L’UE e i Balcani a Salonicco, 11 anni dopo. Cos’è andato storto?
11 anni fa, a Salonicco, l’Ue dichiarava che il futuro dei Balcani era nell’integrazione. E si faceva informalmente una data: quella del 2014. Da allora solo Slovenia e Croazia sono divenuti membri a pieno titolo dell’Unione
Era il 2003 quando, durante la presidenza greca del Consiglio UE, l’Unione europea confermava il suo progetto di integrazione politica dei Balcani occidentali, dichiarando ufficialmente a Salonicco che “il futuro dei Balcani è nell’Unione europea”.
Era un momento di euro-entusiasmo: la moneta unica era stata messa in circolazione da poco più di un anno e il trattato di Atene firmato nello stesso periodo concludeva il processo di pre-adesione dei 10 stati d’Europa centro-orientale e mediterranea che nel 2004 sarebbero entrati a far parte dell’UE con il suo allargamento ad est. Ci si augurava che entro il 2014, centenario della Grande guerra, tutti i paesi dei Balcani occidentali avrebbero potuto compiere lo stesso passo.
Undici anni dopo, la situazione è meno ottimistica. La Grecia è di nuovo per un semestre al timone del Consiglio UE, dopo aver attraversato le conseguenze più forti della crisi finanziaria abbattutasi sull’Europa dal 2008 in poi. Ma tra le sue priorità di presidenza non rientra il dossier allargamento, e la conferenza ministeriale UE/Balcani occidentali tenutasi a Salonicco l’8 maggio si è conclusa senza risultati rilevanti.
L’integrazione europea dei paesi balcanici è proceduta, ma a rilento. La Croazia è entrata nell’Unione nel 2013, altri tre paesi (Macedonia, Montenegro e Serbia) hanno ottenuto lo status di paese candidato e due di loro hanno avviato i negoziati d’adesione. Altri sono rimasti indietro, chi in attesa di risposta alla sua domanda d’adesione (Albania) e chi ancora fermi ai blocchi di partenza (Bosnia Erzegovina e Kosovo). L’idea di un nuovo allargamento regionale a tutti i paesi balcanici nel 2014 è presto sfumato.
Questa non è Europa centro-orientale
Da un lato, il processo di europeizzazione non ha funzionato per i paesi balcanici alla stessa maniera che per i paesi d’Europa centrale ed orientale: per questi ultimi, l’integrazione europea si innestava su una finestra d’opportunità data dalla transizione economica e democratica degli anni ’90, dalla legittimazione politica che le nuove élite vi trovavano, e dal forte sentimento di “riunificazione continentale” che veniva sentito a Parigi e Berlino quanto a Praga e Varsavia.
Per i paesi dei Balcani occidentali, invece, gli anni ’90 non corrisposero ad un identico momento di ridefinizione della propria identità all’uscita dal cinquantennio socialista. La transizione post-socialista avvenne attraverso la guerra e la riscrittura delle frontiere (Jugoslavia), o attraverso il collasso delle strutture statali (Albania); il passaggio a capitalismo e democrazia fu lento e in diversi casi fu possibile solo dopo un decennio di consolidamento autoritario delle élite, spesso le stesse del periodo socialista. La debolezza amministrativa e contestazione della statualità, spesso giovane, dei paesi balcanici, ha fatto sì che gli incentivi e procedure che avevano funzionato in Europa centro-orientale non abbiano avuto lo stesso effetto nell’Europa balcanica. E alle condizioni di Copenhagen che avevano guidato le riforme dei paesi d’Europa centro-orientale se ne sono aggiunte altre, specifiche per la regione: dalla piena collaborazione con il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (ICTY), alla cooperazione regionale.
Gli stati membri e il controllo sulla politica d’allargamento
Dall’altra parte, dopo l’esperienza dell’allargamento a Bulgaria e Romania nel 2007, entrate nonostante da più parti considerate non ancora pronte, l’UE è diventata più esigente nel rispetto dei requisiti d’adesione, non solo a livello formale-legislativo ma anche a livello amministrativo e di messa in pratica delle riforme.
Il processo d’allargamento “a blocco” con una data d’arrivo prefissata, considerato non in grado di fornire gli incentivi giusti per le riforme a tutti i candidati, si è trasformato in un processo “a regata”, in cui ciascun paese è spinto a concorrere coi propri vicini per giungere per primo al traguardo d’adesione secondo i propri meriti.
Inoltre, complice anche il maggior rilievo dell’allargamento per l’opinione pubblica, che spesso collega (a torto o a ragione) l’allargamento dell’Unione europea con le questioni dell’immigrazione, il processo d’allargamento è diventato negli ultimi anni meno tecnico e più politico. Con quella che Hillion ha definito una “strisciante nazionalizzazione” della politica d’allargamento, gli stati membri UE hanno riaffermato il proprio ruolo centrale rispetto alla Commissione in quella che è una politica costitutiva della polity, poiché definisce i contorni dell’appartenenza all’Unione.
Così, i paesi candidati si sono spesso trovati di fronte all’ostruzione di uno o più stati membri, che hanno tentato di ritardarne l’avanzamento verso l’UE, talvolta con successo, per per via di questioni bilaterali. Un atteggiamento deprecato dalla Commissione europea, poiché rischia di mettere a repentaglio la coerenza della condizionalità, secondo cui, ad ogni riforma portata a termine dovrebbe corrispondere una ricompensa nel processo d’avvicinamento all’UE. E tuttavia sempre più frequente: basti pensare al tentato boicottaggio sloveno sulla Croazia per via della questione del confine nel golfo di Pirano, alle reticenze di Germania e Olanda rispetto all’avanzamento di Serbia e Albania, allo sfogo di Romania e Bulgaria contro la Serbia per questioni completamente scollegate all’allargamento (il rifiuto dei paesi membri occidentali di accettarne l’ingresso in Schengen), o infine all’infinita e metafisica questione del nome che oppone senza prospettive di soluzione a breve termine la Grecia alla Macedonia. Per non parlare poi del boicottaggio che la Turchia subisce da parte di Cipro e della Francia, che impediscono ad Ankara di aprire ulteriori e sempre più urgenti nuovi capitoli di negoziato. D’altronde, lo stesso era capitato negli anni ’60 al Regno Unito, per due volte respinto dal veto del generale De Gaulle.
L’irripetibile eccezione del 2004
Con il senno di poi, è possibile vedere come sia stato l’allargamento del 2004 ad essere un’eccezione: un processo guidato in toto dalla Commissione europea, mentre gli stati membri erano impegnati altrove nella discussione sul Trattato costituzionale. Un processo che godeva di una forte legittimazione simbolica nel discorso sulla “riunificazione dell’Europa” che era stata separata dalla guerra fredda. E un processo che ha trovato una finestra d’opportunità probabilmente irripetibile in paesi candidati dell’Europa centro-orientale in fase di post-transizione alla democrazia e al capitalismo, e in cerca di legittimità in un contesto europeo più largo.
Tutte condizioni che non esistono più nell’attuale round d’allargamento, in cui i governi degli stati membri UE sono sul “chi vive” rispetto ad opinioni pubbliche sempre più sensibili alle questioni migratorie; in cui i Balcani non sono considerati come un’Europa da riunificare, ma al massimo come una periferia turbolenta da stabilizzare per evitare nuove seccature; e in cui gli stessi paesi candidati sono ancora piagati dalle conseguenze delle guerre degli anni ’90 e da élite politiche che fanno spesso dell’etnonazionalismo, e non dell’europeismo, la propria base primaria di legittimazione interna.
Passi avanti e prospettive realistiche
Certo, ci sono stati progressivi passi avanti. La Croazia ha mostrato a tutti gli altri paesi della regione che l’obiettivo è raggiungibile, e si è impegnata a fare da traino e non da freno all’integrazione degli altri paesi della regione. La normalizzazione delle relazioni tra Serbia e Kosovo, negoziata dall’UE nel 2013, sta permettendo ad entrambi i paesi di lasciarsi alle spalle i discorsi più nazionalisti e procedere entrambi verso l’integrazione europea.
Le elezioni del 2013 in Albania hanno mostrato che anche nel paese delle aquile un’alternanza democratica al potere è possibile. Restano le questioni aperte della riforma costituzionale in Bosnia, della questione del nome tra Macedonia e Grecia, e dell’alternanza democratica in Montenegro, oltre alle riforme legislative per l’adozione dell’acquis europeo.
A breve, a giugno, l’Albania dovrebbe poter ottenere lo status di paese candidato, durante la presidenza della Grecia e magari iniziare i negoziati d’adesione entro dicembre con il sostegno della successiva presidenza italiana.
Ma una visione realistica del percorso ancora da fare vede come obiettivo il 2022/2025 per la Serbia e gli anni successivi per gli altri paesi della regione – sempre che altre questioni politiche bilaterali non si mettano di mezzo.
Gli ultimi dieci anni hanno permesso all’Unione europea di prendere le misure e aggiustare le proprie strategie nei confronti dei paesi candidati dei Balcani occidentali, le cui specificità non aveva inizialmente considerato. I prossimi dieci anni ci diranno se la ricetta è effettivamente quella giusta.