Gla, l’isola che non c’è più
Un viaggio in Beozia, la terra di Pindaro, Dioniso, Eracle e delle Muse. Pochi turisti frequentano questa piana, tra Atene e Delfi. Eppure ogni due, tre chilometri, si vedono affiorare i resti di una polis una volta potente, di un tempietto sacro, di una rocca leggendaria
Arrivo nella piazzetta semideserta del paese guardandomi attorno senza troppa convinzione. Più volte, nelle settimane scorse, mi sono trovato a dover rinunziare a un’escursione a causa dello stato selvatico e trascurato in cui giacevano i resti di città perdute considerate, ingiustamente, meno importanti: assediate da rovi spinosi e cespugli contorti, rese inaccessibili da sentieri non più frequentati e pressoché cancellati; soffocate da spine, pietre frananti e polvere; con nessuna indicazione per trovarle; e, come se non bastasse, a volte perfino alcuni degli abitanti dei paraggi parevano ignorare i tesori del passato che giacevano lì a fianco.
E’ da una decina d’anni che non torno in Beozia: nella terra di Pindaro e di Tebe, di Dioniso ed Eracle, di Edipo, di Epaminonda e delle Muse. Questa piccola regione della Grecia centrale è trascurata dai visitatori meno informati, che affollano due mete vicine ma di maggior richiamo – Atene e Delfi – in mezzo alle quali la piana beotica si estende. Eppure qui, ogni due, tre chilometri, vedi affiorare i resti di una polis una volta potente o di una rocca semileggendaria, di un santuario veneratissimo o di un boschetto sacro; e costeggi un monte, un lago o un fiume-dio la cui amenità era celebrata dai poeti.
Stavolta ho scelto di visitare questo piccolo centro, Akrèfnio, perché è uno di quelli che avevo trascurato nel mio passato itinerario.
E’ una tarda mattinata già molto calda, l’atmosfera lievemente caliginosa. Tuttavia l’escursione sembra prendere da subito una piega migliore del solito. Il primo passante a cui domando ‘si può visitare l’acropoli?’, sorride: me la indica sopra un’altura che sovrasta il paese e mi assicura che sì, l’ascesa è facile, non mi perderò di certo e l’area è ben tenuta. ‘Se vuole – aggiunge – abbiamo qui in paese uno scrittore che si occupa dell’archeologia della zona, e che potrà esserle utile’.
Ma certo, che voglio. L’incontro è più facile del previsto, anzi immediato: lo scrittore-archeologo è lì a due passi, seduto nel tipico kafenìo all’aperto e ombreggiato da folti platani che non manca mai nel più piccolo villaggio greco. E’ anziano, ma pare molto in forma; sta conversando e bevendo caffè con alcuni amici. Ci presentiamo. Scopro subito che Kostas, così si chiama, non è un archeologo né un intellettuale di professione; ha lavorato tutta la vita nell’allora azienda telefonica nazionale: in pratica è un tecnico telefonico. Però mi racconta che ha appena terminato di scrivere un libro sui resti monumentali della zona – l’antica città di Akraìphia e non solo. Questa mattina è libero e, se lo desidero, mi accompagnerà lui stesso sull’acropoli.
Il seguito della conversazione, mentre seguo Kostas che con passo agile e sicuro mi fa strada lungo il sentiero che s’inerpica sulla rocca classica, mi rivela quale sia stata la mia fortuna. Il nuovo amico greco è uno di quegli autodidatti – colti, appassionati e sinceri estimatori delle antichità locali – che capita ancora di incontrare nei piccoli centri dell’Ellade; centri che quasi sempre hanno il blasone di un glorioso passato. Ma non è tutto: è fondatore e presidente di un syllogos locale.
Difficilmente chi non abbia battuto la Grecia palmo palmo sa che cosa sia e quale utilità possa avere un ‘sillogo’. Formalmente non è che un’associazione culturale, fondata dagli abitanti con la finalità di rivalutare, curare e far conoscere le bellezze della zona. In genere organizza spettacoli di danza o di teatro, convegni, seminari, festival o visite guidate. La cosa che più colpisce, è che in ogni paese per quanto minuscolo, ce ne sia sempre uno, di sillogo: e che comunque esistano in Grecia tante persone con la volontà, il tempo e le energie per associarsi e darsi da fare.
Ma la mia fortuna è doppia, poiché il sillogo di Akrefnio è particolarmente combattivo ed efficiente, e non si è limitato alle manifestazioni culturali. Me lo rivela Kostas quando, un po’ affaticati dalla salita, ci soffermiamo a riprender fiato e ad ammirare il panorama sotto un chiosco di legno che pare allestito da poco, su una balza strategica sull’acropoli. Tutto il percorso è stato davvero agevole, secondo le promesse: i sentieri sono ben mantenuti e visibili, le aree di interesse ripulite dalla vegetazione spontanea, le mura e gli accessi dell’antica fortezza liberati dalle dannose radici. Ebbene, mi dice, tutto questo lo ha fatto proprio il sillogo.
‘Non il comune?’, domando. ‘No. Il comune di Akrefnio del resto non esiste più da qualche anno. Siamo stati accorpati ad Orchomenos, per via dei tagli imposti dalla crisi economica. Certo, anche prima, la rocca giaceva abbandonata; ma ora, da quando non siamo più autonomi, abbiamo ancor meno attenzione da parte delle autorità pubbliche’. ‘Vi avranno aiutati con qualche finanziamento, magari?’. ‘Nessun finanziamento; finché avevamo il comune qui, al massimo se c’era un operaio libero ce lo prestavano, per un giorno, due. Praticamente abbiamo dovuto fare tutto da soli’.
Kostas non esagera. Ne avrò conferma qualche tempo dopo, scorrendo con calma la serie del periodico mensile edito proprio dal ‘Syllogos degli Akrefnioti di ogni dove’ (così se ne potrebbe tradurre la denominazione: il riferimento è ai numerosi emigrati dispersi nel globo); una collezione di pubblicazioni che Kostas si premurerà di regalarmi a sera, terminata la sorprendente giornata trascorsa con lui. In una pagina interna vi leggo l’elenco dei dieci soci, più quattro ‘operai albanesi’, che hanno effettuato di propria mano la ripulitura del sito. Ma trovo anche – questa è la lettura che più fa pensare – la lettera con la quale l’associazione, congiuntamente con un altro ‘Sillogo culturale di Akrefnio’, si era rivolta, implorandole, a tutte le autorità competenti (il ministero della Cultura, quello del Turismo, e la Regione della Beozia); e chiedeva loro, se pure non potevano provvedere direttamente alla preservazione e alla cura del sito, che concedessero almeno una qualche risorsa alle associazioni locali, affinché i membri se ne facessero carico. Seguono, una dietro l’altra, le lettere di risposta delle autorità: tutte negative. Siete bravi ed encomiabili nel vostro intento – dicono più o meno – ma non ci sono più né soldi, né uomini, né mezzi a nostra disposizione. Di fronte a ciò gli Akrefnioti non si sono scoraggiati. Nello stesso numero del periodico vedo campeggiare, con qualche orgoglio, il titolo: ‘Borùme ke mòni emìs!’. ‘Possimo farcela anche da soli!’.
Detto fatto: scopro che non solo l’acropoli cittadina è stata risistemata e resa accessibile dai cittadini, ma che due siti archeologici dei dintorni sono tornati a vivere. Li avevo visitati – no, è troppo: avevo tentato di farlo – dieci anni fa. Sono ben più noti di Akrefnio, soprattutto tra gli appassionati di storia e di arte. Sono l’ex isola di Gla e l’Oracolo di Apollo dello Ptoion. Non credo alle mie orecchie quando Kostas mi dice che anche lì tutto è di nuovo a posto, che la piccola foresta di arbusti nodosi e di alberelli spontanei che vi cresceva è stata potata, le antiche vestigia ripulite e riportate alla luce: che entrambi i siti sono, insomma, finalmente accessibili.
Ricordo nitidamente la mia prima visita allo Ptoion. In una solitudine totale arrivai su un tornante stradale di montagna dove passavano rarissimi veicoli (la strada era bianca, mi pare), poi mi ero inerpicato su e giù per il costone scosceso dove sorgeva il santuario, individuando a mala pena terrazzamenti, contrafforti, vaghe fondamenta di quello che doveva essere, nello splendore di ventisei secoli fa, un luogo affollato di edifici sacri o di accoglienza, di pellegrini e di statue, risonante di cerimonie, canti, sacrifici; addirittura – ricordano gli antichi autori – vi si tenevano agoni atletici in onore del dio: come quelli di Olimpia e di Corinto. Apollo rilasciava le sue profezie nei pressi di una fonte, in concorrenza con la non lontana Delfi. Ricordo tuttora l’emozione, e nello stesso tempo lo scoramento, di quella lontana mattina trascorsa nel silenzio assoluto, spezzato solo dai belati provenienti da uno stabbio sulle rovine.
Stavolta arrivo allo Ptoion assieme a Kostas più o meno alla stessa ora di dieci anni fa, ma l’impressione è completamente diversa: i resti sono liberi dai grovigli vegetali e perfettamente leggibili; qua e là capitelli, triglifi, rocchi di colonne spezzate biancheggiano al suolo quasi disposti da una mano sapiente in una casuale scenografia. Solo il silenzio non è cambiato, visto che siamo pur sempre gli unici visitatori: non fosse per la voce del mio accompagnatore che, avendo organizzato e gestito i lavori quotidianamente, sa guidarmi a meraviglia. Ripenso ai tanti giovani arcaici, ai kouroi di marmo che, trovati tra le rovine del santuario dagli archeologi di oltre un secolo fa, sono esposti tuttora, superbi nella loro vigoria atletica, nelle sale dei Musei della Grecia centrale, Atene compresa (i loro resti danno un numero di almeno 120 statue!). Quasi riconosco, tra queste pietre scabre e calde, illuminate dal sole del pomeriggio, la stessa loro potenza quieta e trattenuta, la sovrana e serena fissità dello sguardo, il sorriso trionfante e aristocratico di chi, magari, aveva appena vinto le gare atletiche e ricevuto la corona dai sacerdoti del dio.
Siamo entrambi a digiuno, il sole ha iniziato da tempo a scendere. La sorpresa e l’interesse di ritrovarmi in quei luoghi così trasformati mi hanno fatto scordare l’ora. Immagino che anche la mia guida sia esausta, e propongo una pausa. Lui potrà recarsi a casa, a rifocillarsi e a riposare. Io cercherò di mangiar qualcosa nei paraggi. Non vorrei davvero arrivassimo tutti e due esausti e poco lucidi alla prossima visita promessa, quella di Gla. L’appuntamento viene fissato nell’ora perfetta per le visite in Grecia, d’estate: dopo le sei del pomeriggio.
Chi è estraneo agli studi universitari classici difficilmente avrà sentito parlare di Gla. Eppure è uno dei luoghi più straordinari di tutta la Grecia. E’ una rocca micenea, eretta oltre tremila anni fa, ma nello stesso tempo è un’isola. O meglio: era un’isola. Quella che è ora la piana della Beozia era infatti ricoperta un tempo da un vasto lago, il Copaide. Celebre per le anguille, ghiottoneria degli antichi ateniesi. Ma poiché la Grecia ha sempre avuto fame di terre coltivabili, già allora tentarono di prosciugarlo, con le cosiddette ‘dighe dei Minii’ (un antichissimo, quasi mitico, popolo della regione), canali di bonifica che finivano nelle katavòthres, specie di buche di scarico nel sottosuolo, in parte naturali, in parte artificiali.
Dall’alto dei monti circostanti si può avere una visione d’assieme di Gla, che risalta, come intarsiata, sulla pianura tornata fertilissima (la sistemazione conclusiva l’hanno attuata inglesi e francesi, nell’Ottocento); ma a farla spiccare, quando ti avvicini dal basso della campagna circostante, sono le antiche mura. Ancora alte, ciclopiche, a grossi massi squadrati, come quelle di Micene e Tirinto. Solo che qui, a Gla, dotata anch’essa di porte d’accesso monumentali e di un palazzo miceneo (anaktoron) riconoscibile nelle fondamenta, non viene praticamente nessuno. Kostas mi conduce sulla rocca risalendo dall’antico ingresso…novecentesco: come rivela un casottino di legno – la biglietteria – abbandonato da qualche decennio del secolo scorso, quando i visitatori a Gla c’erano (‘la biglietteria risale al tempo dei Colonnelli’, commenta amaro Kostas: cioè, quarant’anni fa).
Nella mia prima visita non ero riuscito a spingermi molto oltre la porta delle mura, arrestato dalla piccola giungla di rovi. Ora, invece, con la mia sorprendente guida percorriamo la rocca in lungo e in largo, seguiamo il tracciato delle stanze reali (qui regnava un sovrano che era collega di Ulisse a Itaca e di Menelao a Sparta), individuiamo probabili magazzini, cortili, porticati: la planimetria di questo gioiello miceneo si sviluppa sotto i miei piedi ed è libera allo sguardo. Il sole mite nel suo declinare e un venticello salito dalla piana sprigionano una sensazione di benessere, quasi di padronanza intellettuale simile a quella che pervade l’archeologo quando comprende di avere finalmente in mano la chiave di lettura di una città fino ad allora perduta.
Anche nell’antichità, così come oggi, la Grecia è un paese pressoché privo di risorse estrattive e di materie prime: è fatta di sole, mare e roccia, con poche, esigue pianure coltivabili. Perciò a renderla grande, a farne addirittura la culla della civiltà europea, furono solo i suoi abitanti: con il loro ingegno, la loro creatività, la loro tenacia. Ora la grandezza passata si è trasformata, come per processo metamorfico, in un possibile straordinario giacimento: che non inquina, è inesauribile e non potrà mai essere delocalizzato. Che i piccoli, trascurati sillogi greci abbiano individuato la strada giusta?