Cercavano la pace (I)

Furono più di 20.000 i cittadini italiani che si attivarono negli anni ’90 nella solidarietà all’ex Jugoslavia e all’Albania. Osservatorio sta dedicando loro il progetto di ricerca “Cercavamo la Pace”. Un viaggio in due puntate che attraversa i materiali raccolti

22/05/2014, Marco Abram, Marzia Bona -

Cercavano-la-pace-I

Nel settembre del 1991 si tiene la "Carovana per la Pace - da Trieste a Sarajevo e da Skopje a Sarajevo", foto di Luigi Lusenti

Dall’inizio delle ostilità in Slovenia e Croazia alla guerra in Kosovo, sono almeno 20.000 i cittadini italiani che si attivano nella solidarietà verso le popolazioni della Ex-Jugoslavia e dell’Albania. Una mobilitazione che comincia nei primi mesi di guerra e che già nell’estate del 1993 vede 5.000 persone impegnate tra la costa croata e la Bosnia, mentre il sistema politico italiano affonda in Tangentopoli e l’atmosfera referendaria smuove lo scenario politico interno del paese.

Tra i volontari c’è chi viene dalla militanza di sinistra e chi dagli ambienti cattolici, chi dall’area nonviolenta e chi dai sindacati. Molti si trovano coinvolti per la prima volta nel mondo dell’associazionismo e del volontariato. Coloro che vi partecipano non sono accomunati nemmeno dall’età, dalla professione o dalla provenienza geografica, ma in tempi e modi diversi scelgono di agire in prima persona per non limitarsi a seguire le notizie su quella che si caratterizza, titola Avvenimenti già nel 1991, come una “guerra in casa”. La diversità degli attori sociali coinvolti nella mobilitazione caratterizza il movimento italiano di solidarietà verso i Balcani come un fenomeno trasversale, che vede componenti sociali fortemente differenziate attivarsi in favore delle popolazioni colpite dal conflitto in Ex-Jugoslavia. E’ una storia da ricostruire e studiare nella sua eccezionalità e nelle sue contraddizioni, che certamente ha avuto un impatto significativo sulla società civile italiana e sul suo rapporto con il contesto internazionale.

L’emergenza

L’eco dei primi scontri tra l’Armata Federale Jugoslava e le forze armate slovene raggiunge l’Italia e i primi e in parte disorientati gruppi di pacifisti lanciano a Trieste – sul confine – una manifestazione per la pace. L’illusione che il superamento della Guerra fredda abbia inaugurato un tempo di distensione internazionale e di pace svanisce rapidamente. Pochi giorni dopo alcuni rappresentanti della società civile italiana si spingono fino a Belgrado, su invito della neonata ma molto attiva Helsinki Citizens’ Assembly. È il primo incontro transnazionale, nel quale si discute di ciò che sta accadendo nella regione con esponenti della società civile e personaggi di spicco come Milovan Ðilas e Lech Walesa. In quella che era ancora formalmente la capitale della Jugoslavia, nasce l’idea della Carovana della Pace, che nel settembre 1991 porterà quattrocento cittadini europei in tutte le capitali della Federazione jugoslava, dando vita ad una prima esperienza inedita, della quale OBC oggi sta recuperando importanti testimonianze.

A partire dall’autunno del 1991 la mobilitazione conosce un primo slancio. Si attivano i primi gruppi per portare supporto alle popolazioni, in particolare nella Croazia sconvolta dalla guerra. In prima linea il mondo cattolico, anche grazie alle iniziative delle strutture Caritas, ma anche molti gruppi informali di cittadini, sorti proprio per coordinare l’intervento umanitario. Dove non vengono creati comitati ad hoc, sono realtà preesistenti a fare da riferimento: ARCI, Associazione per la Pace e i tanti gruppi pacifisti e non-violenti già attivi negli anni precedenti.

L’intervento è rivolto inizialmente ai campi profughi in Slovenia e Croazia e si concentra sulla raccolta e distribuzione di generi di prima necessità. Sono decine e decine le realtà sparse su tutto il territorio italiano che si ritrovano impegnate in questo genere di attività, cittadini in molti casi alla prima esperienza di coinvolgimento diretto in un’emergenza umanitaria. Tra coloro che hanno contribuito alla raccolta di materiali e documentazione lanciata da OBC, segnaliamo i volontari di Asti e Cremona che lavorano nel campo profughi di Učka in Istria, il gruppo di Pesaro che tramite il programma nazionale “Un Sorriso per la Bosnia” si occupa dell’animazione nel campo di Ilirska Bistrica, e l’associazione Tolbà di Matera, attiva nel campo profughi di Posušje.

Con il tempo maturano interventi volti ad integrare le attività di raccolta e distribuzione degli aiuti umanitari: diversi gruppi si dedicano all’organizzazione di affidi a distanza che coinvolgono sia i singoli gruppi familiari che campagne di adozione di strutture, come Pobrini se za nas – Prenditi cura di noi”, organizzata dalla Rete di Iniziative contro la Guerra di Padova. Volontari nelle vesti di “postini” consegnano lettere tra persone separate dai fronti, in questo modo il gruppo dei Beati i Costruttori di Pace riesce a rompere idealmente l’assedio di Sarajevo. Con lo stesso obiettivo ARCI e ARCI Nova Milano promuovono, a partire dall’ottobre del 1992, il telefonski most, che permette i collegamenti telefonici fra luoghi dell’ormai ex-Jugoslavia, impossibilitati a comunicare a causa delle politiche isolazioniste dei rispettivi governi.

L’accoglienza

L’arrivo dei primi profughi in Italia apre un nuovo fronte di solidarietà interno, legato alla necessità di predisporre misure adeguate per l’accoglienza e l’ospitalità delle persone che cercano riparo in Italia. La legge 390 del 1992 riconosce il diritto all’ingresso e al soggiorno per gli “sfollati” (così vengono definite le persone in arrivo, aggirando le formule in uso nelle convenzioni internazionali). Viene loro garantito lo status umanitario di carattere temporaneo, e si prevedono forme di ospitalità gestite dall’ente pubblico. Particolarmente significativa è l’apertura rispetto ai “giovani cittadini delle Repubbliche ex-jugoslave che siano in eta’ di leva o richiamati alle armi, che risultino disertori o obiettori di coscienza". La norma, che riconosce il diritto alla tutela anche per i disertori, è fortemente voluta da gruppi e associazioni della società civile, coerentemente con altre azioni di sostegno alle forze pacifiste presenti nei territori colpiti dalla guerra.

Tuttavia, le intenzioni positive che ispirano la norma riguardante l’accoglienza dei profughi si scontrano ben presto con i limiti emersi nella sua implementazione. Fra le strutture gestite dallo Stato, molte sono ex-caserme in disuso (in Friuli, Veneto e Trentino-Alto Adige, ad esempio), luoghi inadeguati sia in termini di capacità numerica che per il loro carattere “concentrazionista”.

La società civile evidenzia da subito le criticità di tale scelta, di fronte alla quale si va progressivamente organizzando una rete dal basso di esperienze di accoglienza diffusa gestite da singoli, associazioni ed enti locali. In questo senso la società civile agisce sfruttando un vuoto normativo che fa sì che questo tipo di attività non sia esplicitamente proibito. I comitati lavorano intensamente per far incontrare la domanda di ospitalità con l’offerta di accoglienza in abitazioni private, fornita da singoli e famiglie. Si consolida così un’efficace rete di accoglienza diffusa. Si sperimenta così per la prima volta una soluzione che, sebbene non scevra di aspetti critici, influenzerà direttamente la successiva affermazione del modello di accoglienza decentrata, diffusa sul territorio e sostenuta dal forte coinvolgimento degli enti locali.

Le reti: dal locale al nazionale

L’accoglienza diffusa, gestita da gruppi dislocati sull’intero territorio italiano, mette in gioco la disponibilità dei singoli ma richiede una regia che sia in grado di coordinare le attività al di là dei contesti locali. Con l’intensificarsi delle iniziative e il moltiplicarsi dei soggetti impegnati nella solidarietà durante i primi due anni di guerra, si rafforza l’esigenza di creare relazioni orizzontali anche a livello nazionale. Si tratta di una necessità volta in parte ad ottimizzare le risorse messe in campo da un mondo che la stampa descrive come “più frastagliato del litorale dalmata”, ma anche a darsi una voce unitaria per avere più peso nel dialogo con le istituzioni italiane.

Mentre nei primi mesi dell’emergenza proliferano i Comitati locali come strumenti di coordinamento delle attività di soggetti impegnati in un medesimo territorio, l’obiettivo di consolidare una rete italiana appare da subito più ambizioso. Si tiene a Padova, nel giugno 1992, un primo appuntamento a livello nazionale: si tratta dell’Assemblea Nazionale per Progetti di Pace e Solidarietà con i cittadini della ex-Jugoslavia, promossa da ARCI, ACLI e Associazione per la Pace. Ma la convergenza delle molte realtà associative subisce una netta accelerazione grazie al lavoro sul campo, in seguito all’esperienza a Posušje in Erzegovina, dove diverse associazioni nazionali collaborano per alcuni mesi alla gestione di un campo profughi.

Lo sforzo di coordinamento tra le tante realtà che partecipano al movimento di solidarietà si intensifica e nel maggio del 1993 porta alla creazione del Consorzio Italiano di Solidarietà. Il Consorzio, che alla sua fondazione conta 180 gruppi aderenti, agisce da importante punto di riferimento per molte realtà impegnate nella solidarietà concreta: non solo supporta e coordina il trasporto degli aiuti umanitari verso i territori della Ex-Jugoslavia, ma si pone come rappresentante unitario del volontariato sia in sede nazionale che internazionale. Pur riuscendo a organizzare solo una parte del movimento di solidarietà, il Consorzio struttura un fondamentale sistema di rapporti, creando network tematici che coordinano i gruppi operanti in una specifica regione o su un tema specifico.

La diplomazia popolare

Mentre nel dibattito pubblico riecheggia da più parti la domanda polemica “Dove sono i pacifisti?”, gli attivisti e i volontari rivendicano il proprio impegno lontano dai riflettori. “Pacifismo concreto” lo chiama l’europarlamentare verde Alex Langer, altri rivendicano l’affermazione della “diplomazia dei popoli”: la crisi in corso non può essere gestita esclusivamente dagli stati nazionali, la società civile deve impegnarsi a svolgere un ruolo di primo piano rispetto alla situazione nei Balcani. E’ la visione politica che guida in quella stagione l’operato di molti soggetti della società civile e che organizza un variegato insieme di attività apparentemente molto diverse: dall’aiuto concreto alla costruzione di relazioni, dall’impegno di sensibilizzazione dell’opinione pubblica italiana fino alle grandi azioni di interposizione popolare non violenta nei territori sconvolti dalla guerra.

Nel dicembre del 1992 cinquecento pacifisti, per la maggior parte italiani, riescono ad entrare nella Sarajevo assediata, dando vita all’esperienza che nella memoria di molti rimane il maggior successo della diplomazia dal basso. L’azione ha come obiettivo di manifestare solidarietà alla popolazione della città, che già da 9 mesi vive sotto assedio. Ma non meno importante è il messaggio rivolto alla comunità internazionale: che 500 pacifisti disarmati riescano ad entrare a Sarajevo è un atto d’accusa all’inazione protrattasi fino a quel momento. Don Tonino Bello, fra i principali ispiratori della marcia, rilancia esplicitamente il messaggio dalla capitale bosniaca riferendosi alla forza dell’“ONU dei popoli”.

A meno di un anno di distanza, l’esperienza di Mir Sada porta circa 2.000 persone ad inoltrarsi nella Bosnia del 1993. Questa volta però, la marcia non riesce a raggiungere Sarajevo a causa dei rischi connessi all’intensificarsi degli scontri armati. Per molti l’esperienza rappresenta un fallimento, ma non arresta le attività e al contrario dà il via a nuove esperienze e reti di collaborazione.

Se le marce sono l’espressione più visibile della diplomazia popolare, questa si articola anche in molte altre forme: dalle iniziative più eclatanti, a quelle che con maggior pazienza cercavano di tessere rapporti con la società civile locale, come il Verona forum , di cui fu instancabile animatore Alex Lager. L’obiettivo specifico di questa proposta è di garantire sostegno alle opposizioni politiche presenti sul territorio della Ex-Jugoslavia, considerando questo tipo di intervento un elemento fondamentale per il superamento del conflitto e la successiva stabilizzazione. Nella stessa direzione si muovono numerose associazioni di donne, come le Donne in Nero, che instaurano legami particolarmente stretti fin dai primi mesi con chi si oppone alla guerra sull’altra sponda dell’Adriatico.

L’idea di diplomazia popolare, al centro delle attività svolte da molti gruppi che si attivano verso i Balcani negli anni ‘90, caratterizza questa stagione di mobilitazione. Maturata nel clima internazionale della caduta del Muro di Berlino e forte delle speranze nutrite verso il potenziale della società civile di influenzare la politica internazionale, la diplomazia dei popoli incoraggia una partecipazione civile “nuova” sotto molti punti di vista: non solo in termini numerici, ma anche per lo scopo e le ambizioni dell’intervento. In particolare, l’attenzione alla relazione ed alla dimensione comunitaria continueranno ad essere elementi caratterizzanti l’impegno civile nei Balcani anche in seguito alla prima fase di emergenza.

[continua…]

Commenta e condividi

La newsletter di OBCT

Ogni venerdì nella tua casella di posta