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Riforma della cooperazione: un vascello con troppe ancore
Il 28 agosto scorso è entrata in vigore la nuova legge sulla cooperazione allo sviluppo. Riforma integralmente la Legge 49/1987, dopo anni di dibattito e di confronto tra società civile e organismi istituzionali. Un’analisi del nuovo assetto istituzionale
(Pubblicato originariamente su Unimondo il 12 settembre 2014)
“Vascello corsaro” è l’immagine con cui il sottosegretario agli Affari Esteri Lapo Pistelli ha presentato il nuovo corso della cooperazione allo sviluppo italiana, ridisegnata da una legge di riforma nell’agosto scorso. Un veliero non gigante – la crisi costringe a volare bassi – ma agile a muoversi nei difficili mari internazionali. Che tradotto significa meno burocrazia nella cooperazione, decisioni più rapide ed efficienti, gioco di squadra e coerenza di scelte tra attori diversi ma “uniti sulla stessa barca”.
Tra volontà e risultato, però, c’è spesso uno scarto, ed è quanto emerge anche dalla lettura di questa legge. A Pistelli va riconosciuto il merito di aver portato in fondo una riforma arenatasi più volte nelle legislature precedenti. Il suo vascello tuttavia appare ondeggiare tra buoni propositi e mediazioni al ribasso, tra timide innovazioni e trite riproposizioni del passato.
Si comincia con il lessico, che prova a superare vecchi concetti come paesi in via di sviluppo – con un’eccezione nell’articolo 1, forse una svista – o aiuto, introducendone di nuovi quali partenariato e interdipendenza. Di contro, però, le forme concrete dell’intervento ripropongono le classiche distinzioni in cooperazione bilaterale, multilaterale etc… e sottintendono uno scontato approccio progetto-centrico fatto di donatori, beneficiari e trasferimenti di beni e risorse dai primi ai secondi.
Nulla di nuovo, insomma, sebbene da vent’anni almeno l’esperienza mostri come la sola logica del progetto sia limitata e inadeguata a promuovere cambiamento duraturo, rischiando di portare dritta ai progettifici. Slogan a parte, non ci sono previsioni operative nuove per sostenere processi di partnership di lunga durata, scambi di esperienze tra istituzioni omologhe, tavoli regionali di coordinamento o altre forme possibili di interazione paritaria sganciata dall’aiuto. Viviamo nel tempo dell’interdipendenza, ma pensiamo e agiamo la cooperazione ancora come un flusso unidirezionale verso il (povero) sud del mondo…
Allo stesso modo sulla carta sono interessanti gli sforzi di snellire e sburocratizzare la cooperazione, creando un’Agenzia ad hoc, e di coordinare i diversi attori, con un viceministro alla cooperazione, un Comitato interministeriale e un Consiglio nazionale aperto ad enti locali, organismi non governativi e mondo profit. D’altra parte si moltiplicano le istituzioni coinvolte: oltre al ministero degli Esteri e alla neonata Agenzia, già tra loro ad alto rischio di dualismo, acquistano o mantengono una qualche competenza sulla cooperazione il ministero dell’Economia, la Protezione civile e perfino la Cassa depositi e prestiti. Amministrazioni, regole e stili di lavoro diversi tra loro, destinati con molta probabilità a tradursi in ulteriori lentezze, incoerenze e inciampi procedurali.
Sul vascello della riforma sono stati caricati principi nobili, come il richiamo alla coerenza tra le diverse politiche pubbliche, che dovrebbe vincolare alla tutela dei diritti umani e dello sviluppo sostenibile anche altri ministeri, come Sviluppo economico o Difesa. Oppure il coinvolgimento delle comunità di migranti nell’ottica di politiche migratorie condivise coi paesi d’origine. O ancora l’impegno a utilizzare beni e servizi prodotti nei paesi di intervento anziché importati. A nessuno di questi principi però viene dato un valore cogente, né si prevedono strumenti operativi per implementarli. Viceversa la legge regola in forma minuziosa questioni di mera amministrazione, come le procedure per reclutare il personale dell’Agenzia o per fissare i compensi dei cooperanti all’estero, fino a prevedere un quanto mai improbabile contratto collettivo nazionale ad hoc!
Ancora: la riforma parla ambiziosamente di un "sistema della cooperazione italiana allo sviluppo costituito da soggetti pubblici e privati […] sulla base del principio di sussidiarietà". Riconosce cioè la ricchezza e pluralità formata dal mix di istituzioni statali, regioni, enti locali, ong, associazioni, università, centri di ricerca, cooperative, imprese e altri soggetti ancora. Nel riconoscerla a parole, tuttavia, la nuova legge introduce una forte (ri)centralizzazione nei fatti, subordinando in particolare regioni ed enti locali a controlli e procedure che negano la loro autonoma soggettività. Si tratta di una tendenza prodotta anche dal fallimento della riforma in senso federale del titolo quinto della Costituzione. Tuttavia colpisce che si voglia cancellare una delle poche innovazioni, la cooperazione decentrata o di comunità, sperimentata in Italia negli ultimi decenni.
L’ultima critica sollevata alla riforma, l’unica forse ad aver avuto un po’ di visibilità mediatica, è sul ruolo delle imprese private. In realtà già la precedente legge 49 del 1987 dava spazio al mondo profit, in particolare con crediti agevolati per imprese miste nel sud del mondo. E’ un’apertura necessaria e condivisibile se si vuole portare il tema dello sviluppo fuori dalla pura testimonianza, collegandolo ad attori e dinamiche dell’economia reale. Stona però, a parte il bando ai produttori di armi, l’assenza di vincoli o indirizzi significativi al ruolo delle imprese: è sufficiente il "rispetto dei principi di trasparenza, concorrenzialità e responsabilità sociale", mentre non si nominano temi come i diritti umani, la partecipazione, il rafforzamento delle comunità locali o il rispetto dell’ambiente. Come si comporterà il governo quando ad esempio una compagnia di sicurezza privata proporrà una società mista per servizi di security nel sud del mondo? O qualche grande impresa energetica – servono nomi? – vorrà avviare nuove esplorazioni minerarie in partnership con governi locali. Dove il concetto di partnership, ce lo dice purtroppo la storia, non ha molto a che fare con democrazia locale e tutela ambientale…
La nuova legge appare dunque un vascello carico di buone intenzioni, ma anche di vecchi arnesi. Prova a tenersi buoni tutti i soggetti di questo variegato mondo, ma finisce per non fare alcuna scelta significativa che ne innovi l’agire. Introduce l’Agenzia ma non cancella la Direzione Generale del Ministero; parla di partnership e sistema paese, ma si focalizza sui progetti e ri-centralizza le procedure; cerca parole nuove, usando però vecchi concetti.
Spero di sbagliarmi, ma per il vascello appena varato temo di vedere lunghi tempi in rada, ancorato dai pochi mezzi e dalla scarsa comprensione di ciò che gli accade intorno. Un vascello che vorrebbe portare i nostri aiuti nei mari degli altri, quando davanti alle ondate del mondo globale occorrerebbe costruire ponti e ripensare la vita su entrambe le sponde.