Cent’anni dopo, la generazione perduta
Quanto centrale il ruolo dei conflitti nei Balcani nello scoppio della Prima guerra mondiale? Assistiamo ad un dibattito pubblico ancora con visioni nazionaliste? Quale il significato delle commemorazioni del Centenario in Europa? Un’intervista a Jay Winter
Il centenario dello scoppio della Prima guerra mondiale si sta avvicinando e diversi osservatori segnalano il rischio che possa portare ad un risorgere di sentimenti nazionalisti, non solo nei Balcani, ma in tutta Europa. Considera tale rischio reale?
Non vi sono rischi di un revival nazionalista, dal momento che si tratta di una circostanza commemorativa luttuosa e non celebrativa. Il carattere transnazionale degli atti e degli eventi commemorativi evidenzia il diffuso riconoscimento della guerra del 1914-1918 come catastrofe collettiva, rendendo la parola "celebrazione" impossibile da utilizzare, dato il ricordo di devastazione che la guerra ha lasciato. Ciò è assolutamente appropriato, in quanto è assurdo celebrare un evento in cui 10 milioni di uomini sono morti e 25 milioni sono stati feriti.
Il dibattito pubblico relativo al Centenario ha portato immediatamente a discutere su quale paese vada considerato colpevole dello scoppio del conflitto (Germania, Serbia, ecc.) Nell’area balcanica si è aperta una tesa disputa rispetto alla figura di Gavrilo Princip, considerato da alcuni un eroe, da altri un t[]ista. Come interpreta la centralità di questo problema?
Non c’è da stupirsi che in un’epoca ossessionata dal t[]ismo le attività del gruppo t[]istico serbo Mano Nera vengano considerate oggi di importanza centrale nello scoppio della guerra e che venga data più enfasi che mai in passato alla colpevolezza del governo serbo per questo tipo di violenza. La mia opinione è che ciò sia allo stesso tempo vero ma non decisivo nell’interpretazione dei vari livelli di responsabilità. Continuo a credere che la guerra sia stata pianificata a Vienna e a Berlino, e che il conflitto nei Balcani non fosse destinato a scatenare una guerra pan-europea o globale. La responsabilità per il fallimento nella difesa della pace va condivisa, ma la Germania e l’Austria-Ungheria devono portare la maggior parte di colpa.
Nel mese di giugno tutti gli occhi saranno puntati su Sarajevo. È tempo per una reintegrazione delle esperienze di guerra dei paesi dell’Europa orientale nella "memoria collettiva europea", venticinque anni dopo la caduta del muro di Berlino?
La preponderanza della memoria della Seconda guerra mondiale ostacola tutt’oggi in Europa orientale la riflessione sulla Prima guerra mondiale. Inoltre, esiste ancora una viva tradizione religiosa che considera le vittime della Seconda guerra mondiale come martiri, esse come tali ottengono una collocazione di primo piano nel dibattito pubblico sulla guerra. Questo è vero in Polonia come in Russia e Ucraina, e impedirà l’integrazione degli approcci dell’Europa orientale verso la guerra del 1914-1918 con quelli presenti in Occidente.
Fino a tempi recenti, le politiche della memoria ufficiali dell’UE hanno escluso la Grande guerra, concentrandosi principalmente sulle esperienze totalitarie del XX secolo. Quali sono secondo lei le ragioni di questo ritardo?
La centralità della Seconda guerra mondiale sia nelle discussioni pubbliche che accademiche sulla storia del Ventesimo secolo va attribuita al peso della Germania nell’UE. E ora che i paesi che facevano parte del Patto di Varsavia sono entrati nell’Unione europea, la loro percezione della guerra del 1914-1918 si aggiunge alla generale indifferenza rispetto al conflitto che ha reso possibile Auschwitz.
Qual’è oggi l’approccio degli storici alla Prima guerra mondiale? Le nuove ricerche accademiche transnazionali hanno fornito strumenti utili per contrastare le letture nazionalistiche nel dibattito pubblico?
Come curatore dei tre volumi della nuova Cambridge History of the First World War, posso confermare che la storiografia transnazionale si è distanziata dalla visione della guerra essenzialmente come un conflitto franco-tedesco o anglo-tedesco. Questa attenzione all’Europa è stata sostituita da una prospettiva globale, mettendo in evidenza il carattere imperiale della guerra e il profondo significato del conflitto per l’evoluzione di Africa, Asia, Medio Oriente e America Latina.
Oggi non ci sono più testimoni viventi della Grande guerra. Quali sono le implicazioni nel nostro rapporto con quel passato?
La morte degli ultimi combattenti non ha influenzato il significato della Grande guerra nelle storie di famiglia. La storia della guerra è stata inserita nei racconti familiari, tanto che oggi sono i nipoti e i pronipoti a portare avanti la tradizione dei pellegrinaggi dalla Scozia a Sydney e da Ypres a Gallipoli.
Quale dovrebbe essere il significato delle commemorazioni del Centenario in Europa? Ci sono questioni che meritano secondo lei oggi una particolare attenzione e una più ampia riflessione collettiva?
La commemorazione deve concentrarsi sulla generazione perduta, sulla perdita di dieci milioni di uomini e sul numero anche maggiore di mutilati. Deve inoltre collegare il fallimento della pace all’esplosione della violenza negli anni Trenta in Cina, Etiopia, Spagna e Polonia. Per apprezzare l’importanza dell’integrazione europea dobbiamo tornare alla disintegrazione dell’Europa del 1914, quando è stato dato il via al nostro secolo di violenza, un periodo in cui viviamo ancora oggi.