La cotogna di Tamnava

Una tappa di un viaggio in Serbia, dalle miniere all’aria aperta di Tamnava alle viuzze di Valjevo. Sullo sfondo alberi di mele cotogne, la tragedia degli anni ’90 e il dramma alluvioni

21/10/2014, Damiano Spacone -

La-cotogna-di-Tamnava

(flickr/patrizia_ferri)

Un odore acre di carbone impregna l’aria di Lazarevac questa mattina. Intenso, penetrante; è inconfondibile nella sua sporca unicità. Di fronte ad una tazza di caffè fumante, Duška mi dice che in giornate come questa anche lo stendere il bucato diventa impossibile e deve essere rimandato a tempi migliori. Che senso avrebbe d’altronde "indossare" quella sporca unicità? Il complesso minerario di Tamnava Ovest, parte del distretto di Kolubara, è il più grande a cielo aperto dell’intera Serbia e dista solo pochi chilometri da Lazarevac che per me e Giacomo, compagno di viaggio di sempre, rappresenta l’ultima tappa della nostra avventura in questo straordinario e martoriato paese.

Spostamenti di popolazione

A partire dagli anni ’50 le logiche del progresso e della produttività, spinte da un’utopica ricerca di autosufficienza energetica, sono state la causa dello spostamento forzato, a più riprese, di centinaia di famiglie e di ben due interi villaggi. Gli indennizzi corrisposti ai proprietari poi sono risultati essere ben al di sotto del reale valore delle proprietà, bilanciati alquanto maldestramente dalla creazione di interi nuovi quartieri dormitorio nei sobborghi di Lazarevac.

Da poco abbiamo oltrepassato quelle lunghe file di palazzine, tutte uguali, tutte adibite ad un solo scopo: distogliere e placare la rassegnazione di coloro che adesso si trovano veramente in una condizione di uguaglianza; quella di chi è stato spossessato di tutto ciò che di più caro possedeva. Un navigatore un po’ svogliato ci conduce a stento via da là e dopo innumerevoli peripezie, tra stradine di campagna e viottoli, porta a termine il suo dovere.

Tamnava

Eccola Tamnava, proprio là davanti a noi. Maestosa, così sconfinata da lasciarti a bocca aperta. Tutto è avvolto in un silenzio quasi surreale, rotto esclusivamente dal rumore dei nastri di trasporto del carbone e dalle curiose domande di cui tempestiamo le nostre guide d’eccezione. Duška, Mirjana e Miliča non si lasciano scappare nessun dettaglio, ricambiando la nostra innocente curiosità con quanto di meglio potessimo mai desiderare: storie di vita quotidiana e racconti capaci di farti letteralmente sfiorare con le dita, per non dire toccare, questo spaccato di mondo.

Miniera di Kolubara (flickr/Bankwatch)

Miniera di Kolubara (flickr/Bankwatch)

La luce dei loro occhi, la passione con cui ti rendono partecipe, ti fanno capire che qui sei di fronte a qualcosa che va oltre l’aspetto professionale. C’è l’amore e l’attaccamento verso la propria terra e le proprie radici. C’è soprattutto voglia di aprirsi e far conoscere un paese che per troppo tempo, e non sappiamo in base a quale colpa o folle logica, è stato confinato in un angolino remoto.

E’ tempo di andare però. Il cielo si è fatto sempre più grigio nel frattempo, la pioggia è in arrivo e la nostra prossima ed ultima meta, Valjevo, ci aspetta. Un romantico finestrino abbassato rimpiazza l’ormai inutile gps, nella speranza di incappare in qualche passante a cui chiedere preziose indicazioni.

Qualche piccola e coraggiosa fattoria resiste ancora qua e là, scorgiamo addirittura del bucato appeso, segno inequivocabile che la testardaggine e l’amore per quello che ti appartiene qualche volta possono provare a tenere testa alle logiche del progresso. La scarsa conoscenza della lingua serba mi permette di carpire solamente qualche frammento dei suggerimenti che il gentilissimo passante, a dir poco sorpreso dal nostro scorrazzare in tale groviglio di stradine di campagna, pazientemente ci fornisce.

"Samo pravo, dva kilometra levo" è quella la nostra direzione; quasi un’esortazione a non mollare nella nostra ricerca di una via di uscita. Del resto chi meglio di lui, con la faccia scavata da quella sporca "unicità" che c’è nell’aria, può esserci di esempio. "Hvala" dunque!

Alberi da frutto

Ecco però che la nostra marcia immediatamente si interrompe. Milica e Mira insistono per accostare a lato della strada perché c’è qualcosa che devono assolutamente fare. Corrono, veloci, e neanche più di tanto guardinghe, verso un albero di frutta di fianco ad un’abitazione. Qualche ruga sulla fronte di noi due giovani, ormai prossimi alla fatidica soglia dei trenta, inizia a corrugarsi sempre più, sin quando le vediamo tornare con due "cotogne" in mano.

Qui il dubbio si palesa in tutta la sua bellezza. Perché domandiamo? Semplice, da piccole ogni volta che andavano in gita con la scuola era usanza "prenderne" una. Con il tempo la pratica si è talmente diffusa tra i bambini da diventare una vera e propria consuetudine, tanto che i proprietari si sono rassegnati e tendono, seppur a malincuore, a chiudere un occhio.

Parliamo delle squisite leccornie che le nostre nonne riescono magicamente a tirar fuori dalle mele cotogne, ridendoci su visto che a nessuno dei cinque piacciono particolarmente. Tornano subito alla mente i versi, splendidi, della straordinaria opera di Paolo Rumiz "La Cotogna di Istanbul". E se è vero che adesso abbiamo un indizio, la nostra cotogna, la presenza nella ballata di Duško, compagno di Maša, ci fa capire chiaramente che siamo ben oltre la semplice coincidenza; è una vera e propria prova in realtà. Anche per noi, al pari di Rumiz, la cotogna rappresenta l’apice dell’attrazione, dell’ossessione, per questi maledetti Balcani e per tutte le contraddizioni che li caratterizzano, a tal punto da renderli davvero simili ad un "impasto di sangue e miele".

In campagna nei pressi di Valjevo (flickr/ljubar)

In campagna nei pressi di Valjevo (flickr/ljubar)

Dopo tanti anni passati a viaggiare in lungo e largo per l’Europa, per la prima volta, qui nei dintorni di Tamnava e con lo sguardo incollato al finestrino – adesso tirato su vista la temperatura – mi ritrovo a pensare "Se Europa, il sentirsi parte di essa, fosse alla fine semplicemente questo?". Non sta a noi deciderlo certo. Per noi però, adesso in rotta verso Valjevo, è importante anche solo sognarla così.

Valjevo

Già proprio Valjevo. Quando di un luogo hai soltanto sentito parlare sulla Cnn nel 1999, non sai minimamente cosa ti possa riservare, se riuscirà o meno a sorprenderti e a imprimere qualche ricordo che frettolosamente ti appunterai, per non lasciare neppur lievemente sbiadire la bellezza di quegli istanti

La giornata si è fatta sempre più grigia ed uggiosa, ma tutto ciò non ci scoraggia dal girovagare pigramente tra queste bellissime viuzze, più che gradita sorpresa nel bel mezzo della Sumadija. Il Gradac – il fiume più pulito d’Europa- e la Kolubara scorrono placidamente, ancora arsi dalla siccità estiva, quasi a volerti accompagnare per mano nella visita della cittadina.

Gustandoci l’ultima pljeskavica della nostra avventura balcanica accompagnata da una – aspetta, due – immancabili rakija, avvolti da quella deliziosa aroma di caffè tipica delle "Kafana", mai e poi mai avremmo immaginato che a distanza di nemmeno un anno tali "pigroni" avrebbero sfogato tutto il loro impeto, abbattendosi con la forza di cui solo madre natura è capace, su tutto quello che ostacolava, questa volta si, il loro tumultuoso scorrere.

Le alluvioni che hanno colpito i Balcani la scorsa primavera, tra le più violente mai registrate in Europa, hanno ancora una volta lacerato il binomio "acqua è vita". Quell’acqua così pulita, così limpida, si è tramutata in veicolo di morte e distruzione. Impotenti e attoniti in quei drammatici giorni tentavamo di dare un senso alla frammentarie notizie che ci arrivavano. Tutto di un tratto era come se anche i ricordi di quelle splendide giornate venissero anche loro sommersi; come Tamnava, come Valjevo. Scene di devastazione e disperazione hanno fatto riaffiorare alla mente quei fantasmi degli anni ’90 che tutti, un po’ troppo frettolosamente, abbiamo scacciato. Questa volta i fantasmi però potrebbero essere altri.

Le anime di quei principi massacrati nel 1804 a Valjevo per mano degli Ottomani, agli albori di ben altre primavere della storia serba, nella meglio nota "Seča Knezova". Anime che non hanno ancora trovato pace e gridano nuovamente vendetta nel centenario di sangue del 2014. Invocano quella Nemesi che brandisce spada e clessidra, proprio come nell’omonimo dipinto di Alfred Rethel, pronta ad infliggere il suo castigo ed innalzarsi ad alter-ego di un Sole che sembra aver abbandonato quelle terre.

Chissà cosa ne è stato dell’albero di cotogne? Vogliamo ricordarlo là, scosso nella sua tranquilla esistenza da una raccolta un po’ precoce. Forse c’è ancora, forse qualche frutto è addirittura sbocciato quest’estate. Non buono e succoso probabilmente, ma comunque carico di ricordi, emozioni ed impressioni che solo i Balcani, ancora loro questi maledetti, lasciano dentro allo stesso modo di una cicatrice indelebile. Cambiamenti meteorologici, alternarsi delle stagioni, riacutizzano sempre le vecchie cicatrici e così, a modo loro, anche le catastrofi primaverili lo hanno fatto. La ruvida bellezza di quei luoghi avrà comunque il sopravvento e presto o tardi vi faremo ritorno, nei panni di furtivi predatori, speranzosi di lenire la nostra "ossessione" con un’altra Cotogna di Tamnava.

Videcemo se uskoro Tamnava!

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