Crisi turca, il fattore economico
Mentre prosegue la crisi legata alle vicende di corruzione, in Turchia si profila un altro fattore che potrebbe condizionare lo scacchiere politico: secondo molti analisti la crescita tumultuosa dell’economia turca starebbe volgendo al termine
Lo scontro tra il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan e Fethullah Gülen, capo di Hizmet, potente movimento culturale e religioso, con forti ramificazioni nell’educazione e nei media, continua a tenere la Turchia su una corda, tesissima, di violino.
La storia ormai è nota. Tutto è cominciato a dicembre, quando è scattata un’inchiesta giudiziaria, su corruzione e dintorni, che ha portato all’arresto di diverse persone. Tra queste i figli di tre ministri. Che si sono dimessi. Erdoğan, oltre a loro, ha cambiato altri sette membri della sua squadra, cercando di allontanare dall’esecutivo l’ombra insidiosa della maxi-inchiesta.
Erdoğan vs Gülen
Questo è stato solo l’inizio. Nei giorni e nelle settimane seguenti il capo del governo ha dato il via a due purghe. L’una tra i quadri della polizia, con centinaia di ufficiali, tra Istanbul e la capitale Ankara, spostati da funzioni inquirenti a mansioni inferiori. L’altra nella magistratura, dove una raffica di nuove nomine ai vertici delle procure ha ridisegnato gli equilibri del potere giudiziario, in senso favorevole all’esecutivo.
Ma perché tutto questo? Qui sta il punto. Secondo Erdoğan l’inchiesta sulla corruzione, che ha lambito anche uno dei suoi figli, Bilal, è un attacco inaudito al suo governo, costruito artificiosamente da Fethullah Gülen grazie alle sponde importanti che può vantare nei ranghi di polizia e magistratura. Ne è scaturito il contrattacco, durissimo. Gülen respinge le accuse.
In ogni caso è innegabile che i rapporti tra i due si sono incrinati. Prima erano molto buoni. L’ascesa al potere di Erdoğan, avvenuta ormai più di dieci anni fa, è legata tra le altre cose alla mobilitazione elettorale dei seguaci di Hizmet e all’assorbimento di alcune delle idee del gülenismo – molti lo dipingono come la versione islamica del calvinismo – nella piattaforma dell’Akp, il partito del primo ministro.
Molte cose sono cambiate negli ultimi tempi. A Gülen non è piaciuta la sterzata di Erdoğan sui rapporti con Israele, piombati verso il basso, né la gestione dei fatti di Gezi Park. Il suo timore è che il cosiddetto modello turco, sintesi tra democrazia e islam, evolva in qualcosa di più autoritario. In questa cornice si iscrive la “tangentopoli”, legata a doppio filo alle imminenti scadenze elettorali. A marzo ci sono le amministrative, in agosto le presidenziali, le prime con voto diretto. Non è escluso che Erdoğan voglia salire sul gradino più alto delle istituzioni, facendone il perno del sistema. Si dice che a Gülen questa ipotesi non piaccia affatto.
Arriva lo “sboom”
C’è comunque un altro fattore che potrebbe ripercuotersi sulla scacchiera politica condizionando le mosse dei giocatori, specialmente quelle di Erdoğan. È l’economia. Molti analisti sono dell’avviso che la stagione d’oro della Turchia, esplosa proprio nel momento in cui l’Akp prese il potere, nel 2002, sta volgendo al termine. In questo arco di tempo il paese ha compiuto un balzo in avanti eccezionale, che tra il 2002 e il 2012 ha visto i redditi individuali passare da 3.676 a 10.666 dollari l’anno. La crescita è stata accompagnata dalla riduzione vistosa del debito pubblico (da circa il 70% a circa il 40%) e dalla contrazione di inflazione e deficit.
Adesso la curva potrebbe flettersi. Uno dei motivi è l’effetto che, sui paesi emergenti, Turchia inclusa, potrebbe avere il tapering in America, ossia la fine della politica di acquisto di titoli pubblici, che ha viaggiato in parallelo con una strategia di forte riduzione dei tassi. Questo ha spinto gli investitori a muoversi sui mercati emergenti, dove tassi più alti hanno garantito ritorni maggiori. Turchia, Brasile, India, Cina e altri paesi ne hanno beneficiato fortemente. Tuttavia gli stimoli della Federal Reserve vanno verso l’esaurimento e la tendenza dei capitali, già visibile, è quella di uscire da questi mercati, dove i rischi sono maggiori, riconcentrandosi su quelli occidentali, più sicuri e sulla strada della ripresa.
Le conseguenze, in Turchia, sono già tangibili. La Lira turca s’è deprezzata rapidamente, arrivando ai minimi sul Dollaro e schizzando giù notevolmente proprio a ridosso dei fatti di Gezi Park e delle recenti vicissitudini tra Erdoğan e Gülen. Segno che tra quadro economico e scenario politico potrebbe innescarsi o già si è innescato un intreccio pericoloso.
Ai problemi della Lira, che la Banca centrale turca ha cercato di risollevare con una manovra pesante sui tassi, appena portati dal 7,75 al 12%, anche allo scopo di contenere l’inflazione, va aggiunto il fatto che in Turchia il deficit delle partite correnti, ovvero lo scarto tra quanto si esporta e quanto si importa, è molto alto, come spesso capita in economie in espansione: si hanno risorse, dunque si compra. Attualmente il valore di questo parametro s’aggira sul 7-8% del Pil. Ankara lo copre appoggiandosi sui capitali stranieri in entrata. Il rischio di una loro fuoriuscita, stimolato dall’effetto tapering, può avere conseguenze rilevanti. Senza contare che l’economia, in generale, sta rallentando. Da qui al 2018 la crescita media dovrebbe attestarsi sul 4% (stime Fmi), ma in virtù dei tassi “cinesi” degli anni passati (9,2% nel 2010; 8,8% nel 2011), questo stesso rallentamento potrebbe essere avvertito addirittura come una recessione, sostiene qualche analista.
Insomma, Erdoğan, che ha sempre usato crescita e progresso come leve elettorali, potrebbe ritrovarsi con le armi un po’ spuntate. Lo scontro aperto con Gülen e l’esibizione dei muscoli sembrano rientrare in un gioco di polarizzazione dell’elettorato che depotenzi, facendola scivolare in secondo piano, la questione economica.