L’euroscetticismo, i referendum, l’affluenza

L’Unione europea è democratica? Se i suoi cittadini fossero liberi di decidere la boccerebbero? Ci avviciniamo alle elezioni europee e un modo per smascherare affermazioni ideologiche, siano esse euroscettiche o euroentusiaste, è analizzare l’andamento storico dell’affluenza alle urne. Un approfondimento

04/04/2014, Nicola Pedrazzi -

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Fonte: Parlamento europeo

Tra le accuse che il fronte euroscettico ha sempre mosso al processo d’integrazione vi è quella di non rispettare la volontà democratica dei popoli che coinvolge: l’integrazione europea come scelta imposta dall’alto, guidata da élite politiche colluse con potentati economici transnazionali e servili nei confronti del sistema capitalistico instauratosi sul continente all’indomani della vittoria americana.

Anche oggi l’opposizione all’Unione europea riesce a unire gli estremi, mettendo d’accordo movimenti di natura opposta. Il frasario a disposizione del composito fronte d’opposizione è vario ed efficace. Tuttavia, al pari di certe semplificazioni europeiste, anche le argomentazioni euroscettiche si nutrono volentieri di falsità storiche.

Una di queste riguarda sicuramente i referendum sull’integrazione europea. Nel decennio appena trascorso, il processo di ratifica parlamentare dei trattati – previsto, lo ricordiamo, dalle costituzioni della maggioranza degli stati membri – è stato più volte accusato di non democraticità. Il mantra euroscettico è sempre lo stesso, e recita più o meno così: "Ogni volta che i cittadini sono stati lasciati liberi di votare, l’Europa è stata bocciata".


I referendum europei: la verità storica

Guardando i dati si scopre esattamente il contrario. Dei 36 referendum europei tenutisi dal 1972 a oggi, solo 9 ebbero esito negativo: i due referendum di adesione della Norvegia (1972 e 1994), la prima ratifica del trattato di Maastricht da parte della Danimarca (1992), i due referendum sull’adozione della moneta unica tenutisi in Danimarca (2000) e Svezia (2003), le ratifiche irlandesi dei Trattati di Nizza e Lisbona (2001 e 2008) nonché, com’è noto, le ratifiche del Trattato costituzionale da parte di Francia e Olanda (2005).

Al pari della recente, e più volte sottolineata, bocciatura francese al Trattato costituzionale, altre ratifiche popolari, coronate invece dal successo, furono cariche di implicazioni politiche. Basti pensare al 68% di votanti francesi che dissero «sì» all’ingresso della Gran Bretagna nelle Comunità dopo un decennio di gaullismo (1972) o alle più recenti consultazioni che hanno determinato il grande allargamento a est: escluse Estonia e Lettonia (ferme al 67% dei consensi), gli altri sei paesi che ratificarono il trattato di adesione per via referendaria ottennero un consenso pari o superiore al 77% dei votanti, con picchi oltre il 90% (Slovacchia e Lituania).


L’affluenza, vero indicatore di consenso

La confusione che vige su questi dati deriva dal fatto che le cifre dei referendum europei vengono spesso citate strumentalmente, a sostegno di tesi aprioristiche. Il dato fondamentale, quello dell’affluenza, viene invece spesso trascurato.

Se invece di guardare all’esito guardassero alla partecipazione, gli euroscettici ad esempio scoprirebbero che l’Irlanda aveva sì bocciato il Trattato di Lisbona, ma con il voto di appena il 53% degli aventi diritto. Similmente, gli europeisti che si fregiano delle percentuali registrate nei paesi dell’est all’atto del loro ingresso nell’Ue si renderebbero conto che il più delle volte quei plebisciti vennero espressi da una misera base elettorale.

In effetti, guardando all’affluenza, il "grande allargamento" del 2004 assume tutt’altri connotati: in Slovenia votò il 60% degli aventi diritto, in Ungheria il 46%, in Lituania il 63%, in Slovacchia il 51%, in Polonia il 59%, in Repubblica Ceca il 55%, in Estonia e Lettonia il 67%. Ferma restando la falsità del mantra euroscettico – secondo cui ogni referendum rivelerebbe l’avversione dei cittadini all’Europa – è pur vero che per stimare il reale livello di adesione all’Unione attraverso l’analisi dei voti nazionali non si può prescindere dal dato dell’affluenza.


I Balcani secondo l’affluenza alle urne

La zona d’Europa su cui è più importante mantenere il termometro del consenso è senza dubbio la penisola balcanica: una zona su cui l’Unione ha scommesso il proprio futuro geopolitico. È dal 1999, a partire dal lancio del Processo di Stabilizzazione e Associazione come strategia di allargamento, che tutti i paesi dell’area sono in viaggio verso l’Europa.

Ad oggi, solo Slovenia e Croazia hanno ultimato il loro cammino. Macedonia, Montenegro e Serbia sono candidati; Albania, Bosnia Erzegovina e Kosovo vengono definiti "candidati potenziali". Se si guarda alle consultazioni popolari che hanno scandito l’iter di adesione di Slovenia e Croazia, il tasso di europeismo delle popolazioni coinvolte sembra calare al progredire dell’integrazione: il dato dell’affluenza è, in questo senso, emblematico.

Per quanto riguarda la Slovenia, partecipò al referendum sull’adesione il 60% dei cittadini; tuttavia, a distanza di pochi mesi, alle europee del 2004 l’affluenza si fermò al 28%: una soglia rimasta insuperata nel 2009. Ancora più allarmante è il percorso della Croazia. Nel gennaio 2012 si espresse sull’integrazione solamente il 43% dei cittadini croati – fu un record doppiamente negativo: l’affluenza più bassa mai registrata sia a livello nazionale che in un referendum d’adesione – mentre alle prime elezioni europee (tenutesi, nell’aprile 2013, unicamente in Croazia, al fine di assegnarne i seggi) partecipò appena il 21% degli aventi diritto – non senza eleggere, con il numero più alto di preferenze, Ruža Tomašić, la più importante esponente del fronte anti-integrazione.

Questi dati sono tanto più impressionanti se si considera che soltanto nel 2003, nell’anno in cui la Croazia presentava la propria domanda di adesione, l’85% dei cittadini croati si dichiarava in favore dell’Europa. A dieci anni di distanza, a integrazione compiuta, la situazione sembra essersi capovolta.


Europa di oggi, Europa di domani

Come emerge da un’interessante analisi di Roberto Belloni, siamo di fronte a due Balcani: quelli "asburgici", già compiutamente europei, e i "Balcani ottomani", oggi come allora alle porte dell’Occidente. Se i primi sono in Europa, sono però questi ultimi a essere europeisti.

Il che, a pensarci, non sorprende affatto: per un neo-membro come la Croazia, l’Europa di oggi è il vincolo – un limite fatto di patto di stabilità, di ristrutturazione economica, di politica agricola comunitaria – mentre per un non-ancora-candidato come l’Albania, l’Europa di domani è la libertà – lo si è visto molto bene nel 2010, in occasione dei festeggiamenti per la liberalizzazione dei visti.

In conclusione, stando a quanto suggeriscono i dati dell’affluenza alle urne europee, per ritrovare l’euroentusiasmo è necessario allontanarsi dai confini dell’Unione. Un’alternativa, forse, ci sarebbe: per salvare l’affluenza – che non è una percentuale, ma il reale sostegno popolare di cui gode il progetto europeo – potremmo provare a costruire un’altra Europa, magari più simile all’immagine che, da fuori, hanno (ancora) di noi. Un’Europa del domani.

 

Questa pubblicazione è stata prodotta con il contributo dell’Unione Europea, nel quadro dei programmi di comunicazione del Parlamento Europeo. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea. Vai alla pagina del progetto BeEU – 8 Media outlets for 1 Parliament

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