La casa di mio padre

Cinque anni di carcere, in cui ebbe la sua formazione da scrittore, grazie all’incontro con il grande poeta turco Nâzim Hikmet. Di Orhan Kemal possiamo oggi leggere in Italia "La casa di mio padre". Una recensione

30/06/2014, Diego Zandel -

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(Flickr/Orientalizing)

Nel 1939, il ventinovenne Mehmet Raşit Öğütçü, che da scrittore avrebbe assunto il nom de plume di Orhan Kemal, venne arrestato e tradotto nel carcere di Bursa, in Turchia, perché nel corso di una perquisizione in casa, in seguito a una denuncia, vennero trovati un libro dello scrittore sovietico Maksim Gorkij, ritagli di giornali marxisti e alcune sue poesie indirizzate al grande poeta turco, suo connazionale, Nâzim Hikmet , per il quale nutriva una grande ammirazione.

Mehmet ci sarebbe rimasto per buoni cinque anni, ma tre e mezzo di questi furono i più formativi per lui grazie a una circostanza per lui insperata: dal 4 dicembre 1940, Nâzim Hikmet, condannato a 28 anni di carcere perché comunista, venne tradotto per motivi di salute nello stesso carcere di Bursa e, come se non bastasse, messo nella sua stessa cella.

E’ lì soprattutto che Mehmet Raşit Öğütçü ebbe la sua formazione di scrittore, con un maestro straordinario, che lo fece diventare quel Orhan Kemal, del quale oggi possiamo leggere, tradotto da Fabio De Propris, il romanzo “La casa di mio padre”, per le edizioni Elliot. Un romanzo in qualche modo autobiografico, lieve nella forma e profondo nella sostanza, fortemente rievocativo, ambientato negli anni e nei luoghi in cui Orhan Kemal ha vissuto l’infanzia e l’adolescenza, ovvero la città turca di Adana, nella cui provincia era nato nel 1914, e quindi a Beirut, per poi fare ritorno ad Adana.

Fabio De Propris, che ha vissuto a Istanbul e del quale ricordiamo il bel romanzo “Nero Istanbul” edito da Fazi, in una illuminante postfazione al libro ci informa sugli aspetti autobiografici dello scrittore che ritroviamo in “La casa di mio padre”. Un padre ingombrante, uomo politico che, seguace in un primo momento di Kemal Atatürk, se ne distaccò fondando un partito di opposizione che l’avrebbe costretto prima in prigione e poi in esilio, strada, quest’ultima che lo portò nel 1931 prima in Siria e poi in Libano, per poi tornare in Turchia solo dopo la morte di Kemal Atatürk il 10 novembre 1938.

Dal romanzo emerge un rapporto piuttosto conflittuale tra Orhan e il padre, uomo che si proponeva come signore assoluto della moglie, l’amata madre del protagonista, che in un momento di ira il marito avrebbe addirittura ripudiato per poi riprenderla; e padre padrone dei figli, avvezzo ad alzare le mani, anzi il bastone, su di loro in una chiave educativa che avrebbe spinto il giovane Orhan a una sfida a testa alta della quale il romanzo è testimonianza.

Tuttavia il racconto non è privo di una sua sottile ironia che esalta la bellezza dei momenti in cui il giovane protagonista (il “signor nessuno” come viene chiamato nel sottotitolo del romanzo) si ritrova a coltivare i suoi pensieri, i suoi piccoli amori, i suoi sentimenti, le sue amicizie, i suoi sogni, in una sorta di hortus conclusus che costituisce la cifra poetica di questo romanzo che si legge d’un fiato.

La storia in se è molto lineare. Il protagonista, ad Adana, vive in una condizione di agiatezza, primogenito, con il padre avvocato, una madre dolcissima e sempre timorosa dei rimproveri del marito, le sorelle, molto defilate in realtà nel romanzo, e un fratello che si porrà sempre un po’ come suo antagonista nella ricerca con un’alleanza con il padre che oscuri le maggiori attenzioni che il primogenito riceve.

Essere primogenito, nel contesto turco degli anni Venti, non è facile: significa assumere responsabilità che il padre vede in forme di obbedienza e rispetto formale che il protagonista – che scrive in prima persona – assume però seguendo una propria autonomia, scambiata per ribellione.

Da qui un conflitto che fa andare le vite del padre e del figlio su due binari divergenti che emergeranno soprattutto nell’esilio a Beirut, vissuto in una mancanza di mezzi economici che costringeranno il protagonista a lasciare la scuola, con suo grande dispiacere, e ad andare a lavorare in una tipografia dove s’innamorerà di una donna greca, Eleni, costretta poi alla fuga per un fratello comunista ricercato dalla polizia.

Sullo sfondo i grandi avvenimenti di quegli anni: lo Scambio, come viene chiamato, quello delle popolazioni greche e turche tra la costa dell’Anatolia e le isole e, quindi, il rapporto con gli armeni, che emerge da un’altra relazione, più amicale che sentimentale, con una coetanea che frequenta un’amica prostituta di grande umanità e saggezza. Come in questo caso, e in altri, l’autore presenta una galleria di personaggi che esaltano il suo tratto descrittivo, capace di creare caratteri indimenticabili.

La parte finale riguarda il ritorno del protagonista ad Adana. Licenziato dalla tipografia, per essersi ribellato al padrone che voleva approfittare di Eleni, ritorna contro la volontà del padre ad Adana per riprendere gli studi. Qui ritrova una città diversa da quella sognata dall’esilio. Ciononostante, amante da sempre del calcio, stringe amicizia con altri ragazzi che come lui trovano nel pallone un momento di gioia e affermazione, militando in una squadra il cui unico compenso è la speranza di un pasto che plachi la fame, in attesa del ritorno della famiglia da Beirut.

Il romanzo finisce così, ma vale la pena di segnalare le parole che all’uscita del libro in Turchia, nel 1949, il grande poeta e maestro di Orhan, Nâzim Hikmet gli scrisse dal carcere di Bursa: “Ogni tuo successo nell’ambito artistico è come un mio trionfo personale”. La speranza ora è che Elliot, magari sempre con il contributo di Fabio De Propris, pubblichi l’opera di Orhan Kemal “Tre anni e mezzo con Nâzim Hikmet” che, stando alle parole di De Propris stesso “può essere considerata un cammeo e una summa della grandezza artistica e umana di Hikmet e, al tempo stesso, della verve narrativa di Orhan Kemal”.

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