Bosnia Erzegovina: dopo il diluvio

Ritardi negli aiuti, allarmi ignorati e strumentalizzazioni hanno aggravato il bilancio delle alluvioni. La responsabilità delle istituzioni nella peggior catastrofe umanitaria in Bosnia Erzegovina dalla fine della guerra

03/06/2014, Andrea De Noni - Sarajevo

Bosnia-Erzegovina-dopo-il-diluvio

(Foto EU Humanitarian Aid and Civil Protection)

Sono passate ormai più di due settimane dal 15 maggio e dalle grandi alluvioni che hanno causato la più grande catastrofe umanitaria del dopoguerra in Bosnia Erzegovina. La fase più critica dell’emergenza, quella in cui la priorità è salvare vite umane e consegnare pacchi di aiuti umanitari, è ormai tramontata. Nelle città più colpite dalle inondazioni, Maglaj, Doboj, Bijeljina, gli abitanti cominciano a tornare a casa. Fanno i conti con i danni provocati dall’acqua, cercano di ricominciare la propria vita. Solo alcuni comuni intorno a Šamac, tra i quali – soprattutto – Domaljevac, risultano ancora coperti dall’acqua.

Fra i rifiuti e il fango, si comincia a pensare al dopo. La prospettiva non è più quella del pronto intervento, ma della ricostruzione. Ed è forse questo il momento più delicato e più tragico della catastrofe che ha colpito la Bosnia Erzegovina, anche se è una tragicità silenziosa, che si vive giorno per giorno. Si tratterà, ora, di far ripartire il paese. Un’impresa che, viste le prime cifre a disposizione, sembra disperata. Per il momento si parla di circa due miliardi di danni, anche se per le cifre ufficiali bisognerà aspettare almeno fino a metà giugno. I danni all’agricoltura, soprattutto nella regione della Posavina, sono incalcolabili. Una grande porzione del bestiame è annegato e in molte aree il suolo, ora, potrebbe essere contaminato per i liquami e i rifiuti che vi si sono riversati. "I contadini sono di fronte a un dilemma", ha spiegato il coordinatore dell’UNDP a Sarajevo, Juri Afanasijev. "Hanno ancora due settimane di tempo per piantare nuove sementi e non perdere il raccolto. Ma in così poco tempo non è possibile analizzare il terreno e capire se è inquinato oppure no. Occorre rischiare". Se andrà male, i coltivatori perderanno tutto.

Anche se i danni totali provocati dalle alluvioni e dalle frane non sono, per il momento, calcolabili, ci sono alcuni indicatori – preoccupanti – che cominciano a dare un’idea delle dimensioni della perdita subita dall’economia del paese: i danni alle infrastrutture (strade e ferrovie) della sola Federacija, una delle due entità del paese, ammontano a 27 milioni di euro; quasi 900 case sono state distrutte da frane e alluvioni; mentre altre 6.150 sono state danneggiate. A Maglaj le inondazioni lasceranno senza lavoro circa 2.000 persone. Nella sola Doboj, la città dove il bilancio umano è stato il più pesante, circa 5.000 attività commerciali sono state cancellate, secondo le stime ONU. E i soldi per la ricostruzione non arriveranno in fretta. Secondo le prime indiscrezioni, la stima dei danni reali sarà pronta soltanto tra due settimane, e una conferenza dei donatori non verrà organizzata prima di metà luglio. I primi fondi davvero sostanziosi, con ogni probabilità, non arriveranno che dopo l’estate.

La parte delle istituzioni

Dove erano, e cosa facevano, le istituzioni bosniache mentre il paese veniva sommerso dal fango e dall’acqua in dimensioni quali mai si erano verificate nel corso degli ultimi cent’anni? La domanda, ora che la confusione e la fretta degli ultimi quindici giorni sembrano essere passate, è ineluttabile.

"Per chiunque, è assolutamente impossibile cercare di fare fronte a questo tipo di emergenze prima che si verifichino, e il governo sicuramente non può influenzare la quantità di pioggia caduta", dichiarava Milorad Dodik, il presidente della Republika Srpska, nelle ore immediatamente successive all’inizio dell’emergenza, per sminuire le polemiche che già cominciavano ad assieparsi attorno alla classe politica, con il pubblico che si chiedeva: una tale sciagura era prevedibile? E la risposta delle autorità è stata efficace?

In realtà, le grandi alluvioni del 14 e 15 maggio non sono giunte inaspettate. Notizie di situazioni di emergenza e di zone allagate erano già state riportate dieci giorni prima dell’emergenza: il 5 maggio, a Prijedor, 180 case vengono inondate dall’Una, che straripa. Nello stesso giorno, comincia già a creare preoccupazione il livello della Sava, soprattutto nella zona di Bijeljina, e di Brčko, dove il fiume esonda e allaga un centinaio di abitazioni. Di un allarme meteorologico nel nord del paese, in particolare nella regione di Banja Luka, si parla già a partire dal 3 maggio. Il 13 maggio, quindi ventiquattro ore prima della catastrofe, gli uffici meteorologici delle due entità avevano già diramato un bollettino molto allarmato, nel quale si evidenziava la possibilità concreta di alluvioni nella zona di Maglaj.

Gli unici a tenere d’occhio le notizie, però, sono in effetti gli abitanti: "24 ore prima che la città fosse sommersa, a partire dal mattino [del 14 maggio], abbiamo cominciato a ricevere una miriade di telefonate dagli esperti che erano sul luogo", ha raccontato ad Al Jazeera Balkans Hajrudin Fermić, il direttore di RTV Maglaj, la televisione locale. "A partire da quel momento, abbiamo lanciato un avvertimento all’istituto idrometeorologico, abbiamo ripreso il livello dei fiumi che continuavano a salire, ma dalle autorità non è giunto nessun tipo di allarme fino alle otto di sera. A quel punto, dopo una telefonata drammatica da parte degli uomini sul campo, è stato annunciato lo stato di emergenza. Questo avveniva verso le nove di sera di mercoledì 14 maggio, e a quel punto la Bosna aveva già inglobato parecchie centinaia di metri di centro cittadino".

Dove sono i politici bosniaci, mentre il paese viene invaso dalle acque e più di un milione di cittadini (secondo quanto detto dal premier, Vjekoslav Bevanda) sono costretti a lasciare le proprie abitazioni? "Il primo ministro è a Mostar per il fine settimana", ricostruisce sarcastico il settimanale sarajevese Dani, "come se si trattasse non delle alluvioni più spaventose della nostra storia, ma di una perdita nel gabinetto di casa. Bakir Izetbegović, il membro bosgnacco della presidenza, va in visita a Maglaj, definisce la situazione ‘deprimente’ e se ne ritorna a Sarajevo, in elicottero". I politici dei principali partiti croati (HDZBiH e HDZ1990) sono a Bleiburg, in Austria, a commemorare l’eccidio avvenuto ai danni dei propri connazionali sul finire della Seconda guerra mondiale.

Milorad Dodik, per tutta la durata dell’emergenza, avrà più a cuore la salvaguardia della "autonomia della RS" che la sicurezza dei propri cittadini, preoccupandosi soprattutto di evitare "l’ingerenza di Sarajevo". Così, nelle ore più drammatiche della crisi, se ne vola a Belgrado per incontrare il Primo ministro serbo Vučić e per ribadire che "l’accordo di Dayton non si tocca ". Tornato a Banja Luka, di fronte alle domande di una giornalista che cercherà di sapere perché il governo non stia facendo nulla, e perché non siano state prese misure dopo le alluvioni del 2010, il presidente della RS cercherà di difendersi rispondendo, "lei è davvero maleducata". Qualora esistessero dubbi su quali siano le effettive priorità di Dodik, ancora soltanto qualche giorno fa, egli si è premurato di ribadire che "le alluvioni non hanno assolutamente intaccato le frontiere tra le due entità " : "La nostra solidarietà va anche ai cittadini della Federacija, ma quanto accaduto non può essere la base per la riunificazione del territorio della Bosnia Erzegovina". A completamento di un quadro surreale e grottesco, le due entità proclameranno anche giorni di lutto in date separate.

In conseguenza di questa politica, il governo della Republika Srpska rifiuterà fin da subito di proclamare uno stato d’emergenza a livello nazionale, e non collaborerà con il Centro operativo e di comunicazione, che viene creato a Sarajevo per gestire l’emergenza. Dalla capitale sono così costretti ad agire tentando di creare dei canali di comunicazione diretti con le singole municipalità alluvionate della RS, in un momento in cui fare questo risulta praticamente impossibile, per la mancanza di linee telefoniche ed elettricità.

La battaglia nella RS e il ritardo negli aiuti

Proprio il territorio della Republika Srpska è quello in cui gli scontri della politica e le inefficienze burocratiche saranno maggiormente avvertiti. Questo perché due delle municipalità più colpite, Bijeljina e Doboj, sono governate dal principale partito di opposizione dell’entità, l’SDS. Il disastro diventa così l’occasione per l’SNSD di Dodik, che detiene la maggioranza in seno al governo dell’entità, di accusare i rivali e di sfruttare quanto accaduto in vista delle prossime elezioni politiche. A Šamac e Doboj due ex generali della VRS, l’esercito della Republika Srspska che combatté negli anni Novanta, vengono nominati commissari dal governo. E’ il 19 maggio. A Doboj la scelta ricade su Momir Zec, che dal 2009 è indagato per crimini contro l’umanità, con l’accusa di aver ucciso una cinquantina di civili e di avere espulso dal villaggio di Koraj, nei pressi di Lopare, i residenti non serbi nel 1992. Il sindaco di Doboj, Obren Petrović, denuncia la strumentalizzazione e il fatto che "in una situazione così delicata si sia intromessa la politica. Questa è una catastrofe, e loro continuano i loro giochi di potere".

Questi "giochi di potere", in realtà, non riguardano solo l’entità serba. Le autorità di Bosnia Erzegovina impiegano ben cinque giorni dall’inizio delle inondazioni prima di cominciare a rispondere alla crisi. A Sarajevo la questione diventa ostaggio della disputa tra Fahrudin Radončić, l’ex ministro della Sicurezza, e Nermin Nikšić, il premier della Federacija. Nikšić addossa a Radončić la responsabilità per quanto accaduto, oltre che il ritardo nei soccorsi. Radončić, in tutta risposta, accusa il governo dell’entità e lo cita in giudizio per danni. A suo dire, circa 20 milioni di marchi destinati alla prevenzione di queste catastrofi sarebbero stati dirottati dal bilancio della Federacija verso altre voci di spesa del governo. Secondo un’inchiesta di Dani, i milioni sarebbero in realtà 36, e sarebbero stati spesi illegalmente. I fondi vengono diminuiti, tra l’altro, nonostante solamente un anno fa fosse stato approvato uno studio intitolato "Prevenzione delle alluvioni nella Federazione di Bosnia ed Erzegovina " che definiva "frammentario, parziale e confusionario" il sistema di protezione in atto, e ne raccomandava la riforma.

Come già spiegato in un nostro precedente articolo , quindi, a salvare il paese finora è stata soprattutto la solidarietà. Quella dei propri cittadini ma, anche, quella internazionale. La quale, tuttavia, ha dovuto anch’essa scontrarsi contro l’inefficienza del sistema bosniaco. Così, gli aiuti umanitari sono stati spesso bloccati alla frontiera, costretti a pagare l’IVA e a subire le ispezioni degli ispettori, con conseguente perdita di tempo prezioso. Il caso forse più eclatante è quello degli aiuti delle Nazioni Unite, fatti arrivare attraverso voli diretti verso Tuzla e Banja Luka, in modo da guadagnare tempo. Gli aiuti venivano presi in carico dalla protezione civile, che li riportava a Sarajevo al fine di ispezionarli e catalogarli, prima di rispedirli a destinazione, con un ritardo complessivo di 4 giorni. "Se non cambierete il sistema, o non troverete il modo di allentare i vincoli della vostra burocrazia", ha dichiarato ancora il coordinatore dell’UNDP a Sarajevo, Juri Afanasijev, rivolgendosi direttamente a un funzionario del ministero della Sicurezza nel corso di una riunione di coordinamento, lo scorso 30 maggio, "la prossima volta i nostri aiuti li consegneremo da soli".

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