in Inguscezia nel corso di un’azione t[]istica. Il russo Said Burjatskij era diventato uno dei più ascoltati ideologi della guerra per la creazione di uno stato islamico nel Nord-Caucaso.
Torniamo a Pečonkin. Nei suoi luoghi d’origine (la fonte è Interfax) egli lavorava come infermiere del pronto intervento, l’equivalente del nostro “118”. Questa informazione, tuttavia, non è confermata da ciò che è riuscito a sapere sul presunto bombarolo il giornalista Aleksej Solomin, di Echo Moskvy. “Sono stato al servizio ambulanze della città di Volžsk, ma là mi hanno detto che Pečonkin non lavorava da loro, o al massimo poteva farlo da apprendista, mentre il lavoro fisso lo aveva al pronto intervento di Kazan’, nel Tatarstan, – scrive su “Twitter” il corrispondente della radio. – Pečonkin ha terminato la scuola a Volžsk, quindi si è trasferito a Zelenogorsk, dove si è diplomato all’Istituto superiore di medicina, successivamente ha lavorato a Kazan’ da dove alla fine è scomparso”: queste sono le informazioni raccolte da Solomin.
Il giornalista di Echo Moskvy è riuscito anche ed incontrare tale Il’nur, frequentatore della stessa moschea in cui si recava Pavel Pečonkin, del quale era diventato amico. Costui ha riferito che Pečonkin non era molto ferrato sulla sostanza dell’islam, ma si era appassionato a consultare i siti islamisti radicali. “Si era cercato di farlo ragionare, ma lui si rinchiuse sempre più in se stesso”, ha detto Il’nur al giornalista, sottolineando che Pečonkin era cambiato dopo l’immersione nell’islam radicale: “Era un giovane positivo ed energico… Una persona buona, pronta ad aiutare il prossimo, e improvvisamente si chiuse in se stesso, cessò praticamente di comunicare con gli altri”. L’ultima volta che Il’nur incontrò Pavel, fu nell’inverno del 2012-2013.
Nel settembre 2013 i genitori di Pavel, Nikolaj e Fanazija Pečonkin, vennero in Daghestan e cercarono il figlio a Bujnaksk, registrando anche un video-appello. Pavel aveva intanto adottato un nome islamico, Ansar ar-Rusi, che però significa “sostenitore russo” I genitori, comunque, tornarono a casa senza averlo trovato. La successiva comparsa di Pečonkin è stata il suo appuntamento con la morte alla stazione di Volgograd il 29 dicembre 2013.
I mercenari caucasici nella guerra siriana
Intanto, dopo la denuncia del nuovo capo del Daghestan, Ramazan Abdulatipov sulla presenza di estremisti provenienti da questa repubblica fra gli insorti che combattono il regime di Bashar al-Assad, questo tema ricompare in Cecenia. Sul sito della procura di questa repubblica, pubblicato il 9 gennaio scorso, si afferma che fin dal 30 dicembre 2013 essa ha dato la propria sanzione alla denuncia dell’FSB regionale contro tale Šahid Temirbulatov sulla base di un articolo del Codice penale della Federazione Russa che contempla la “partecipazione a formazioni armate sul territorio di uno stato estero, non previste dalla legislazione di detto stato, per scopi che contraddicono agli interessi della FR”. Insomma, si tratta di attività partigiana all’estero contro un regime amico della Russia. Di che si tratta? Nel luglio 2013 Temirbulatov, trovandosi in territorio siriano, entrò a far parte di un’organizzazione armata di avversari di Bashar al-Assad, e, “ancora oggi prende parte attiva alle azioni militari contro le forze armate governative della Repubblica Araba di Siria”. La procura cecena però non comunica altri particolari su questo fascicolo.
La stampa russa incominciò a parlare di guerriglieri, cittadini della Russia, che combattono in Siria fin dall’estate 2012. Un anno dopo Aleksandr Bortnikov, allora direttore dell’FSB federale dichiarò che circa 200 guerriglieri erano entrati dalla Russia in Siria per combattere “dalla parte dell’Imarat Kavkaz sotto i vessilli di al-Qa’edah e altre strutture ad essa affiliate”. Nel settembre 2013 il primo vicedirettore dell’FSB federale, Sergej Smirnov rivelò che in Siria, contro l’esercito del presidente Assad (“il cui potere viene appoggiato da Mosca”, precisò) combattevano 300-400 mercenari provenienti dalla Federazione Russa”.
Però egli rilevò che “il possibile ritorno in Russia di una tale quantità di mercenari” rappresenta un grande pericolo, “anche per le prossime Olimpiadi invernali a Sochi”. In precedenza i media russi avevano scritto che guerriglieri provenienti dalla Cecenia avevano costituito in Siria il reparto armato al-Muhajirin “gli Emigranti”, (da hijrah “emigrazione”, “fuga”), il nome che si dettero i musulmani che seguirono Maometto dalla Mecca a Medina nel 622 d. C. E nell’ottobre 2013 gli islamisti russi nel Nord della Siria crearono l’insediamento Khilafat al-Istiqlal (“Califfato Indipendente”) con un’amministrazione autonoma e la rigida applicazione della šari’ah.
Il capo della Cecenia Ramzan Kadyrov dapprima negò categoricamente la presenza di ceceni sul territorio siriano, ma alla fine fu costretto ad ammettere che fra i combattenti in questo paese arabo vi sono anche persone provenienti dalla Cecenia. Nello stesso tempo Kadyrov si affrettò ad accusare i servizi segreti occidentali di ostacolare il ritorno in patria degli oriundi ceceni che vivono in Europa e Turchia per utilizzarli ai propri fini, inviandoli, fra l’altro, anche nel cosiddetto “Esercito libero siriano”, cioè a sostenere gli avversari di Assad.
Nel dicembre dell’anno scorso l’ambasciatore siriano nella FR, Riad Haddad ha dichiarato che il governo siriano potrebbe riconsegnare alla Russia i suoi cittadini arrestati su territorio della Siria qualora fosse dimostrata la loro estraneità alle azioni di guerra. In caso contrario i guerriglieri sconterebbero una pena per crimini di guerra nella stessa Siria. Secondo Haddad attualmente in Siria combatterebbero insieme ai t[]isti, cioè ai nemici del presidente, cittadini di oltre 83 paesi. Egli ha però sottolineato che le autorità siriane non posseggono informazioni sul numero e la composizione etnica dei gruppi di guerriglieri.